Alla ricerca delle leggi di Dio
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Alla ricerca delle leggi di Dio

  1. 249 pagine
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Il mondo in cui viviamo e che comprendiamo meglio è quello misurato dal metro e dall'ora, che possiede quei precisi confini spaziali e temporali in cui siamo cresciuti e ci siamo evoluti. Oggi è chiaro però che c'è dell'altro, sopra e sotto. Sotto ci sono le molecole, gli atomi, le particelle elementari e altro ancora fino al limite di grandezza rappresentato da una frazione di metro con un denominatore di 35 cifre intere. Sopra ci sono i pianeti, le stelle e le galassie in un universo che ha un diametro in metri rappresentabile con una cifra a 27 zeri. Più o meno in mezzo ci stiamo noi con il nostro metro. Anzi, per essere più precisi, scrive Edoardo Boncinelli, ci sta lo spessore di un capello o, se volete, il diametro di una cellula-uovo umana. Più in generale ci stanno le nostre cellule ovvero gli elementi costitutivi della vita. Con il suo stile semplice e chiaro, Boncinelli conduce un'affascinante esplorazione della fisica classica e di quella dei neutrini superveloci per raccontare le grandi avventure intellettuali che hanno portato al disvelamento della trama nascosta di cui è fatta la realtà. Alla ricerca delle leggi di Dio parla di tutta la fisica che è necessario conoscere, vecchia, nuova e nuovissima, senza fare ricorso a formule, figure, e neppure esercizi, ma accompagnando il lettore in un viaggio nel mondo dell'infinitamente piccolo e dell'immensamente grande che noi, "strani animali curiosi a cui è cresciuto un po' troppo il cervello", riusciamo ad avvicinare in uno sforzo continuo di interpretazione e comprensione del reale.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2014
ISBN
9788858670255

Il mondo in cui viviamo

Fisica e conoscenza

Viviamo la nostra realtà quotidiana nel mondo che ci circonda, sapendo di questo mondo quanto ci occorre e poco di più, anche se qualcuno può aver studiato alcune delle cose che abbiamo imparato al riguardo. Tale mondo avrà quasi sicuramente una sua realtà autonoma, ma la sua articolazione e descrizione sono una nostra costruzione mentale collettiva.
Va detto innanzitutto che come animali possediamo una certa «impressione» del mondo, e questa è senza dubbio sufficiente a farci vivere in esso e accettare la maggior parte delle sfide che ci pone.
Come è potuto succedere? Crediamo di saperlo. Gli eventi capitati agli antenati dei nostri antenati hanno pilotato il loro sistema nervoso verso una propria «visione» delle cose e un’aspettativa del corso degli eventi, che si sono fissate con i secoli nel loro patrimonio genetico e da esso nel nostro. Si tratta di fare previsioni su ciò che accadrà, ma soprattutto su ciò che non potrà accadere. Un corpo scagliato contro un tronco rimbalzerà, o al massimo vi si conficcherà, ma non potrà compenetrarsi con esso. Se c’è un rumore, ci sarà qualcosa o qualcuno che lo genera. Un oggetto nascosto non sparisce. Se a un oggetto qualsiasi ne aggiungo un altro dello stesso tipo, ne troverò poi due, non uno o nessuno. Banalità, certo, ma banalità che ci portiamo cucite dentro. Se non fosse così ci saremmo estinti, e a qualcuno magari è capitato davvero.
Si parla in questi casi del possesso di una «fisica ingenua» e di una «matematica ingenua», come dire congenite, indubbiamente già presenti nel bambino piccolo. E in molti animali superiori, ovviamente. Per alimentare questa visione molte parti del nostro sistema nervoso, e dei nostri organi di senso, si sono dovute configurare o «riconfigurare» in una determinata maniera. Nello specifico, gli organi di senso sono stati modellati e «sintonizzati» su quanto ci serviva percepire.
Ho detto altre volte, e non ci voglio tornare qui, che i nostri sensi – intendo quelli degli animali superiori – non osservano passivamente il mondo, qualsiasi cosa questo voglia dire, ma lo interrogano. Gli pongono cioè domande specifiche, che attendono un certo numero di risposte altrettanto specifiche, e quello «risponde» come può con una serie di eventi materiali che diventano «stimoli» solo se combaciano con una delle risposte attese dall’uno o dall’altro dei nostri sensi. Oltre a ricevere queste risposte, e a orientarci quindi nel comportamento, i nostri organi di senso e il nostro sistema nervoso stabiliscono in definitiva che cosa è uno stimolo e cosa no. Ovvero che cosa ha da dirci il mondo. E poiché il mondo esiste per noi solo attraverso quello che ha da dirci in una circostanza o nell’altra, sono l’essenza e l’articolazione stessa del mondo a essere fissate dal nostro apparato percettivo, costituito dagli organi di senso e dalle parti del sistema nervoso a essi collegate.
Se a tutto ciò si aggiunge la capacità di memorizzare la maggioranza di queste percezioni, si ha la situazione di ciascuno di noi preso singolarmente – e molto probabilmente di molti altri animali superiori –, ma in noi ci sono anche una percezione e un’articolazione collettive. La civiltà, cioè il risultato dell’evoluzione culturale che ci caratterizza e ci distingue dagli animali, ha avuto e ha tuttora molto da aggiungere a questo quadro, a livello di analisi, accumulazione e memorizzazione degli eventi e della loro articolazione. Il contatto con gli altri, specie nella prima età, la comunicazione con essi che la facoltà del linguaggio ci permette e la possibilità di usufruire delle conoscenze collettive accumulate negli anni modificano più o meno profondamente la struttura e il dettaglio della nostra percezione intellettuale del mondo, arricchendola e rendendola quasi irriconoscibile.
Se dalla percezione irriflessa e pressoché istintiva si passa poi a una sua considerazione più ponderata e articolata, si entra nel campo della scienza o, meglio, dell’investigazione scientifica della natura del mondo stesso. Questo libro parla appunto della nostra conoscenza del mondo fisico, che consta, almeno in linea di principio, di tre grandi domini di conclusioni e di affermazioni: quelle che sono ormai definitivamente assodate e sulle quali non è più ammissibile nutrire dubbi; quelle semiconsolidate, che potranno arricchirsi e dettagliarsi, ma anche riservare qualche sorpresa; e infine quelle provvisorie e più labili, che possono essere aggiornate e riviste in continuazione e che a volte conducono a grandi sovvertimenti. I manuali contengono ovviamente buona parte di quelle del primo dominio e qualche cauto accenno a quelle del secondo, ma se non esistessero quelle del terzo dominio non ci sarebbe progresso e avanzamento della conoscenza.
Un’illustrazione tangibile dei diversi domini della conoscenza si può osservare per esempio all’interno di un moderno acceleratore di particelle, come quello del CERN di Ginevra, dove di recente sono state trovate solide indicazioni dell’esistenza del famoso bosone di Higgs. Le ricerche che vi si conducono sono d’avanguardia e atte a farci affacciare su nuove realtà e nuove concezioni. L’attività di complessi strumentali di punta come questo, per esempio il telescopio spaziale Hubble, appartiene in pieno al terzo dominio di indagine. Ma chi entra in un acceleratore si rende immediatamente conto della consistenza e della rilevanza delle acquisizioni degli altri due domini, soprattutto il primo. Vi si possono infatti osservare strutture di ogni tipo, con tubi, schermi e cavi lunghi chilometri. In condizioni normali tutto questo opera alla perfezione e crea il substrato necessario per il funzionamento dello strumento. Tali apparecchiature rappresentano l’incarnazione della consistenza dei primi due domini della conoscenza fisica, elaborata e applicata ovviamente dalla tecnologia più avanzata e aggiornata. Lo stesso si può dire di qualsiasi congegno da noi usato nella vita di tutti i giorni, dall’automobile al televisore, dal treno al telefonino, per non parlare della strumentazione diagnostica ormai indispensabile in medicina: realizzazioni concrete sostenute dalle nostre conoscenze di fisica ormai acquisite e insostituibili.
Per quanto riguarda il terzo dominio, occorre dire che quello che conosciamo del mondo muta in continuazione e nessuno può sapere né indovinare dove ci porterà. La realtà materiale potrà avere una vita autonoma, ripeto, ma la sua conoscenza no. È il frutto di un processo continuo, costellato di sempre nuove scoperte, anche concettuali, che nel loro insieme vanno a costituire col tempo quello che chiamiamo verità. Una verità stabilita non c’è, né probabilmente ci sarà mai, ma a noi conviene credere che da qualche parte ci sia, e che qualcuno la possa conoscere nella sua interezza, magari anche oggi.
Non è così. La verità, come il futuro, non c’è; o almeno non c’è ancora. Del resto, non si potrebbe nemmeno teoricamente conoscere; di quali domande vorremmo sapere la risposta? Ogni nuova conoscenza porta altre, nuove domande e così via, almeno fino a oggi. Coloro che vogliono credere che da qualche parte ci sia una verità, anzi una Verità, poi amano ritenersi liberi. Se esistesse oggi una verità – e un futuro – vorrebbe dire che non ci sarebbe spazio alcuno per la libertà, nostra e delle cose.
La cosa più interessante che possiamo fare è proprio riandare al gioco di domande e risposte, la maggior parte delle quali non esplicitata, che ci hanno condotto all’attuale conoscenza del mondo e alla sua continua modificazione. Non occorre in realtà parlare di una vera storia, fatta di episodi tutti reali e succedutisi ordinatamente nel tempo; basta una metastoria o una storia idealizzata, che ripercorra però i passi essenziali della nostra marcia verso la conoscenza del mondo.
Il mondo in cui viviamo, e che comprendiamo meglio, è il mondo del metro e dell’ora, che possiede precisi confini spaziali e temporali: sono entità che misurano da un millimetro a qualche chilometro e che partecipano a eventi che si estendono dal secondo a qualche decina di anni. Questi sono i confini di ciò che ci è familiare e in cui siamo cresciuti, e quindi evoluti. Andare più sotto o più sopra ci riesce molto difficile perché non ci possiamo appoggiare al patrimonio di conoscenze implicite consegnatoci dall’evoluzione biologica. Oggi è evidente però che c’è dell’altro, sotto e sopra. Sotto ci sono le molecole, gli atomi, le particelle elementari e altro ancora fino al limite di grandezza che oggi si ritiene inferiore, rappresentato da una frazione di metro con un denominatore di 35 cifre intere. Sopra ci sono i pianeti, le stelle e le galassie in un universo che ha un diametro in metri rappresentabile con una cifra a 27 zeri. Più o meno nel mezzo ci stiamo noi con il nostro metro. Anzi, per essere più precisi, ci sta lo spessore di un capello o, se volete, il diametro di una cellula-uovo umana. Più in generale ci stanno le nostre cellule, ovvero gli elementi costitutivi della vita. E forse non è un caso.
Non voglio insistere su questi numeri – tutte le affermazioni delle diverse numerologie sono a dir poco arbitrarie – ma è chiaro che la vita così come la conosciamo, e gli oggetti del nostro mondo quotidiano, si trovano approssimativamente al centro di una scala di grandezze davvero spropositata. Quel che possiamo conoscere di prima mano è quindi molto limitato, e per il resto bisogna arrangiarsi. Per completezza dobbiamo dire che se invece che di lunghezze si parla di tempi, in secondi, il centro capita a circa un mille miliardesimo di secondo, cioè un picosecondo, 10-12 secondi, a mezza via fra l’intervallo di tempo più corto – occorre per misurarlo una frazione con un denominatore di 44 cifre intere – e l’età stimata dell’universo, un numero in secondi con 17 cifre. In un caso come nell’altro, ci troviamo un po’ sopra il punto centrale di queste immani scale. Affondiamo le radici nel micromondo, ma ci estendiamo giusto un po’ al di sopra di esso.
Per anni e anni è di questa realtà che ci si è occupati, anche se l’astronomia ha considerato da tempo oggetti diversi, dei quali però non si aveva una percezione troppo realistica. È insensato interessarsi dei corpi materiali della vita di tutti i giorni senza chiedersi di che cosa siano fatti – perché sono più o meno elastici, più o meno compatti e perché pesano poco o tanto –, invece è proprio quello che abbiamo fatto. E che ci ha permesso di imparare tante cose, nonostante tutto. Storicamente la meccanica, cioè lo studio del movimento dei corpi e della sua generazione, è stato il primo campo di indagine e oggetto di grandi dispute. E la sua combinazione con lo studio del moto dei corpi celesti ha portato ai primi grandi trionfi della scienza, anche se si dovrebbe dire della meccanica.
Sono stati definiti concetti come la posizione, la traiettoria, la velocità, l’accelerazione e la massa di un corpo, e poi la sua quantità di moto e la sua energia cinetica, ed è stato introdotto il concetto di forza, tutte tappe capitali della fondazione della fisica. A esclusione della traiettoria, le altre caratteristiche menzionate sono dette grandezze, individuate da un numero e da un’unità di misura: 25 metri, 40 chili o 70 chilometri orari.
Possiamo anche definire la fisica come la scienza delle grandezze, perché sono le protagoniste della sua descrizione del mondo, una descrizione quindi prevalentemente quantitativa. Contare e misurare ne sono le operazioni fondamentali, certamente più che per la matematica stessa. Non che in fisica manchino descrizioni qualitative, molte delle quali sono essenziali, ma qualsiasi operazione finisce prima o poi con una descrizione quantitativa. Galileo fu il primo ad affermare che il libro della natura «è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto».
La descrizione matematica delle osservazioni, corredate da misurazioni quantitative, appare come un segno distintivo della nascita della scienza sperimentale. Galileo e molti altri dopo di lui, soprattutto studiosi di questa disciplina, sono convinti che il linguaggio con il quale si può capire il mondo è intrinsecamente matematico. Che la matematica, cioè, abbia una sua realtà che prescinde dal nostro approccio e che addirittura venga prima del mondo materiale e abbia uno status epistemologico, se non ontologico, privilegiato. Anche se tale prospettiva è seducente, io non la condivido. Penso che la quantificazione e la matematizzazione siano state un passaggio obbligato del nostro modo di accostarci al mondo, un passaggio storicamente inoppugnabile, ma non inevitabile perché fondato sulla metafisica delle cose.
La quantità è dominata dal numero, ente astratto che assegna oggetti diversi allo stesso insieme logico, a prescindere dalle loro caratteristiche individuali. Per definizione passa quindi sopra alle differenze e accorpa, piuttosto che dividere e distinguere. Lo statuto di appartenenti allo stesso insieme è fissato a priori e vincola ogni successivo ragionamento. Una volta stabilite le appartenenze, tutto il resto segue automaticamente. Una particolare forma di numero è quello che conta le unità di misura contenute in una determinata grandezza. Occorre però che le unità di misura siano tutte dello stesso tipo, altrimenti non può generarsi altro che confusione. Il numero di oggetti discreti di un certo tipo o il valore di una grandezza sono il nocciolo della spiccata «quantitatività» della fisica. La fisica, se non la scienza medesima, comincia non appena si intraprende un’analisi quantitativa dei fatti.
Il primissimo evento si identifica innanzitutto con l’individuazione dei parametri significativi, anche se la loro significatività si verifica di solito molto dopo, e sulla base dei risultati, teorici e pratici, che se ne trarranno. Come in tutte le cose di questo mondo, un po’ di fortuna non guasta. Consideriamo un esempio estremo. Nell’analizzare la caduta dei corpi si sarebbe anche potuto scegliere come parametro significativo la temperatura dell’aria, misurandola nelle immediate vicinanze del corpo che cade. Saremmo forse arrivati, così facendo, a una legge utile sulla caduta dei gravi? Ne dubito seriamente, anche se in fondo tutto è possibile. La scelta dei parametri significativi nelle diverse circostanze è perciò fondamentale, e fondante.
Raggruppare in maniera sensata gli oggetti e i fenomeni da studiare è, insomma, un’attività scientifica avanzata, se non altro perché così si devono scegliere i parametri da prendere in considerazione e in base ai quali fare le valutazioni. Molte discipline particolari hanno acquisito più slancio una volta messi a fuoco i parametri rilevanti per un’analisi costruttiva. Così, la meccanica ha ricevuto nuovo impulso da quando si è compresa la necessità di osservare e misurare i tempi del moto; lo studio dell’ereditarietà dei caratteri biologici è divenuto una scienza da quando qualcuno ha pensato di contare il numero dei figli nati da una data coppia, i famosi piselli di Mendel; e la teoria della comunicazione si è posta su solide basi da quando ha potuto appoggiarsi su una misurazione accurata della quantità d’informazione. Viceversa, una caratteristica di molte delle scienze che ancora stentano a trovare una loro identità, come alcuni ambiti della sociologia e della psicologia, è quella di non avere individuato i propri parametri significativi, che quindi non possono essere osservati né misurati. È chiaro d’altra parte che non si può prestare attenzione a tutto o misurare tutto, neppure se si dispone di grandi mezzi e di ingenti risorse umane.
Una volta identificati i parametri significativi, si passa a valutarne con accuratezza l’entità e il cambiamento nel tempo. Cioè a misurare. È comodo collocare più o meno convenzionalmente nel Seicento l’inizio della sperimentazione programmata. Quasi contestualmente è cominciata la misurazione, approfittando delle circostanze e delle opportunità più diverse. Si narra che Galileo si servì dei battiti del proprio polso per una stima approssimativa degli intervalli di tempo, ed è certo che ricorse a una misurazione ponderale del tempo stesso. Fece scorrere dell’acqua in un recipiente che poi pesò: più acqua conteneva, più tempo era passato dall’inizio di un certo processo.
In che cosa consiste una misurazione? In linea di principio, nel confrontare l’entità di una grandezza con un campione di riferimento che funge da unità di misura più o meno autorizzata. La misurazione non si conduce mai una sola volta, ma è necessario ripeterla in diverse condizioni. È chiaro che tutto ciò presume una costanza di fondo e una persistenza dei fenomeni nel tempo e nello spazio. Questa assunzione regge tutto il castello della fisica, anzi della scienza.
Tale assunzione capitale si articola a sua volta in altri due assunti, uno sulle condizioni generali degli accadimenti e uno sui fenomeni che abbiamo deciso di analizzare. Il primo, assolutamente non verificabile, riguarda la struttura del mondo, addirittura del cosmo, che veda i fenomeni verificarsi uniformemente, tutti nello stesso modo in tempi e posti diversi, e non si può fare altro che assumerlo. Il secondo riguarda invece la scelta di studiare un dato fenomeno o alcune sue caratteristiche: la scienza non può che essere scienza del riproducibile. Eventi che accadono una volta sola o che si ripresentano con modalità bizzarramente ineguali e difformi non possono essere oggetto di scienza.
Spesso si sente dire che un fenomeno è scientifico se ha una spiegazione. Non è vero. Se un fenomeno ne ha già una, tanto meglio, ma esistono migliaia di fenomeni che non hanno una spiegazione eppure sono scientifici perché rigorosamente riproducibili. È la riproducibilità la condizione essenziale della scientificità. Occorre quindi che lo scienziato scelga fenomeni ripetibili e di essi studi gli elementi riproducibili. Questa rappresenta una severa limitazione, anzi autolimitazione, e restringe di molto il campo di ricerca. Tale aspetto tuttavia non viene sempre ben chiarito e può condurre a pericolose confusioni. Gli eventi del mondo sono così mutevoli che è inutile intestardirsi a volersi occupare di ciascuno. È necessario fare una scelta, optando per quegli aspetti dei diversi fenomeni che mostrano una certa uniformità e regolarità. Questa premessa è indispensabile, ma occorre considerare che la stessa constatazione di una vera riproducibilità può richiedere anche molto tempo e magari una serie di misurazioni. La definizione di riproducibilità o meno è quindi un processo a più step. Cerchiamo però di non introdurre troppe complicazioni, per ora. Se un fenomeno appare ragionevolmente riproducibile, si può provare a metterlo a cimento conducendo una sperimentazione.
Che cos’è allora un esperimento? Non è altro che un’osservazione, generalmente ripetuta, fatta in condizioni particolari adatte a far cogliere allo sperimentatore l’uno o l’altro aspetto non immediatamente evidente del fenomeno in questione. Le condizioni sono in realtà preparate ad arte dallo sperimentatore secondo la sua fantasia e ispirazione, per poter comprendere al meglio ciò che lo interessa. Occorre in sostanza stanare la natura e portarla, per quanto è possibile, su un terreno a noi favorevole. Un esperimento non è quindi niente di più di una serie di osservazioni, spesso favorita dall’uso di strumenti specifici, ma sono le condizioni in cui tutto ciò accade a caratterizzarlo. L’ingegno e l’industriosità dello sperimentatore permettono di realizzare tali condizioni per poter giungere a conclusioni significative relative ad alcune caratteristiche del fenomeno studiato.
Qual è la connessione fra la riproducibilità invocata sopra e la conduzione dell’esperimento? In primo luogo, se l’andamento dei fenomeni dovesse cambiare anche solo ogni tanto, non ci sarebbe alcuna garanzia sulla significatività dei suoi risultati. Nel caso di valutazioni quantitative poi, è fondamentale che anche l’unità di misura non cambi, né per la durata dell’esperimento, né tra un esperimento e il successivo. La costanza nel tempo delle unità di misura è un prerequisito essenziale per la conduzione di qualsiasi esperimento che comporti una valutazione quantitativa. Le conclusioni, anche parziali, della fisica in particolare e della scienza in generale devono valere in tutti i luoghi e in tutti i tempi. Non ci può essere una scienza europea e una australiana, né una scienza dell’Ottocento e una del Novecento, ma possono ovviamente cambiare le tematiche.
Per osservare più agevolmente la caduta dei corpi, Galileo ricorse al trucco del piano inclinato: rotolando su di esso, i corpi cadono con le medesime modalità, ma più lentamente. Il piano inclinato diviene così uno dei primi strumenti utilizzati per eseguire un esperimento. Parimenti, il nostro grande scienziato deve essersi avvalso di uno o più dispositivi per calcolare il tempo trascorso. Con il passare degli anni e dei secoli, gli strumenti si sono via via raffinati e complicati, così che oggi sono indispensabili alla ricerca sperimentale, per generare alcuni fenomeni e osservarli con attenzione. Da un certo momento storico in poi la loro progettazione e costruzione è diventata parte integrante della sperimentazione stessa, e oggigiorno è la disponibilità di strumenti adatti a segnare le grandi svolte della scienza d’avanguardia, e di frequente a fare addirittura la differenza fra laboratori e nazioni.
Lo strumento incarna spesso...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Premessa
  6. IL MONDO IN CUI VIVIAMO
  7. IL MONDO DELL’INFINITAMENTE PICCOLO - E QUELLO DELL’IMMENSAMENTE GRANDE