Ucraina 24.02.2022
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Ucraina 24.02.2022

L'invasione russa e le conseguenze della guerra in Europa

  1. 216 pagine
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Ucraina 24.02.2022

L'invasione russa e le conseguenze della guerra in Europa

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Informazioni sul libro

La guerra in Europa è un evento che non avremmo più pensato potesse succedere, trent'anni dopo la tragedia nella ex Jugoslavia. Invece l'invasione russa dell'Ucraina ha riportato il conflitto nel nostro cortile di casa. Distruzione, morte, intere popolazioni in fuga dalle proprie case e affetti. E poi l'impatto sull'economia e i mercati, le sanzioni, i prezzi delle materie prime che esplodono, il rischio di restare senza forniture di gas dalla Russia. Il Sole 24 Ore ha messo in campo le sue firme per raccontare questo conflitto e spiegare l'impatto che una tragedia di tale portata produce sulla vita di tutti noi.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788863459791

Parte Quinta

Maschere per un massacro

Da Leopoli a Odessa: le voci di un popolo unito contro l’invasore

La spina dorsale della resistenza è la solidarietà. E in guerra la solidarietà, quella vera, non passa inosservata. Perché si realizza con i fatti, i sacrifici, non con le parole
di Roberto Bongiorni
«Uccidete Putin! Uccidete Putin!». Rinchiusa da sei giorni in un rifugio a Irpin, in quella periferia nordoccidentale di Kiev teatro di aspri combattimenti, Olga si presenta così. Interrompe una conversazione, prende la scena, alza ripetutamente le mani al cielo e invoca la morte del presidente russo. Quasi avesse un conto personale da saldare. Non aggiunge altro.
Olga è una vittima della guerra. Lo è sin da bambina. La guerra le ha strappato i genitori, nel 1943, quando aveva solo due anni. Potrebbe invocare la pace, la giustizia. Invece rinnova la stessa richiesta: la morte del capo di Stato che ha deciso di invadere l’Ucraina e bombardare la sua casa.
Alla domanda se vuole esser portata via insieme agli altri, risponde con un secco no. Resterà a Irpin. Anche se i russi sono a 100 metri. Anche se tra poco ore terminerà la tregua per l’evacuazione a cui stiamo partecipando come testimoni. Anche se i bombardamenti riprenderanno più forti di prima.
Irpin. Il suo ponte fatto saltare in aria, le migliaia di sfollati sotto le sue macerie per trovare riparo. Una delle immagini più simboliche di questo conflitto.
È il dodicesimo giorno di guerra. Ormai anche a Mosca non ci si crea più illusioni: il disegno del presidente russo non si è realizzato così come aveva immaginato il suo artefice. Il secondo esercito più potente del mondo arranca, registra perdite non previste, di mezzi e di uomini, guadagna pochi scampoli di territorio. E proprio per questo aggredisce con più rabbia. Con tiri di mortaio, artiglieria pesante, e razzi, anche contro i centri abitati. Non esita a utilizzare la sua supremazia aerea per colpire ripetutamente.
Lo si era capito quasi subito, che non sarebbe stato facile. Era tuttavia più difficile immaginare che le forze ucraine fossero in grado di opporre una simile resistenza.

Resistere fino alla fine

Ma quando un esercito gode dell’appoggio totale e incondizionato di un popolo intero, e quando questo popolo è disposto a sacrificare tutto ciò che ha, anche la vita, per sostenerlo, allora questo esercito non sarà mai distrutto fino in fondo.
Lo si intuiva subito quando abbiamo deciso di percorre a ritroso il viaggio delle migliaia di profughi che cominciavano a fuggire dal Paese. La spina dorsale della resistenza è la solidarietà. E in guerra la solidarietà, quella vera, non passa inosservata. Perché si realizza con i fatti, i sacrifici, non con le parole. Una volta arrivati a Leopoli ci vuole poco per rendersene conto: gli ucraini sono uniti, la loro resistenza contro l’invasione sarà tenace.

I volontari di Leopoli

Al secondo giorno di guerra, la più anti-russa delle città ucraine, ad appena 60 chilometri dal confine polacco, pare un formicaio.
I volontari si occupano di tutto; dall’accoglienza ai profughi all’allestimento di alloggi, passando per il rifornimento di medicinali e beni di prima necessità ai soldati sul fronte. Lunghe file di aspiranti combattenti si distendono davanti ai centri di reclutamento. Quelli dell’esercito e quelli delle milizie territoriali di difesa.
Il volto deluso dei ragazzi, alcuni adolescenti, respinti perché il numero dei volontari da addestrare per difendere il territorio ha già raggiunto il limite massimo racconta meglio di tante cose la resistenza di questo popolo.

Kiev, il viaggio di chi torna per combattere

Da Leopoli, il nostro viaggio a ritroso prosegue. Prossima meta la capitale Kiev. Di nuovo alla stazione ferroviaria. Dove la disperazione cresce con il passare dei giorni. Ormai sono più di decine di migliaia i profughi in attesa di prendere i treni della speranza. Soprattutto donne e bambini. Gli uomini dai 18 ai 60 anni non possono lasciare il Paese. Dormono per terra, gli uni sopra gli altri. Prendiamo lo stesso treno che poco prima ha rovesciato sulle banchine migliaia di persone in fuga da Kiev. Percorrendo la tratta inversa è quasi vuoto. Ora i viaggiatori sono quasi tutti uomini. La barba incolta, lo sguardo stanco, non hanno voglia di parlare. Hanno accompagnato moglie e figli fino al treno della speranza che li porterà fuori dalla guerra. Ed ora tornano ad arruolarsi come volontari. «Vado a combattere», risponde Dmtri, come fosse un compito ordinario. A cui non si può e non si vuole rinunciare. Dmitri, lui con le labbra sottili, gli occhiali da intellettuale, e le mani affilate che non conoscono un fucile da 35 anni, dai tempi della leva. Allo scoppio della guerra si trovava in Egitto. È tornato precipitosamente.
Mettendo insieme parte dei discorsi degli uomini che incontriamo, e che abbiamo incontrato prima, il quadro liberamente tratto dal loro pensiero potrebbe essere così riassunto: «Voi “europei occidentali” non capite la nostra identità. Perché si fonda sulla collettività, oltre che sulla nostra dolorosa memoria. Noi ucraini possiamo sopravvivere solo e soltanto perché siamo un unico corpo quando si tratta di difenderci. E il concetto di patria, in questo nostro corpo, è forse il più vitale degli organi».
Il viaggio prosegue. Il treno arriva a Kiev in modo discreto. Con molte ore di ritardo, seguendo una tratta diversa per evitare i bombardamenti, a luci spente. Non si può uscire. Bisogna dormire in stazione.

Il silenzio interrotto dalle sirene

I giorni che seguono sembrano tutti uguali eppure sono tutti diversi. Kiev è una città spettrale. Un deserto fatto di case ottocentesche. I nuovi padroni sono i gatti e i pochi soldati disposti nei punti nevralgici (almeno in principio). Non è un’iperbole. Si può avvertire il rantolo di una lattina di coca cola trascinata dal vento anche a trecento metri di distanza. Silenzio e ancora silenzio. Interrotto solo dal lugubre allarme delle sirene. Che qui ricorda un lamento.
Passano i giorni. Aumentano i check point, in centro come in periferia. Aumentano le sirene. Aumentano le persone che lasciano gli appartamenti per andare a dormire nello storico metrò. Aumenta il flusso di chi decide di fuggire verso Occidente.

La Kiev sotterranea

La Kiev di sopra si spopola, la Kiev di sotto si riempie. È una rete immensa di scantinati, cantine, seminterrati riadattati a comunità. Dove le famiglie si sono traferite. Dove si cucina, anche per i soldati, si confezionano abiti, si lavora, si canta.
A Kiev del sottosuolo, dove gli artisti hanno riadattato i loro studi. Dove tutti, ma proprio tutti, sono determinati a resistere. A impugnare le armi contro l’invasore se oserà violare la capitale. Anche tra le strade nel centro di Kiev cominciano a comparire barricate erette con sacchetti di tela riempiti di sabbia, cavalli di frisia, serpentine con blocchi di cemento.
Nei sobborghi di Kiev i volontari ricorrono a tutta la loro creatività per costruire le loro barricate. Lo fanno con vecchi camion, auto rottamate, perfino elettrodomestici, e sedie.
La guerra procede, la guerra si allarga, la guerra inghiotte.
Cade Kherson, mentre Mariupol viene stretta in una morsa brutale, assediata, bombardata, affamata. A Kharkiv gli scheletri degli edifici raccontano la furia di una battaglia avvenuta in spregio di ogni norma sul diritto di guerra.

La rabbia verso Putin

Nel frattempo Putin continua con la giustificazione della sua «operazione militare contro i nazisti». Un ritornello ormai. Ma quando invoca l’appello alla riunificazione dello stesso popolo, gli ucraini non riescono a contenere la rabbia.
«Ucraini nazisti?». Elena preferisce non scomporsi. Ebrea (la comunità ucraina è una delle più grandi fuori di Israele), tra pochi mesi 85 anni, ne ha vissuti 83 nella sua amata Kiev. Dove è nata, e dove vuole restarci anche in questi tempi di guerra. «Non mi sorprende. Quello di Putin è un vocabolario aggressivo. A cui, purtroppo, attinge spesso. Tuttavia, dare del nazista a un presidente ucraino di origine ebraica suona come un paradosso», ci confida sorridendo.
Prepara il tè, poi, nel suo inglese forbito suggerisce come l’ultima controversa affermazione di Putin sugli ucraini – «siamo un popolo solo» – sia “inappropriata”. «Ucraini e Russi hanno sempre avuto relazioni turbolente. Sono diversi. I russi sono portati a obbedire a un leader, un uomo forte, un simbolo, di cui non osano discutere gli ordini. Gli ucraini sono il contrario. Caoticamente indipendenti, non esistano a criticare l’operato di chi li governa. È una relazione complessa». Poi riprende. «Un conto è conquistare un Paese, un altro provare a governarlo quando la popolazione ti è profondamente ostile. E tutti gli ucraini lo sono».
Sì, e ogni giorno che passa la popolazione diventa sempre più ostile. In guerra il sangue chiama il sangue. Le ferite dell’anima si infettano. Il risentimento diviene sempre più forte.

Mykolayiv e Odessa

La guerra sovverte tutto. A Mykolayiv nei rifugi, durante la notte, la gente comincia a inveire non più solo contro Putin, e nemmeno solo contro i soldati, ma anche contro i russi. «Si sentono superiori e in tanti sostengono Putin. Non mi fiderò mai più di loro», commenta sdegnata Anastasia.
Torniamo a Odessa, la più cosmopolita delle città ucraine, la Perla del Mar Nero, assediata dal mare dalla flotta russa, a 20/30 miglia di distanza.
In questa città, dove il sindaco era stato eletto con una lista filorussa, dove si parla il russo e non l’ucraino, e dove molti abitanti hanno legami anche di sangue con la Russia, il risentimento verso gli invasori monta di giorno in giorno.
«Ci vorranno generazioni prima che la cicatrice sia rimarginata», ci aveva ammonito Elena. Ne è convinto anche Hobart Earle, direttore della famosa Orchestra filarmonica della città. Earle poi aggiunge: «Putin ha finito per unire le diverse anime dell’Ucraina. Qui, anche chi parteggiava per il Donbass indipendente, ora è pronto a difendere la sua terra anche con le armi».
Comunque andrà, il prezzo da pagare sarà altissimo. Tra i civili, e tra i soldati. È straziante vedere le loro salme irrigidite, scaricate dai camion, dentro grandi sacchi di plastica nera, in alcuni arrivano in uno spazio allestito a camera mortuaria nella città di Mykolayiv.
Nessuno è in grado di predire oggi come sarà l’Ucraina di domani. Se ancora esisterà. Ma tutti ripetono come saranno i rapporti tra questi due popoli. Pessimi. Se si potrà ancora utilizzare la parola rapporti.

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Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Descrizione
  3. Biografia
  4. Frontespizio
  5. Copyright
  6. Indice
  7. Una bussola per capire la tragedia ucraina Prefazione di Marco Alfieri
  8. introduzione di Attilio Geroni
  9. PARTE PRIMA IL MESTIERE DELLE ARMI
  10. PARTE SECONDA I SOLDI E LA GUERRA
  11. PARTE TERZA ALLA CANNA DEL GAS?
  12. PARTE QUARTA NUOVA GUERRA FREDDA
  13. PARTE QUINTA MASCHERE PER UN MASSACRO