Luci di luglio
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Luci di luglio

  1. 192 pagine
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Luci di luglio

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Luglio 1960 a Palermo. La polizia del governo Tambroni spara sui manifestanti dello sciopero generale e lascia morti in piazza. In un'altra piazza vicina, quella di Monreale, la gente si accalca sotto il palco di "Campanile sera", popolarissima trasmissione di Mike Bongiorno in cui alcuni Comuni italiani si sfidano su cultura e sport. Monreale si prepara a un contestatissimo bis della sfida con Chioggia, accendendo lo scontro fra Nord e Sud. Intanto, si allestiscono i tradizionali festeggiamenti per Santa Rosalia. E su tutto incombe la profezia di fratello Emman, che fissa per le 13.45 del 14 luglio la fine del mondo.

In questo turbine di avvenimenti, due adolescenti, un apprendista muratore e un cameriere, si ritrovano per caso e decidono di incrociare i loro destini in un progetto balordo, un sequestro che cambierà per sempre le loro esistenze.

In una Palermo illuminata dalla luce, anzi dalle luci, di un riscatto universale, i protagonisti del romanzo trasformano in avventura purissima il groviglio in cui, senza calcolo delle conseguenze, si sono infilati.

Gian Mauro Costa ravviva con talento la tradizione del romanzo di formazione: in queste pagine si sentono Mark Twain e Alain-Fournier, il cinema francese e americano, ma soprattutto si avverte la lingua smagliante di un narratore autentico.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
ISBN
9788835716174

Quarantuno

Palermo, luglio 2017
Vince Monreale… Monreale si conferma campione…
Cento, mille, diecimila volte la voce di Mike è risuonata nella mia testa, durante le mie notti insonni, durante le mie giornate convulse. A disturbare il mio decoro borghese, l’ipocrisia della mia vita, pubblica e privata. Dapprima solo un fastidioso ronzio, come un acufene, di cui mi accorgevo alla fine del lavoro, nel mio studio, quando si accendevano i lampioni di piazza Verdi e la casa si poteva concedere il silenzio dopo l’andirivieni dei clienti, dei collaboratori. Lo consideravo un piccolo tributo da pagare al mio passato, un fardello pieno di spine a cui le mie spalle si sarebbero gradualmente abituate, sino a non avvertirlo più. E invece, con il passare degli anni, ha invaso le mie lunghe ore di solitudine, è cresciuto, reboante, nei momenti di piccole gioie e grandi soddisfazioni, ha invaso, come un’alta marea, la spiaggia delle mie paure, dei miei dispiaceri.
Quelle parole avevano segnato il passaggio irreversibile da un’esistenza a un’altra, da un destino a un altro. Non la proclamazione dell’effimera vittoria di Monreale, ma l’angelo dell’Apocalisse che annuncia quel che sta per accadere, l’uomo che sarei diventato: io, manovale e figlio di un calzolaio, titolare di uno studio notarile affermato. E capace di esprimermi in un italiano forbito.
Quante volte, furtivamente, sono tornato in quelle strade, in quei vicoli, ho tentato di sbirciare dietro tendine sporche e lacere o dietro finestre rinnovate dal denaro arrogante di nuovi occupanti. Spesso nelle notti d’estate, da solo, a piedi, ho rivolto il viso all’insù, verso il terrazzino della mia infanzia – oggi ritornato tetto di un edificio ripulito e affollato di parabole e antenne –, per riacciuffare un brandello di vecchi sogni, l’immagine fugace di un fantasma sensuale che stende la biancheria, la rassicurante e aspra bestemmia di mio zio, il lucore della cucina che ribolle di odori per il pranzo del giorno successivo e suggerisce un’idea di continuità, di sopravvivenza.
E quante volte passeggiando nel centro della città, impettito nei miei abiti professionali, ho cercato di riconoscere un’espressione, una smorfia, un lamento nei volti dei ragazzi sfruttati a fare su e giù, spericolati, con biciclette sgangherate, nelle facce dei mendicanti queruli e aggressivi, in quelle dei migranti disperati e illusi. No, non ho trovato nulla di quel che cercavo. Che avrebbe forse potuto darmi un po’ di conforto, o la conferma atroce dell’esilio da me stesso a cui mi ero condannato. Verso cui Mike mi aveva sospinto con la sua trionfale sentenza.
Sì, Monreale aveva vinto. E grazie al nostro prigioniero, al professor Morello. Pochi in Italia, scrissero i giornali, sarebbero stati in grado di risolvere, nei pochi minuti a disposizione, il problema di Schrödinger. Una trappola congegnata dagli autori della trasmissione proprio alla fine della sfida, un ultimo ostacolo impervio prima del traguardo, nella quasi certezza che non sarebbe stato il passaggio decisivo di una competizione che solitamente, a quel punto, indicava già un significativo divario a favore del vincitore. Il nostro folle progetto, l’ho pensato spesso, era risultato il fattore determinante, tale da predisporre il terreno favorevole per lo scarto ribelle, la levata d’ingegno del professore. Chissà, qualora l’avessero accettato nella bolgia del Pensatoio (ma emarginandolo e facendolo oggetto di continui scongiuri), Morello si sarebbe forse fatto imprigionare dall’avvilimento e dalla frustrazione, senza quindi essere in grado di accendere tutte le lampadine del suo cervello.
Sì, Monreale aveva vinto. Ma come si era risolta, poi, la faccenda? Il riscatto – meglio dire il ricatto – delle cinquecentomila lire era stato pagato? No, e voglio aggiungere: ovviamente. Solo Morello si era illuso per qualche giorno che la parola d’onore data dal presidente del Comitato fosse una reale garanzia per ricevere la somma pattuita. Era stato facile, per il Comitato, trovare mille giustificazioni. Anzi, la situazione si era presto ribaltata: se Morello non avesse cessato di reclamare i soldi, la sua personale situazione, dal punto di vista giudiziario, sarebbe presto precipitata. Dopo l’ebbrezza della vittoria, dopo i festeggiamenti carnascialeschi, dopo le cronache osannanti sulle pagine dei giornali e i locali commenti improntati alla nemesi del Sud, dopo le processioni di ringraziamenti al santuario di Santa Rosalia – indicata da alcuni come la vera protagonista del miracolo, nella sua notte del 14 luglio –, dopo l’ultima scia di sberleffi a fratello Emman per la scampata fine del mondo esorcizzata in pieno dall’immortalità conquistata da Monreale con il record di vittorie a “Campanile sera”, il professore era stato convocato a un incontro ristretto con il presidente e i membri più fidati del Comitato, tra cui l’avvocato Giorgio Buscemi. Era stato quest’ultimo a condurre la discussione. E, una volta fatti i sinceri complimenti e i più sentiti ringraziamenti per il decisivo aiuto finale nella soluzione del problema – come aveva sottolineato un giornale propenso all’enfasi campanilistica, “solo una lucidissima ed eruditissima mente meridionale” poteva elaborarla, ma attribuendo nello stesso tempo il merito all’intero Pensatoio –, era subito passato a far capire che il coltello dalla parte del manico ce l’avevano loro, che Morello aveva la lama puntata al petto.
«Lo scherzo, e lo vogliamo definire così, per carità» aveva mellifluamente argomentato Buscemi, era purtroppo finito tra le carte dei carabinieri. «E loro, benché abbiano tanti meriti» aveva proseguito l’avvocato, «non hanno certo il senso dell’umorismo o della fratellanza cameratesca.» Non avrebbero quindi capito, tantomeno gradito – aveva insistito il legale –, la divertente messinscena del professore, non avrebbero interpretato nel modo giusto la richiesta di denaro. Certo, si trattava di una specie di «rimborso spese del genio» – Buscemi aveva fatto plateale ricorso a una ironica piaggeria –, di un «risarcimento simbolico da destinare magari alla ricerca scientifica», ma per l’Arma, nella sua ristretta visione del mondo, l’unica interpretazione possibile sarebbe stata quella del reato di estorsione. «E di certo» aveva infierito l’avvocato «noi non vogliamo che un nostro illustre esperto, il più emerito tra gli emeriti, colui a cui toccherà adesso un posto d’onore nel Pensatoio, debba subire una simile gogna. Ma non c’è da preoccuparsi» era stata la conclusione, «perché la vicenda, ve lo posso assicurare, si risolverà cestinando la pratica.» Il Comitato avrebbe parlato, compatto, di uno stupido equivoco, di un malinteso poi utilizzato da qualche maldestro buontempone per scrivere quelle sciocchezze, che solo per la concitazione dei momenti precedenti la sfida erano suonate realmente minacciose. E il capitano Bianco, euforico pure lui per la vittoria di Monreale, sarebbe stato di certo comprensivo. «Anzi, sono sicuro» e qui Buscemi aveva anche strizzato l’occhio «che vorrà prendersi un vermut al bar in compagnia del nostro campione. Campione al quale, come segno della nostra riconoscenza» Buscemi adesso appariva addirittura commosso, «saranno consegnate una targa e la riproduzione in bronzo, placcato oro, di un campanile.»
Il resoconto di questo colloquio mi fu fatto da Morello nel corso dei nostri incontri successivi alla serata fatale. Le mie visite erano state all’inizio un modo per ringraziarlo. Aveva infatti deciso di coprire le nostre responsabilità, senza mai fare cenno alla nostra “visita”, al nostro sequestro. «Mi inventerò qualcosa» aveva promesso. «Dirò che mi trovavo isolato, in campagna, per motivi familiari, e che qualche mio compaesano ne ha approfittato per farmi una burla e magari per far capire quanto fosse importante la mia presenza. Suonerà come un atteggiamento infantile» ammise, «ma non faticheranno a crederci. E poi, sono o non sono l’artefice del successo?» Concluse così il suo ragionamento, concedendosi un ampio sorriso. Sembrava davvero un bambino.
Il Comitato, comunque – ma ancora non potevamo saperlo –, aveva poi davvero simulato di accettare la sua versione per raggiungere rapidamente il proprio scopo. Numerose le contraddizioni lasciate volutamente in sospeso, a partire dalla principale: chi aveva recapitato a mano le due lettere? E poi, Morello non aveva forse reclamato per telefono la consegna di mezzo milione, ammettendo quindi la sua correità, se non l’intera orchestrazione del piano?
Il professore, elettrizzato dalla sua decisiva risposta, si mostrava fiducioso – un uomo sicuro di sé, un uomo trasformato – in quella luminosa mattina regalata a Palermo dopo l’interminabile notte della grande sfida con Chioggia. «E vedrete» aggiunse «che bella sorpresa farò, dopo aver intascato i soldi.»
La città si godeva il sonno prolungato del giorno festivo, il 15 luglio, Santa Rosalia. L’eco della vittoria era arrivata, la notte precedente, alla Marina, dove si era radunata la folla per assistere ai tradizionali giochi pirotecnici. Forse un po’ meno numerosa del solito, a detta di qualcuno, per via del richiamo della televisione, ma pur sempre una scenografia umana degna della Santuzza.
Noi – io, Blasco e il professore – non avevamo chiuso occhio fino all’alba. Morello, che non riusciva a star fermo, a un certo punto aveva tirato fuori dalla credenza una bottiglia con un liquido verde, «un rosolio del mio paese», e aveva riempito tre bicchierini a più riprese, sino a svuotarla. Il primo a crollare fu Blasco, poi, a ruota, Morello e io. La mattina successiva, quindi, mi offrì il caffè, mi tese la mano e ci congedammo come se io e Blasco fossimo arrivati alla fine di un lavoro richiesto e avessimo concluso il montaggio di un armadio o la riparazione dell’impianto idrico.
La linea strategica del professore ci fece indubbiamente comodo. Ne parlai con Gaetano quella stessa mattina. Lasciata piazza Verdi e raggiunta Monreale – insieme a Blasco, cui pagai il biglietto dell’autobus –, chiesi al mio silenzioso compagno di andare a casa di Gaetano e informarlo del mio arrivo. Gaetano mi raggiunse trafelato dopo mezz’ora, al belvedere dove l’aspettavo. Io eccitato, quasi raggiante, nonostante il fallimento del nostro piano, per la protezione assicurataci da Morello; lui, invece, frastornato, impaurito per le tante cose che non aveva capito, ancora fremente per lo scontro con Giacomino.
Gli raccontai tutto con calma, ripercorremmo passo per passo tutta la serata alle spalle: incrociando i momenti vissuti dentro l’appartamento e in piazza chiarimmo gli equivoci, confrontammo i rispettivi stati d’animo. Gaetano mi spiegò il perché di quella telefonata concitata con cui aveva chiesto notizie sulla salute del professore e mi informò di quel che era successo nel fondo Cangemi.
Mi venne quasi da ridere: cazzo, pure un vero cadavere? Ma cosa avevamo scatenato? E di chi era quel corpo? Gaetano mi rispose che, con ogni probabilità, non c’era nessun cadavere, che i carabinieri, dopo un paio d’ore, avevano sospeso le ricerche: al boato della vittoria, avevano mollato tutto e si erano uniti ai festeggiamenti. Apprendemmo nei giorni seguenti che era stata una macchinazione di Anciluzzu Matranga, il contadino, che voleva vendicarsi. I militari della Compagnia gli avevano sequestrato, poco tempo addietro, una consistente quantità di ricotta prodotta nel suo ovile perché mal conservata; e Matranga si era tolto i sassolini dai suoi scarponi di contadino lanciando un falso allarme, per fare un dispetto e rovinare lo spettacolo agli sbirri. Lo denunciarono, ma Matranga al bar – mi raccontò poi Gaetano – disse ridendo che quel che avrebbe speso per l’avvocato sarebbero stati i soldi meglio impiegati della sua vita.
Quella mattina del 15 luglio riuscii ad acquietare Gaetano, lo rassicurai sul fatto che tutto sarebbe finito bene, e senza conseguenze per noi, e che sulla lealtà di Morello potevamo mettere la mano sul fuoco. E magari, aggiunsi, ci scapperà qualcosa, vedrai. Lo abbracciai e tornai in città, pronto a rientrare in famiglia.
Arrivato a casa, trovai mia madre in cucina. Era allegra, cantava mentre si affaccendava a preparare il pranzo. Mi chiese distrattamente notizie dei nonni e si premurò di sapere se ero riuscito a vedere “Campanile sera”. Una volta rassicurata, parlò solo della trasmissione e delle sue emozioni, soffermandosi sul colpo di scena finale, «quello del problema di matematica, che ci voleva un cervellone… e per fortuna noi, in Sicilia, ce li abbiamo».
Mio padre, come spesso faceva anche nei giorni di festa, era andato in bottega per portare avanti il lavoro, anche se magari non c’era niente da fare. Ma per lui allontanarsi da casa, almeno di mattina, era una necessità. Quando rientrò mi chiese subito se avessi intenzione di tornare l’indomani nel cantiere di zio Ignazio. Gli risposi di sì: l’ultimo dei miei pensieri era creare ulteriori tensioni. E poi sapevo – era più di un presagio – che la mia vita sarebbe cambiata.
Ne ebbi conferma nei giorni successivi. Ero tornato a lavorare in cantiere, dove tutto adesso era diverso. Zio Ignazio era diventato più esigente, più bastardo che mai. E nessuno osava fiatare, reagire, così come nessuno aveva speso una parola per Andrea, il mio compagno di lavoro ucciso dalla polizia. Un cenno, un ricordo, una preghiera… Nulla. Bisognava ricominciare a chinare la testa, come se niente fosse accaduto, come se quei giorni di rabbia e follia fossero stati solo un incubo.
Il 16 luglio era stata annunciata la formazione di un monocolore democristiano, presieduto da Amintore Fanfani, con l’appoggio esterno di Psdi, Pri e Pli, e la non belligeranza del Psi. Per qualche giorno erano continuate le manifestazioni di protesta per i fatti di Reggio Emilia (Palermo in secondo piano, già vocata all’oblio successivo), ma i toni si erano smorzati, incanalati sul terreno della politica delle segreterie dei partiti, sul risultato di far cadere il governo Tambroni, diventato l’obiettivo delle sinistre. E infatti Tambroni, il giorno 19, presentò le dimissioni. Si erano create le premesse di una svolta epocale: l’ingresso nel governo dei socialisti, l’inizio della stagione del centrosinistra.
Alla fine del turno di lavoro, ogni tanto facevo visita al professor Morello. E un paio di volte ero anche rimasto, su suo invito, a dormire. Tra di noi si era instaurato un rapporto affettuoso: mi considerava, diceva, il nipote (figlio no, non ebbe mai il coraggio di dirlo) che non aveva mai avuto. Mi consolava per le angherie subite in cantiere, mi incoraggiava a proseguire gli studi, lodando la mia intelligenza e le mie potenzialità. Mi confessò che la sua richiesta di soldi al Comitato non era stata certo dettata da interesse personale – anche se, ammise, non avrebbe avuto remore, visto il trattamento riservatogli –, ma che la sua intenzione era destinare la somma a me, Gaetano e Blasco, «Non era quello il vostro scopo?», per garantirci un futuro migliore.
Un pomeriggio – eravamo già in autunno inoltrato – Morello mi invitò a casa sua, disse che aveva una sorpresa per me. Monreale era già uscita di scena da “Campanile sera”. Dopo un’altra esaltante affermazione contro Ariano Irpino, Senigallia aveva infine sconfitto i plurivincitori siciliani: Morello, sempre qualora avesse accettato, non avrebbe fatto in tempo neanche ad avere il posto d’onore nel Pensatoio che gli era stato promesso. Restavano il record e il mito indelebile: Enzo Tortora si era accomiatato con le lacrime agli occhi, Mike aveva tributato i dovuti onori ai supercampioni, gli eroi dei pulsanti continuavano a ricevere attestati di venerazione, gli esperti del Pensatoio erano rientrati nei ranghi scolastici e professionali con la certezza di avere in serbo mirabili racconti da fare ai nipoti.
Accettai senza indugi e con un po’ di curiosità l’invito di Morello. I miei non si stupivano più delle mie assenze. Avevo raccontato loro di aver conosciuto casualmente un professore, era scivolato per strada e io l’avevo aiutato a rialzarsi e accompagnato a casa. Il professore mi aveva preso in simpatia, diceva che ero un ragazzo sveglio e intelligente. Mi guardai bene, naturalmente, dal dire che si trattava del “cervellone” che aveva assicurato la vittoria a Monreale nell’epica sfida con Chioggia. Mio padre mi aveva preso da parte, rivolto un muto interrogativo per capire, “da uomo a uomo”, se quel professore era uno a posto, se insomma non era per caso un pervertito o roba del genere. Rasserenato, mi diede la sua benedizione. Avere una specie di tutore, per me, poteva essere solo un colpo di fortuna.
Quando arrivai in piazza Verdi, Morello mi aspettava sul balcone. Entrai nell’appartamento – incredibile quanto mi fosse familiare, dopo la straniante perlustrazione dell’8 luglio – e trovai tutto lindo e ordinato. Forse era il giorno della cameriera. Sul tavolo del salotto, già apparecchiato per la cena – che solitamente consumavamo in cucina –, ci aspettavano due enormi capricciose.
«Le ho ordinate alla Bellini» precisò il professore, con l’orgoglio di chi si era rivolto al meglio che potesse allora offrire la piazza a Palermo.
Pensai che la sorpresa fosse questa e cercai dunque di mostrarmi il più possibile riconoscente e meravigliato. Ma dovevo ricredermi. Dopo aver mangiato le pizze e bevuto una bottiglia di birra Messina a testa, Morello spense il televisore e attaccò a parlare, con un’espressione improvvisamente seria: «Caro Franco, devo metterti davanti a una scelta di vita…».
Avvertii un brivido, come se mio padre stesse per comunicarmi di avere un male incurabile, o zio Ignazio avesse deciso di sputtanarmi davanti alla famiglia e ai compagni di lavoro. O come se Mike Bongiorno stesse annunciando che la vittoria di Monreale era stata inficiata da un errore e doveva essere annullata. Il professore invece mi espose con molta calma quel che aveva deciso di offrire a me e a Gaetano: a Blasco no, era escluso per evidenti motivi, ma anche per lui c’era in serbo qualcosa.
«Siete dei bravi ragazzi» fu il succo del suo discorso, «e, anche senza volerlo, mi avete dato una grande opportunità. Vorrei che aveste una vita più facile della mia. Ho ricevuto una discreta sommetta… no, nulla a che fare con “Campanile sera”, si tratta di denaro che viene dal paese. E ho deciso di impiegarlo per voi, ma gestendolo io, si capisce, siete ancora dei ragazzi. Ho pensato di coprire le spese per la vostra istruzione, di seguirvi insomma fino a quando non completerete gli studi che più vi si addicono. A Blasco, invece, vorrei regalare un po’ di quattrini per consentirgli di trovare un lavoro lontano da qui, dove ancora è possibile.»
Restai senza parole. Lo abbracciai.
Faticai ugualmente a convincere i miei, il timido scetticismo di mio padre e soprattutto la testarda ritrosia di mia madre, persuasa che il mio fulgido futuro fosse nelle mani di zio Ignazio e nella moltiplicazione di cantieri e costruzioni. In qualche perverso modo aveva ragione lei, come avrei scoperto anni dopo, ma in un ruolo decisamente diverso da quello di manovale o, come lei sognava, di capocantiere.
Comunque, vinte le resistenze familiari, riuscii a proseguire gli studi, anche perché i risultati brillanti non tardarono ad arrivare. Gaetano no, non ne volle sapere. Anche lui era venuto un paio di volte a trovare il professore, anche lui si era affezionato, ma il suo obiettivo, la sua ossessione, restavano sempre quelli: avere un panificio, sposare Antonella. Intanto, aveva trov...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Luci di luglio
  4. Zero. Palermo, luglio 2017
  5. Uno. Palermo, luglio 1960
  6. Due
  7. Tre
  8. Quattro
  9. Cinque
  10. Sei
  11. Sette
  12. Otto
  13. Nove
  14. Dieci
  15. Undici
  16. Dodici
  17. Tredici
  18. Quattordici
  19. Quindici
  20. Sedici
  21. Diciassette
  22. Diciotto
  23. Diciannove
  24. Venti
  25. Ventuno
  26. Ventidue
  27. Ventitré
  28. Ventiquattro
  29. Venticinque
  30. Ventisei
  31. Ventisette
  32. Ventotto
  33. Ventinove
  34. Trenta
  35. Trentuno
  36. Trentadue
  37. Trentatré
  38. Trentaquattro
  39. Trentacinque
  40. Trentasei
  41. Trentasette
  42. Trentotto
  43. Trentanove
  44. Quaranta
  45. Quarantuno. Palermo, luglio 2017
  46. Epilogo. Da “Repubblica Palermo”, 3 agosto 2017
  47. Ringraziamenti in forma di nota
  48. Copyright