Infinitamente piccolo, infinitamente grande
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Infinitamente piccolo, infinitamente grande

io, la nanomedicina e la vita intorno

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  1. 456 pagine
  2. Italian
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Infinitamente piccolo, infinitamente grande

io, la nanomedicina e la vita intorno

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Informazioni sul libro

Infinitamente piccolo, come una particella. Infinitamente grande, come la vita, o come la passione per la ricerca.

Mauro Ferrari, il gigante della nanomedicina, racconta la sua storia di scienziato e di uomo. Lo fa a modo suo, mescolando le discipline, giocando con le parole, suonando tutti gli strumenti a sua disposizione per trasmettere sempre lo stesso pensiero: bisogna amare la vita e lasciarsi vivere da lei.

Il dolore, l'abbandono, la perdita sono comuni a tutti, saperli gestire e trasformare in qualcosa di buono è il segreto di pochi. Mauro Ferrari è uno di questi. Appena trentenne ha visto morire di cancro l'amatissima moglie senza poterla salvare, e da allora si è dedicato alla ricerca di una cura efficace contro le metastasi. A quello che lui, con tipico understatement, definisce "il mio mestiere di scienziato improbabile in cerca di una cura forse impossibile per le metastasi epatiche e polmonari".

E così, con una squadra di giovani biologi, matematici, medici, ingegneri, chimici venuti da tutto il mondo, ha inventato la nanomedicina, un sistema per veicolare il farmaco direttamente nelle cellule malate. Un gigantesco passo avanti nella terapia dei tumori.

In questo libro la vicenda umana dell'autore (la perdita della prima moglie, le gioie dei cinque figli, il secondo matrimonio, l'abbandono del padre, la ricerca delle origini, le profonde amicizie umane e animali) e quella scientifica (una carriera strepitosa, un numero infinito di lauree, premi, riconoscimenti per le sue scoperte fondamentali) si intrecciano, coinvolgendo il lettore in un'ardua ma affascinante maratona, alla fine della quale si renderà conto di aver imparato molto.

Infinitamente piccolo, infinitamente grande è infatti come un viaggio nella mente di uno scienziato, dove al posto di numeri e formule si scopre un paesaggio fatto di musica, di creatività, di natura, di amore. Tutte cose che aiutano nella ricerca dell'eccellenza. Tutte risorse magiche alla portata di chiunque.

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Informazioni

BOH-1

METALOGIE, PERSONAGGI, INTERPRETI E ABBANDONI

(Sottotitolo: Non so il significato della vita, altrimenti l’avrei messo nel titolo. O almeno qui)
Così ti risparmiavo pure di leggere il resto
2

Des Moines

Un capitolo importante, così importante che lo scrivo stando in piedi. Può essere che il mal di schiena abbia a che fare con la scelta di scrivere in piedi, e magari anche con il fatto che nella casa nuova di Giacomo non ci sono sedie e tavoli disponibili: abbiamo finito di scaricare il camion a noleggio alle due di mattina, ed è ancora tutto sottosopra, qui da lui a SeaTac, nello stato di Washington.
Ma non importa il perché, intanto sai che scrivo stando in piedi, e te l’ho detto nella speranza di accattivarmi i tuoi favori o almeno il tuo interesse: ed è ben per questo che ci ho aggiunto un paio di descrizioni narrative. E quindi, subito alcuni spunti metalogici, se mi permetti:
  • DES MOINES #1. Se hai una carta, giocatela, no? Anche se è arrivata per caso. Aspetti forse il permesso di qualcuno?
  • DES MOINES #2. Siamo la narrativa di noi stessi, quella che decidiamo di condividere. Corollario: siamo tanti, ognuno di noi. Bi-corollario: e non “siamo” individualmente, siamo relazionalmente. Vero, falso, in continuo cambiamento, metaforico, analogico, boh. Trattiamo un tema intrecciato in diversi capitoli, diversissimi tra loro, e pure senza cronologia? Magari scrivendolo in piedi? Sorry, mi viene così, proprio non potrei e non vorrei imbrogliarti, smerciandoti altra roba.
Che figlio magnifico, Giacomo. Trentun anni, cuore d’oro, un grande cervello per i computer, la capacità di guardare le cose con quegli occhi a raggi X che gli dicono automaticamente non solo come funzionano gli oggetti, e se c’è qualcosa in essi che non va, ma anche la loro storia, e soprattutto cosa vorrebbero diventare, nelle sue mani così talentuose, pazienti, irrequiete, creatrici di futuri. Oggetti meccanici, elettronici, ottici, mistomare, tutto prende vita nelle sue mani, rigorosamente vegetariane.
Adesso sta dormendo, e dormirà fino a tardi, ma poi, quando riprenderà, andrà avanti con energie creative fino a tardissimo, fino alle prime luci dell’alba, dando vita ai suoi progetti. Ai suoi progetti/oggetti; anzi, progetti/soggetti, nel senso grammaticale di attori, pure loro.
Ma pure progetti, ovvero proiezioni. A proposito di proiezioni, mi viene in mente come la gestione del senso dell’abbandono abbia influenzato (ok, diciamo pure: “ancora domini completamente”) il mio rapporto con gli oggetti. E forse anche il suo, specialmente dopo la morte di mamma Marialuisa, ormai quasi venticinque anni orsono.
Domattina riparto per la California, inizia una nuova vita.
Anzi, continua a ricominciare quella vecchia.
Ma per il momento sono in piedi nella sala della casa, nuova per lui, seppur vecchietta d’età, dopoguerra americano, forse il periodo d’oro degli Stati Uniti, almeno nelle mie fantasie. Su quel fiordo del Pacifico che qui chiamano Puget Sound.
Tra dove siamo a SeaTac e le acque gelide del Puget Sound, la sua costa splendida, aspra, rocciosa, frastagliata, e i playgrounds acquatici delle sue balene, c’è una cittadina, a nome Des Moines. Ieri mattina presto, dopo la prima notte sul materassino gonfiabile nella vecchia casa nuova, mi è venuto il desiderio di esplorare, e naturalmente sono partito di corsa, senza avere idea di dove sarei andato.
Scarpette, maglietta, ginocchia da sessantenne. Ok, ok, ok. Pronto a tutto.
Quattro, cinque, sei, otto chilometri, l’aria è fresca e c’è un sole chiaro ma delicato. Attraverso zone molto diverse, diverse comunità, e diversità etniche, alcune in difficoltà. Anche case abbandonate, quartieri fragili, tesi, e in evidente disarmo, seppure all’ombra dei ricchi giganti della tecnologia: Microsoft, Amazon, Boeing, altri ancora. Sono curioso, corro quasi senza accorgermene. Trovo 216th Street (ehi, cerca su internet i posti di cui scrivo, li menziono apposta, così mi accompagni, no?), un imponente viale tenuto in condizioni perfette, una lunga discesa verso il Sound che si scorge a qualche chilometro di distanza. E mi si presenta un mondo diverso, inaspettato. Insieme a Mary Poppins salto in un dipinto analogico nel parco metaforico, e mi trovo realmente sulla riva dell’oceano, porticciolo per yacht e barche a vela, ristorantini e caffè, pontile per i pescatori e farmers market nel parcheggio, come ogni sabato mattina. Sorrido, e sorrido di nuovo. Giacomo neppure lo sa, dove è venuto a vivere, ne sono certo. Tra il suo stile di vita un po’ solitario e il Covid, fino a qui non ci è ancora arrivato. Gli porterò la buona notizia della grande bellezza di questo posto; anzi, corro subito da lui!
Svolto, ho visto abbastanza, riparto, prendo una salita ripida ma sempre con un’impeccabile copertura d’asfalto, stile Pacific Northwest, tra villette in legno e negozietti di quartiere. E passo davanti a un caffè che sta aprendo, pure lei con un sorriso. E allora no, mi fermo, ho visioni immediate di mocha, come qui si chiama la bevanda calda con tanto caffè, cioccolata, e panna montata.
E qui parte il duello…
Lei mi chiede: «Tazza grande?». Rispondo: «La più grande che hai, baby», sentendomi come Clint Eastwood in un film spaghetti western. Ribatte: «Formato mega?». Guardo il contenitore, un secchio a forma di tazza, quasi un litro di roba. Dico: «Certo», non ho scelta. Chiede: «Quanto caffè?». Rilancio, virilmente: «Quattro tazzine di espresso». Risponde: «Ok, ne tolgo due, di solito la faccio con sei». Ha vinto lei. Il cappuccino western si è concluso, in pochi secondi.
Ma forse no! Ecco, mi rialzo dal tappeto: «Quelli sono donuts?». Le famose ciambellone ipercaloriche e supersature di glucosio all’arrembaggio!!! Con crema e cioccolata, più stelline di zucchero e zuccherini colorati! Dichiaro: «Ne prendo… quattro!». È il trionfo, pure in trasferta, dove le ciambellone valgono doppio. Mi siedo con il mio secchio di caffè per asporto e i donuts al tavolo esterno. Ma baby, sono le 7.30 di mattina, siamo a latitudine impervia, sul gelido Pacifico, c’è vento, io sono tutto bagnato di sudore, e ho freddo freddo freddo.
Devo quindi ripartire subito, non c’è tempo per la mocha: ma mai abbandonare ciò che ami! Ecco che emerge furtivo il tema dell’abbandono… e allora metto il coperchio sul bicchierone di carta in mano destra, i donuts nel sacchetto in mano sinistra e riparto, correndo in salita, due, tre chilometri, verso Giacomo, e armato del mio amore, in formato donuts da condividere.
Non c’è dubbio, la visione è chiara:
  • DES MOINES #3. Quando corri in salita, portati sempre donuts. Con le stelline di zucchero. Colorate.
Lungo la strada, trovo un signore di mezza età in difficoltà, forse senzatetto, certamente affamato. Afroamericano, sovrappeso, i vestiti in disordine, l’aspetto trasandato, chissà dove ha dormito. Gli viene un po’ da ridere, a vedermi sessantenne correre in salita con la colazione in mano. Contatto di occhi: facciamo amicizia, e due donuts passano a lui.
Ergo, la verità si fa strada:
  • DES MOINES #4. Scrivila pure tu, questa metalogia, come preferisci. La mia versione comprende le parole: “almeno 4 donuts”.
Facciamo colazione insieme a Giacomo, a colpi di donuts rimasti. Mi sento leggero, esuberante. Posso condividere con lui quello che ho visto, così bello che mi dà sollievo, anzi gioia nel pensare che Giacomo vivrà circondato da tanta bellezza.
Avevi visto giusto, Giac, quando hai scelto di prendere casa qui: un posto che mi sembrava improbabile, forse azzardato. Hai visto bene tu. E per processo metalogico, mi vengono in mente altre volte in cui hai visto giusto tu, e mi hai insegnato, con il tuo esempio, le tue domande, la tua coscienza, il tuo rispetto anche per chi non è d’accordo con te. Quando mi hai chiesto se giustificavo la pena di morte, ed eri ancora bambino, e io ti ho guardato e ho cambiato idea, rendendomi conto che non avrei più potuto in nessun modo accettarla, visto che mi ero reso conto di non essere in grado di spiegarti perché. O come è successo con il vegetarianesimo, con il quale tu sei così eticamente rigoroso, mentre io lo sono ancora solo in maniera discontinua. O i consigli che mi hai dato dopo la disavventura dello Stuparich, per evitare rischi quando faccio le mie folli corse in montagna.
Mi sono sempre fidato così ciecamente di te, Giac. Quando mamma Marialuisa è morta, all’ospedale Alta Bates a Berkeley, ti sono venuto a prendere a casa per portarti a salutarla per l’ultima volta. Avevi sei anni. E dopo avertela fatta salutare, ti ho chiesto se fosse il caso di fare lo stesso con le tue sorelline Kim e Chiara. Avevano solo quattro anni, e non volevo spaventarle, non ero sicuro se fosse giusto portarle a vedere la mamma morta, ho esitato. Ci hai pensato un po’, mi hai risposto di andare a prenderle. L’ho fatto, avevi ragione.
In retrospettiva, mi spiace di aver esitato, di averti messo in condizione di dover rispondere a una domanda così difficile. Non c’è il manuale d’istruzioni per imparare come comportarsi quando ti muore la moglie, a soli 32 anni, con tre figli piccoli. Né quello per i figli, per quando muore la mamma giovane, lo so, ma tu sei stato bravissimo. Né quello per la mamma che muore.
Ma lei sapeva.
Grazie Giac. Di nuovo, mi hai insegnato cose che non avevo avuto la capacità di vedere e di capire. Anche se erano così profondamente abbracciate al significato della vita.
Ecco, ti ho raccontato delle cose importanti: le fondamenta. Adesso vado a sedermi. O forse a correre. Seduto. E non metaforicamente. Vedrai, nella prossima storia.
3

Stuparich

Perché mai corro così tanto, non ne sono sicurissimo. Ho cominciato intorno al mio cinquantesimo compleanno, ovvero circa dieci anni fa, dopo aver sempre odiato la corsa lunga, anche nei miei anni più sportivi, in arrembante gioventù. So bene perché ho iniziato, ma non altrettanto perché sto continuando.
In questi dieci anni ho fatto mezzo giro del mondo di corsa, 20.000 chilometri. Vorrei fare l’altra metà prima di unirmi alla maggioranza (come dicono i russi, per fare riferimento al passaggio a “miglior vita”). Arrivato a 19.999, andrò più piano della tartaruga di Esopo, e conterò su Zenone di Elea per garantirmi una vita infinita, seppur paradossale.
Le analogie non mancano, le metafore neppure. Una è la corsa sul tapis roulant, dove mi sono spremuto per migliaia di chilometri, compresa la prima maratona della mia vita, tra l’una e le sei del mattino circa, nella palestra del personale, al mio vecchio ospedale, lo Houston Methodist. Quando sono tornato a letto, sudato e improbabile alle prime luci dell’alba, Paola non mi ha neppure chiesto: “Dove sei stato?”. O: “Perché sei sudato?”. Come cantava Dean Martin: That’s Amore, baby!
Tapis roulant come metafora, semplice! Corri, corri e corri, e sei sempre lì. Full of sound and fury, signifying nothing, scriveva il Bardo. Pieno di suoni e travolgenti emozioni, ma senza significato. Tutte le tabelle del mondo, e i record bestiali, al limite del suicidio (dove Macbeth diventa Amleto), e non ti sei mai mosso da lì. Hombre!
Maratona come metafora della ricerca contro il cancro – la missione dichiarata della mia vita – questa sì, ha più contenuti energetici. Ci vogliono in media diciassette anni da una scoperta scientifica alla sua disponibilità come nuovo prodotto farmaceutico. E bisogna aggiungere gli anni di ricerca scientifica precedenti la scoperta, quelli senza bussola nella foresta. È una vera maratona, anzi molto, molto di più.
Specialmente perché non ci sono cartelli a indicare la strada. Sei sempre da solo a doverti orientare. Non sei mai sicuro di potercela fare, nemmeno a superare il prossimo ostacolo. E hai tempo per fare una maratona sola, nella vita.
E se sbagli un bivio, torni alla metafora precedente, il tapis roulant.
***
Stuparich. Un bivacco sotto il gruppo di montagne friulane detto lo Jôf del Montasio.
La sera prima, il concerto di NanoValbruna, in mezzo alla foresta famosa per i suoi alberi che da secoli forniscono il legno per gli strumenti ad arco più pregiati del mondo. Su un palco allestito nel Punto della Risonanza, così chiamato in onore delle proprietà acustiche dei magici abeti locali. Lì ho suonato i miei sassofoni, cantato, ballato, raccontato di scienza, metafore, e BOH, insieme alla gloriosa Rhythm and Blues Band di Cividale, Friuli, Italy.
La mattina dopo, come promesso dal palco durante il concerto, parto di corsa su per le “mie” montagne, in Val Saisera. Il piano è chiaro, come concordato con gli esperti locali: salire fino al Rifugio Grego, poi scendere lungo il sentiero del bosco, attraversare il greto asciutto del torrente, risalire fino al Bivacco Stuparich, godere della splendida vista sulla valle, con dietro i giganti di roccia del Montasio, e poi scendere! Sì, ma scendere come? «Torna indietro verso il Grego, e al torrente asciutto prendi il bivio per il paese» aveva detto l’esperto, ma io, ingenuamente creativo: «E perché non continuare avanti dopo il bivacco, e scendere facendo un giro completo, senza rifare la stessa strada?». E lui: «No, c’è un pezzo esposto, e con il Covid la segnaletica sul sentiero non è chiara». E io: «Ma certo, promesso, promesso, non vado a cercar notte». Certo, darling, dicevo sul serio.
In tutto calcolo di starci circa tre ore, quindi non ho bisogno di portarmi nulla: non mi piace correre portando cose, mi cambia l’assetto, e la schiena si ricorda tutti i sessanta. Niente acqua, niente cibo, niente integratori, niente cambio d’abiti. Facciamo anche niente telefonino visto che ci siamo, ok? E niente cervello; ma d’altronde chi ne ha bisogno, quando c’è il cuore, e qui c’è il cuore del mio ricordo di anni da bambino su questi stessi monti e stessi sentieri, e di papà militare alpino con tutta la mitologia che ne consegue, che ancora mi fa salire le lacrime agli occhi se sento la banda suonare il magico Trentatré.
Scarpette, maglietta, ginocchia come sopra. Ok, ok, ok. Pronto a tutto. Sulle mie montagne.
La salita per il Grego è perfetta per me, sentiero largo e ben tenuto, la frescura e la fragranza degli alberi; vado con passo elastico e gioioso, quasi commosso come solo un caprioletto sessantenne può sentirsi. Arrivo al rifugio in cima passando a tutta velocità qualche gruppetto di escursionisti più tradizionali, zaini, scarponi, cappelli e camicie a scacchi. Chiedo al ragazzino, il figlio del gestore: «Come si arriva al bivacco?». Consultazione di famiglia e riparto sorridente, stavolta per un sentiero stretto, poco marcato, nel bosco. Ehi, fin su allo Stuparich da ragazzino non ci ero mai arrivato, ma guarda adesso!
Per chi non lo sapesse: sui sentieri di montagna ci sono segnali dipinti su rocce o alberi, per indicare la via, due o tre strisce rosse e bianche, talvolta il numero del sentiero. L’idea è che da ogni segnale si può vedere il seguente; ed è ben così che non ci si perde nella foresta. Almeno in teoria, perché poi tante volte alla segnaletica capita qualcosa, o magari viene nascosta dalla vegetazione, e allora bisogna andare avanti e indietro e su e giù e a destra e a sinistra per trovare quella dopo: un po’ a tentoni, come le cellule di cui ti ho scritto nel capitolo Uno… ma le hai guardate al microscopio o no?
E io perdo subito la strada, saranno passati quindici minuti da quando ho lasciato il Rifugio Grego. E tutti gli alberi sono uguali dopo un po’, e destra diventa sinistra, e nel cercare su e giù le gambe si stancano e cresce un po’ d’inquietudine (InquietUdine, da cui il nome della mia amata città). Allora metto l’orgoglio da parte, e chiamo a gran voce: «Ehi, del rifugio, mi sente nessuno?». Due o tre volte, non risponde nessuno, mi sento ancora più scemo, e allora ok, respiro profondo, mi rimbocco le maniche metaforiche, e riparto alla ricerca del sentiero.
E pure lo trovo, non ci vuole neppure tanto, quando la testa si è schiarita. E lì devo scegliere: adesso che ho raggiunto la sicurezza torno indietro, o…? Ebbene “fatti non fummo”, come ben esortava l’Ulisse dantesco, e quindi avanti verso le Colonne di Stuparich!
Nessun problema, ci scendo con buona velocità, trovo il greto e sono confortato, riparto in salita verso il bivacco: qui non si corre, anzi bisogna usare le mani più volte per arrampicarsi, e fare pausette per rifiatare.
Al bivacco trovo chiusa la casetta – Covid!!! –, quindi non c’è l’acqua sulla quale avevo fatto ingenuo affidamento. Ma la sete si fa sentire forte e chiara, e a occhio (niente orologio, no?) sono passate un paio...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. INFINITAMENTE PICCOLO, INFINITAMENTE GRANDE
  4. pre-BOH. UN PRELUDIO
  5. BOH-1. METALOGIE, PERSONAGGI, INTERPRETI E ABBANDONI
  6. BOH-2. ONDE LACHESI
  7. BOH-3. WABI-SABI
  8. BOH-4. BUSSOLA SPAZIOTEMPORALE
  9. Copyright