Confini invisibili
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Confini invisibili

Quello che abbiamo imparato sui microbi e le sfide che ci aspettano

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  1. 228 pagine
  2. Italian
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Confini invisibili

Quello che abbiamo imparato sui microbi e le sfide che ci aspettano

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Questo libro ha preso forma in un mondo sotto scacco. Eppure non nasce dal conto degli errori fatti, bensì da una nuova consapevolezza: non siamo i padroni della Terra, perché condividiamo il pianeta con un'infinità di minuscoli abitanti, a volte più potenti di noi. Fin dall'alba dei tempi, batteri, virus e microrganismi possono essere preziosi alleati, ma anche terribili nemici. Fondamentale è quindi studiarli e imparare a conviverci.

La conoscenza del passato è come sempre la via maestra per interpretare il presente. Per questo Barbara Gallavotti ripercorre la storia dei microbi, antica quanto quella dell'uomo, esaminando con profonda competenza e con un linguaggio chiaro le geniali soluzioni che essi hanno adottato per riuscire a non estinguersi, approfittando anzi di ogni occasione per diventare più forti e più numerosi.

Anche il corpo umano, però, in maniera altrettanto stupefacente, ha sviluppato strategie per non soccombere, spesso ricorrendo all'aiuto della scienza. È proprio la scienza che nel corso dei secoli ci ha dotato di armi ben più potenti di quelle che avremmo potuto mettere in campo solo facendo appello al nostro sistema immunitario.

La lunga avventura degli esseri umani sulla Terra è legata in maniera inscindibile al rapporto con ciò che ci circonda, dall'infinitamente grande all'infinitamente piccolo; in una parola, con tutto ciò che chiamiamo «natura». E da questa relazione, ogni giorno sempre più compromessa, dipende la nostra sopravvivenza. Perché senza l'uomo la vita sul pianeta proseguirebbe comunque, magari comparirebbero nuovi organismi, ma senza l'ambiente e la ricchezza della sua biodiversità gli esseri umani sono destinati all'estinzione.

È forse questa la lezione più importante che possiamo trarre dalla recente pandemia: la nostra salute dipende da quella della Terra e di tutte le specie che la abitano, e non tenerne conto, sfruttando senza alcun rispetto le risorse disponibili come se fossero illimitate, ha un costo altissimo.

Non possiamo permetterci di sfidare la natura, o di ignorare i confini invisibili che ci separano e al tempo stesso ci mettono in contatto con gli altri esseri viventi. Occorre invece che ci assumiamo, tutti insieme e ciascuno singolarmente, la grande responsabilità di ricreare la necessaria sintonia con il nostro pianeta: un obiettivo ambizioso eppure esaltante, per il quale ormai non esistono più scorciatoie.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
ISBN
9788835714897
Argomento
Medicina
Categoria
Epidemiologia
VI

Sbarramenti

Quando il nuovo coronavirus ha cominciato a diffondersi in ogni angolo del pianeta, abbiamo tutti scoperto l’importanza del formaggio svizzero… inteso come modello difensivo. In effetti, in mancanza di farmaci specifici in grado di curare a colpo sicuro chi si fosse infettato prima che il microbo avesse tempo di far danno, la migliore difesa appariva mettere fra noi e l’agente infettivo quante più barriere possibile. Certo si era consapevoli di come nessuna di esse fosse perfetta: ciascuna mostrava dei «buchi» che il virus avrebbe potuto agevolmente attraversare. Ma ponendo diverse barriere, la speranza era che i buchi si occludessero l’un l’altro, così come accade appunto nel formaggio svizzero, e tutte insieme riuscissero a impedire l’infezione.
L’idea era decisamente buona e del resto si trattava più o meno della stessa strategia seguita per secoli, anche se noi abbiamo avuto il considerevole vantaggio di poter utilizzare le più efficaci tra le barriere inventate nel corso di molte generazioni unite alle soluzioni più tecnologiche. Ma cominciamo da un espediente in apparenza banale eppure ricco di storia: cercare di tener pulite le mani.
Può sembrare strano, ma il riconoscimento dell’importanza dell’igiene per salvaguardare la salute è recente ed è legato a una storia non a lieto fine: quella di Ignác Semmelweis, un ginecologo ungherese che a metà dell’Ottocento lavorava nell’Ospedale generale di Vienna.

La scoperta della disinfezione

Quello del parto è stato per quasi tutta la storia dell’umanità uno dei momenti più pericolosi nella vita di una donna e purtroppo in parte del mondo lo è ancora. In Italia e nei Paesi dove è possibile garantire l’assistenza più adeguata va incontro a morte per parto una donna ogni 50.000 nati vivi: nonostante ognuna di queste perdite sia una tragedia, in tutta la storia dell’umanità non ci sono mai state condizioni migliori per divenire mamma. Tantomeno nel XIX secolo, quando quella di perdere la vita dando alla luce un figlio era un’eventualità concreta alla quale molte donne si preparavano lucidamente e con anticipo. I parti avvenivano in genere in casa, i medici venivano chiamati solo quando le cose si mettevano male e dunque già il loro arrivo non era buon segno. Gli ospedali erano una sorta di ultima spiaggia alla quale ricorrevano soprattutto i più poveri e disperati. Le donne morivano per complicazioni del parto o emorragie, ma, anche quando tutto sembrava essere andato per il meglio, a pochi giorni dalla nascita poteva comparire una febbre fatale, detta «puerperale»: lo stesso male che non risparmiò neppure donne molto in vista e che nei secoli precedenti aveva lasciato Enrico VIII vedovo dell’amata Jane Seymour e, pochi anni prima, orfana in fasce la futura regina di Francia Caterina de’ Medici.
Tornando a Vienna nel XIX secolo, il numero di morti materne registrate all’Ospedale generale soprattutto per febbre puerperale era terribile. Se proprio si doveva ricorrere a un ricovero, occorreva sperare in tutti i modi di essere accolte nel padiglione dove le mamme erano aiutate dalle levatrici e dove perdeva la vita una partoriente su 50. Mai nel reparto dove ad assisterle erano i medici e dove moriva quasi una partoriente su 7.
Una tale differenza oggi farebbe raggelare il personale sanitario e solleverebbe proteste giustamente implacabili da parte della società civile: si cercherebbe in tutti i modi di capire le cause di una simile strage e per prima cosa si chiuderebbe immediatamente il reparto incriminato. Ma all’epoca le cose erano diverse: si formulavano ipotesi senza conferma, e intanto le attività andavano avanti.
Come dicevamo, nel 1846 nell’ospedale lavora Ignác Semmelweis, il quale nota come una febbre molto simile a quella che uccide le pazienti sia risultata fatale a un collega che si era ferito durante un’autopsia. A questa prima osservazione ne seguono altre che si compongono come tessere di un puzzle: i medici, al contrario delle ostetriche, avevano l’abitudine di passare direttamente dalla sala dissezione dei cadaveri a quelle dove dovevano assistere le partorienti ed eventualmente praticare operazioni chirurgiche, sempre a mani nude. Il ginecologo ungherese ipotizza allora che sia un qualche veleno contenuto nei cadaveri a uccidere. In realtà oggi sappiamo che le febbri puerperali sono causate dai batteri che possono infettare l’utero, dove è avvenuto il distacco della placenta, o altre ferite che si producono durante il parto, e che l’infezione era molto facilitata se le medesime mani che maneggiavano cadaveri già parzialmente in decomposizione e infestati dai microbi toccavano poi senza soluzione di continuità chi stava dando alla luce un figlio.
Semmelweis questo non poteva saperlo, anche perché la teoria dei germi, che attribuisce a microbi le malattie infettive, verrà proposta da Louis Pasteur solo nella seconda metà dell’Ottocento. Però intuisce come il passaggio dai cadaveri alle pazienti possa essere potenzialmente letale e nel 1847 impone a studenti e medici di disinfettarsi le mani con una soluzione di cloruro di calce prima di entrare in sala parto. L’idea non era del tutto nuova. Per esempio Giovanni Lancisi, medico dei papi Innocenzo XI e Clemente XI, nel 1715 aveva indicato l’uso di un composto simile per pulire abbeveratoi e oggetti che avrebbero potuto contaminare il bestiame minacciato dalla terribile peste bovina, e il suo consiglio era stato ampiamente seguito. Ma l’aver capito che precauzioni analoghe avrebbero potuto salvare la vita delle partorienti resta un enorme merito di Semmelweis. E in effetti, in seguito alle sue disposizioni, nel reparto più temuto dell’Ospedale di Vienna i casi di febbre puerperale crollarono fino ai livelli osservati nel padiglione dove operavano le ostetriche e poi ancora più in basso, a mano a mano che il medico ungherese allargava la pratica della disinfezione anche agli strumenti usati per operare le neomamme.
Eppure, come si diceva, la sua storia non è a lieto fine: l’impossibilità di spiegare perché quegli accorgimenti facessero la differenza gli rese difficile difendersi dall’ostilità dei colleghi, restii ad accettare una propria responsabilità diretta nella morte delle loro pazienti e sospettosi verso l’origine non austriaca di Semmelweis. Incredibilmente, colui che avrebbe dovuto essere acclamato come un eroe perse il lavoro e morì ad appena 47 anni, in un ospedale psichiatrico. Ma ormai i tempi erano maturi perché l’igiene divenisse un’arma riconosciuta contro le infezioni. In quegli stessi anni, come abbiamo visto, a Londra John Snow metteva in luce come non i miasmi ma l’acqua inquinata di un pozzo fosse all’origine dell’epidemia di colera, e anche le scoperte di Pasteur erano ormai alle porte. Nel frattempo, inoltre, cominciava finalmente a essere disponibile il sapone, e questa è ancora una volta la storia di una grande ma lentissima conquista.
Molto spesso tendiamo a sottovalutare l’efficacia e la sofisticatezza delle cose che siamo abituati a usare con facilità, eppure pensandoci non c’è nulla di banale nel sapone. È composto sostanzialmente da molecole che possiamo immaginare come spilli, con una testa che vorrebbe stare in acqua, detta quindi «idrofila», e una coda «idrofoba» che invece vorrebbe evitarla e trovarsi piuttosto circondata di grassi (come sa chiunque abbia provato a versare una goccia d’olio nell’acqua, grassi e acqua non si mescolano facilmente e tendono a restare il più possibile separati). Quando ci laviamo le mani, di fatto le cospargiamo con acqua in cui galleggiano queste particelle a «spillo», le quali si staccano dalla saponetta che sfreghiamo fra le dita. Naturalmente, però, queste particelle tendono ad aggregarsi, formando delle sferette nelle quali le «teste» propense al contatto con l’acqua si dispongono all’esterno, e racchiudendo all’interno le «code» che invece sfuggono l’acqua. La disposizione ricorda un po’ quella di certi erbivori, che in caso di attacco dei predatori si posizionano in cerchio lasciando gli adulti sul perimetro esterno e proteggendo i piccoli all’interno.
Tornando alle molecole a forma di spillo che costituiscono il sapone, per formare queste sferette esse si aggregano o ad altre particelle di sapone, oppure ad altre molecole con le loro stesse caratteristiche. E, per nostra fortuna, molti virus sono avvolti da un doppio strato di molecole che assomigliano per struttura a quelle del sapone. Di conseguenza, quando le molecole di sapone incontrano queste molecole simili, le strappano letteralmente via dal virus, uccidendolo (verrebbe quasi da dire «scuoiandolo», ma sarebbe decisamente troppo riconoscere ai virus il possesso di una pelle). Quindi è chiaro che il sapone funziona al meglio contro i virus e i batteri che hanno questo tipo di rivestimento di molecole simili a quelle del sapone, fra i quali vi sono per esempio i coronavirus, ma anche i virus dell’epatite, Zika, Ebola, Dengue e molti altri. Virus diversi, come quello della poliomielite, non hanno un involucro di molecole simili a quelle del sapone, e dunque non sono facilmente danneggiabili. Ma il sapone poi si sciacqua con l’acqua, che può portar via, come un’alluvione, anche i microbi sopravvissuti, e dunque lavarsi le mani non è mai inutile.
Perché il sistema funzioni, però, l’acqua saponata deve raggiungere bene tutti gli angoli della mano, quindi bisogna sfregare bene i palmi, il dorso e fra le dita; qualcuno dice che bisogna farlo per il tempo necessario a cantare Tanti auguri a te, qualcun altro che va fatto con la cura che metteremmo a lavarci le mani se avessimo appena finito di spezzettare peperoncini e dovessimo cambiarci le lenti a contatto, esempio che pare rendere bene l’idea.
Arrivare a trasformare questo piccolo prodigio tecnologico in un bene di largo consumo non è stato facile. Sembra che i primi a ottenere del sapone siano stati gli antichi egizi, però era un prodotto raro e costoso, e così è rimasto per millenni, durante i quali infatti ci si lavava poco. Questa sostanza che in parte attira l’acqua e in parte la respinge poteva essere ricavata miscelando grasso e natron, cioè lo stesso sale che gli egizi usavano nell’imbalsamazione; però si trovava solo in Egitto ed era costosissimo. Carovane di cammelli hanno attraversato il deserto per portare il natron ai ricchi dell’Occidente desiderosi di togliersi di dosso, non troppo spesso, un po’ dell’abituale sporcizia. I più poveri potevano ottenere qualcosa di vagamente simile mischiando grasso e cenere, ma il risultato non era granché.
Nel 1770 gli inglesi in guerra con la Spagna si impossessarono delle Isole Falkland, che sono vicino all’Argentina: molti le ricordano perché britannici e argentini se le sono aspramente contese nel 1982. Le Falkland sono fredde e desolate, però il mare circostante è ricco di alghe che possono essere usate in sostituzione del natron. Mettere le mani su di esse fu una grande conquista per gli inglesi: significò poter lavarsi! Sembra che i francesi invidiassero questo privilegio, tanto che nel 1775 il re Luigi XVI in persona promise un importante premio per chi avesse trovato un’alternativa altrettanto efficace. Fra gli altri si mise al lavoro un giovane medico, Nicolas Leblanc, il quale, dopo dodici anni di sforzi e investimenti, arrivò a una soluzione: la soda, che può sostituire il natron o le alghe e che lui comprese come produrre su larga scala. Il premio era conquistato… o meglio avrebbe dovuto esserlo. Insorse un problema, infatti: l’incombere della Rivoluzione francese. Il re, che avrebbe dovuto garantire il premio, inevitabilmente si trovò ad avere altre priorità sulle quali concentrarsi. Leblanc si mise allora sotto la protezione del duca d’Orléans e costruì una fabbrica di soda. Ma la sorte era sempre più avversa: i rivoluzionari presero il potere, decapitarono il re e il duca d’Orléans, ed espropriarono la fabbrica allo sfortunato Leblanc. Venne infatti considerato filomonarchico, anche se forse il principale scopo dei suoi contatti altolocati era sempre stato riuscire a riscuotere il premio che avrebbe risollevato lui e la sua famiglia da una situazione finanziaria disastrosa. Invece la sua fabbrica venne abbandonata e, senza premio, Leblanc andò in rovina. Finì per morire suicida, senza mai sapere che sulle ceneri dei suoi sforzi pochi decenni dopo sarebbe nata l’industria chimica europea e sarebbero stati sviluppati farmaci importanti come l’aspirina.
Anche se per vie lunghe, tortuose e faticose, nei secoli abbiamo capito che contro le malattie infettive l’igiene può esserci di grande aiuto. E questo vale anche per patologie respiratorie come l’influenza, nelle quali un agente infettivo entra nell’organismo soprattutto tramite minuscole particelle di saliva e muco rimaste in sospensione nell’aria, ma può trovare una via di accesso anche attraverso gli occhi, la bocca e il naso toccati dopo che le mani hanno raccolto il microbo da superfici infette. Paradossalmente, però, proprio nel caso del nuovo coronavirus la reale possibilità di infettarsi in questo modo è stata progressivamente ridimensionata: non che non esista, solo che la probabilità sembra essere davvero molto bassa. A conti fatti, gli esperti continuano a considerare la pulizia delle mani e delle superfici una misura utile: uno degli strati del «formaggio svizzero» che vale la pena continuare a tenere al suo posto, anche perché tutto sommato è una buona abitudine abbastanza semplice da attuare. Purché non porti a dimenticare di utilizzare altre precauzioni che si sono rivelate più fondamentali, in particolare l’aerazione. Qualcuno ha anzi suggerito che proprio l’esperienza con SARS-CoV-2 ci porterà forse a filtrare sistematicamente l’aria degli edifici, adottando per la pulizia dell’aria che respiriamo un’attenzione paragonabile a quella che abbiamo ormai da decenni imparato a riservare alla salubrità dell’acqua che beviamo. Del resto, proprio la garanzia di acqua pulita ha limitato drasticamente l’impatto di colera, tifo, gastroenteriti e di innumerevoli altre malattie dovute a virus, batteri, vermi e a vari rappresentanti di praticamente tutte le forme di vita che compongono il grande zoo degli agenti infettivi.
Per il momento, però, il modo più semplice per contenere il numero di microbi che possono raggiungere le nostre vie respiratorie è mettere una barriera fisica fra noi e loro.

Mascherine e distanziamento

Appunto, le mascherine. In fondo, forse, coprirsi naso e bocca e cercare di «filtrare» l’aria è la più antica delle misure contro le infezioni, un tempo messa in atto anche con ingenuità quasi commovente. Come quando durante l’imperversare della peste del Seicento i medici indossavano speranzosi una sorta di costume che comprendeva una maschera dal lungo becco. In quest’ultimo, com’è noto, trovavano posto erbe aromatiche e curative alle quali veniva affidato il compito disperato di filtrare l’aria dai «miasmi» che si ritenevano responsabili del flagello. E ancora ai tempi della regina Vittoria era di gran moda portare con sé piccoli mazzolini di fiori o sacchettini di erbe profumate da premere sotto il naso quando capitava di dover fendere una folla. L’usanza scompare con l’inizio del Novecento e d’altronde molto presto l’arrivo della prima guerra mondiale fa rapidamente tramontare la residua popolarità di ogni atteggiamento languido e vezzoso.
L’invenzione di una vera e propria mascherina si può far risalire a un’epidemia di peste che colpì la Manciuria fra il 1910 e il 1911 e finì per provocare 60.000 vittime. Su quel territorio all’epoca avevano i loro interessi tre imperi – quello cinese, quello russo e quello giapponese – oltre che un buon numero di nazioni occidentali. Un’epidemia di peste rappresentava un problema internazionale e non si risparmiarono gli sforzi per contrastarla. Dopo millenni di false piste, si era finalmente capito che il male si trasmette soprattutto attraverso le pulci, le quali pungono prima un ratto infetto e poi un essere umano trasmettendogli il batterio. Dunque si cercò di arginare il contagio agendo su quel fronte. Ma la peste tirò un colpo basso, perché quella non era un’epidemia della comune peste bubbonica bensì di una diversa forma della malattia: la peste polmonare, nella quale il batterio riesce a infettare le vie respiratorie e si trasmette per via aerea, come il Covid-19. Un medico, il dottor Wu, lo intuì e inventò le prime mascherine che possiamo considerare moderne: erano formate da due strati di garza, con in mezzo dell’ovatta. Le fece indossare al personale medico, a chi doveva occuparsi dei corpi, ai malati e a chiunque potesse venire a contatto con loro. Si dice che abbia incontrato moltissima opposizione, perché a pochi sembrava plausibile che la peste potesse in certe occasioni trasmettersi attraverso l’aria, e invece aveva ragione. Diede un contributo alla fine dell’epidemia, e probabilmente inventò anche uno strumento medico di base, ma fondamentale.
Con l’arrivo della terribile influenza spagnola si diffondono ovunque mascherine simili a quelle che abbiamo imparato a conoscere, anche se certo non efficaci quanto le nostre mascherine chirurgiche o quelle ancora più avanzate. Tuttavia, in ogni epoca si fa quello che si può con quello che si ha.
Nell’ottobre 1918 il sindaco di San Francisco impone di coprire naso e bocca con protezioni formate da almeno quattro strati di tessuto, punendo i trasgressori con provvedimenti che vanno da una multa di 5 dollari fino ai dieci giorni di arresto. Naturalmente non mancano le opposizioni: c’è chi si lamenta dell’aspetto da «muso di maiale» conferito dalle mascherine, chi protesta per «la perdita di umanità», chi insorge contro le ingiuste ingerenze del governo. E i testimoni raccontano di qualcuno visto con la mascherina che penzolava mollemente da un orecchio o veniva tenuta disinvoltamente in mano. Se si pensa che quella che l’umanità stava affrontando era una malattia respiratoria che provocherà dai 50 ai 100 milioni di morti, c’è da mettersi le mani nei capelli. Per poi strapparseli ricordando che opposizioni sostanzialmente analoghe hanno largamente contribuito a consentire la diffusione del nuovo coronavirus, e a ritardare il momento nel quale avremmo potuto metterlo nell’angolo. Come se fossimo incapaci di trarre informazioni dalla storia del passato: non solo sull’utilità delle mascherine, ma anche sulla presunta totale libertà di poter scegliere quale porzione di pelle coprire.
In realtà, se ci pensiamo, questa libertà non è mai esistita, in nessuna parte del mondo e in nessuna epoca storica. È sempre stata limitata da un misto di consuetudini, opportunità e anche rispetto per gli altri. Persino in società molto tolleranti come le nostre, scoprirsi eccessivamente nei luoghi pubblici o al contrario coprirsi il volto in determinate situazioni è proibito. In effetti la mascherina è particolarmente difficile da accettare, perché ci toglie la possibilità di mostrare il sorriso, che è una delle caratteristiche più prettamente umane: nelle altre specie scoprire i denti è un segnale di aggressività, mai di amicizia. Però in circostanze come quelle poste dall’epidemia di Covid-19 coprire naso e bocca, e non solo la bocca, è il modo più evidente per dimostrare attenzione verso gli altri, visto che le mascherine servono sì a proteggere ma sono soprattutto efficaci nel difendere gli altri da noi, nel caso fossimo nelle condizioni di trasmettere il virus (cosa in genere molto difficile da escludere a priori). Eppure, non in tutte le culture accettare l’obbligo delle mascherine è stato altrettanto difficile. In particolare non lo è stato in Asia, dove indossare una mascherina per evitare di infettare gli altri era già pratica acquisita attraverso una serie di eventi tragici.
In Giappone si può tracciare una linea quasi continua nella tradizione di coprire naso e bocca, a partire appunto dalle misure prese nel 1918 contro la Spagnola. Appena una manciata di anni e nel 1923 il Paese è messo in ginocchio dal terribile «grande terremoto del Kantō», di magnitudo 7,9. Il sisma semina distruzione a Tokyo e intorno all’attivissimo porto di Yokohama, cioè in un’area dove all’epoca vive un quarto della popolazione giapponese. Ma il peggio deve venire, perché la terra trema due minuti prima di mezzogiorno, quando la gran parte degli otto milioni dei residenti della zona si prepara al pranzo. Nelle case nipponiche, costruite con materiale estremamente infiammabile, i bracieri sono accesi. Si rovesciano, le fiamme vanno fuori controllo e cominciano a divampare gli incendi, che confluiscono gli uni negli altri fino a scatenare i vortici mastodontici di quello che viene chiamato un «tornado di fuoco». Le vittime saranno stimate in oltre 120.000.
Per settimane l’aria rimane irrespirabile, colma di ceneri, e le mascherine tornano prima a essere una necessità, e poi si trasformano in un’abitudine per divenire ancora una volta una necessità in occasione dell’epidemia di influenza del 1934. La stessa combinazio...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Confini invisibili
  4. Introduzione
  5. I. Un mondo pieno di microbi
  6. II. Alla conquista del pianeta
  7. III. Il volto del nemico
  8. IV. Contagio
  9. V. La malattia
  10. VI. Sbarramenti
  11. VII. Vaccini
  12. Epiloghi
  13. Ringraziamenti
  14. Copyright