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Costa Concordia: 8 vigili del fuoco e l'impresa mai raccontata

  1. 144 pagine
  2. Italian
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Costa Concordia: 8 vigili del fuoco e l'impresa mai raccontata

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"Siamo finalmente saliti in cima alla nave, ma non è facile starci. La nave dà grossi scossoni e restare in piedi sulla murata liscia come una lastra di ghiaccio è complicato. Il rumore del ferro che striscia contro la roccia è un gemito che dice tutto. La nave sta andando a fondo. Non so che fine faremo." Albi. Andre. Bartolo. Beppe. Bronco. Lallo. Massi. Trap. Sono i soprannomi degli otto pompieri saliti a bordo della Costa Concordia mentre imbarcava acqua dopo un inchino suicida a soli novanta metri dall'isola del Giglio, all'altezza degli scogli della Gabbianara. Era il 13 gennaio 2012, ultima tappa della crociera "Profumo d'agrumi". In Apnea, per la prima volta, la tragedia della Concordia viene raccontata dalla viva voce di chi ha strappato a morte certa centinaia di persone ferite, intrappolate, smarrite e in molti casi abbandonate a loro stesse durante le manovre di evacuazione. Nessuno di quei vigili del fuoco altamente specializzati vuole oggi sentirsi chiamare eroe, perché chi fa quel mestiere è allenato nel corpo e nella mente ad affrontare situazioni drammatiche e lo vive come la normalità. Eppure leggendo le gesta di questi uomini, resi ciechi dal buio della notte e frustati dal mare mosso, è evidente che hanno compiuto qualcosa di eccezionale, di totalmente al di fuori della norma. Mentre l'enorme scafo della Concordia scivolava verso il fondo del mare con scricchiolii e spaventosi tonfi, in completo blackout e inclinata sul lato di dritta, i nove pompieri hanno dato anima, cuore e braccia per individuare e soccorrere tutti i sopravvissuti che non erano riusciti a mettersi in salvo dopo l'ordine di abbandonare la nave. Sempre in squadra, lavorando senza tregua, senza rifiatare un solo istante, ricorrendo anche alla fantasia di fronte agli ostacoli imprevedibili, trascinando di peso persone immobilizzate e terrorizzate, Albi, Andre, Bartolo, Beppe, Bronco, Lallo, Massi, Trap hanno soccorso, aiutato e liberato gli involontari prigionieri del disastro nautico, fermandosi solo quando il loro comandante ha decretato la fine dell'operazione. A distanza di dieci anni dall'evento gli otto co-protagonisti, insieme al loro comandante, svelano cosa è successo veramente dentro le viscere della Costa Concordia, una città galleggiante che trasportava oltre quattromila persone fra passeggeri e personale di bordo. Un racconto corale coinvolgente, emozionante, tremendamente vero, che fino a ora è rimasto silenziosamente custodito soltanto nei loro cuori, in un'apnea della memoria.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
ISBN
9788835715221

Apnea

La scommessa

Trap. Sono sulla murata del ponte 6. Con Bartolo e il Com siamo i primi a essere saliti su questa nave di cui non conosco il nome. Forse il Com lo sa ma non gliel’ho chiesto. L’arrampicata sulla biscaglina di prua è terminata quassù. È uno spazio chiuso, non presenta passaggi verso l’interno, solo questo che vedo a prua e immagino uno a poppa. Ora che la nave si è girata pare un’enorme pista bianca d’atterraggio per aeroplani. Saranno almeno trecento metri da cima a fondo.
Mi guardo intorno e mi rendo conto che stanotte sarà un intreccio di vite, di storie, di momenti. Dalle radio delle motobarche sentivamo che a bordo non c’era nessuno. Non è così. È pieno di persone che dovremo tirare fuori, perché da sole non ce la faranno. Non tutte. E legheremo i nostri destini ai loro, in questo mondo sottosopra che sta sprofondando; e noi con lui. Il rumore che sento mi dice questo. Che la nave si muove. E io lo so cosa c’è appena più in là. Mi ci sono immerso non so quante volte da quando ero ragazzo. Il fondale va giù per settanta metri. E allora i conti me li faccio in testa rapidamente. La buca è capace di inghiottirla tutta la nave che pare una città.
Questa è una realtà. L’altra è che da qui non scenderemo finché non avremo portato in salvo tutti i naufraghi. Questi che vediamo all’aperto del ponte 6 e quelli che cercheremo in ogni buco, locale, meandro e cabina della nave. Dove sarà possibile andare e fino a che non finiremo nello sprofondo.
Non sprechiamo tempo. La scommessa è su chi fa prima. Se lei a inabissarsi o noi a tirare fuori tutti. Dico a Bartolo di controllare al ponte 5 per capire la situazione che c’è là sotto. Le voci che arrivano si sentono bene. C’è gente che urla. Intanto faccio una rapidissima ricognizione per pianificare il lavoro. Soprattutto cerco di individuare un punto dove poter sistemare in sicurezza le persone man mano che le porteremo fuori. Tutto chiaro. La scommessa è fatta.

No officers

Il Com. È una gara contro il tempo. Non ho alcun dubbio, la nave si può inabissare da un momento all’altro e il nostro obiettivo è semplice: più persone tiriamo fuori, più ne salviamo. Non è facile. Siamo abituati a lavorare con condizioni di contesto meglio definite. Fissare lo scenario è fondamentale: comanda lui nelle emergenze. Qua è impossibile. E il nostro compito è arduo. Mi colpisce la rassegnazione che vedo nelle persone adagiate lungo il ponte all’aperto rovesciato. Se ne stanno lì buttate passivamente, in attesa non so di che o di chi. Forse di noi ma siamo pochi. Non si muovono. Non gridano. Niente di niente. Iniziamo a svegliarle da questa sorta di torpore. È importante che si riprendano perché devono aiutarci. Un conto è che camminino, seppure con il nostro aiuto, un altro doverle trasportare a peso morto. E poi con una visibilità pressoché nulla e su un terreno estremamente scivoloso. Mi affaccio per guardare i ponti sottostanti. Vedo un inferno. Alla calma qua sopra corrisponde l’agitazione di sotto. Credo che sia per l’effetto tranquillizzante generato in chi sta fuori dal vedere la costa vicina. Quasi bastasse scendere e uscire. Non è così. Andarsene non è affatto facile. Anzitutto la via di fuga è unica: la scala poppiera. In qualunque punto ti trovi, devi raggiungerla per scendere. E nella nave sbandata non è una passeggiata. Neppure per noi.
Lascio Trapassi e Bartolommei. Lo so che tra loro si chiamano con i soprannomi, ma io sono pur sempre il comandante. Sanno cosa fare e vado a cercare l’altro Com, quello della Concordia. Vedo di trovare, se non lui, almeno un ufficiale del suo equipaggio, qualcuno che possa darmi indicazioni sull’evacuazione, magari su quanta gente c’è ancora a bordo. Un’idea me la sto facendo a occhio. Ci saranno almeno 700 persone, la maggior parte in grado di salvarsi da sole: devono solo raggiungere la biscaglina di poppa, mettersi in fila e scendere. Ma altre no. Se non le tiriamo fuori restano qua e finiscono in fondo al mare. E questo vale anche per noi. Bisogna fare presto. Ma per organizzare il soccorso sarebbe importante che qualcuno ci fornisca delle indicazioni precise. Trecento metri da prua a poppa sono tanti. Non incontro ufficiali nel tragitto sulla murata di sinistra, che è l’unica via a disposizione. Prima era la parte che stava in acqua. La superficie è liscia e non offre presa alle suole, gli oblò di vetro ora fanno da pavimento, ci sono alghe e sporcizia e in alcuni punti delle chiazze d’olio sversato da qualche macchinario. Dopo che la nave è ruotata, la murata da verticale ha preso un’inclinazione quasi orizzontale. Solo nella parte alta, però, creando una fascia dove si riesce a camminare. Ma qualche metro più giù la pendenza aumenta fino allo strapiombo sul mare. Insomma, finire di sotto è più facile che restare sopra. Mi torna alla mente il collega che qualche anno fa, fra i vari scenari possibili per un’esercitazione, propose di prendere in considerazione una grande nave da crociera che facesse naufragio su una piccola isola italiana. Lo prendemmo in giro, perché non era uno scenario oggettivamente credibile. Ecco, ora mentre rischio di cadere ci ripenso.
Raggiungo la poppa, dove trovo quattro membri dell’equipaggio che si prodigano a sbarcare i naufraghi, facendoli scendere dalla biscaglina. Credo che siano cingalesi. C’è un mare di gente in fila che aspetta per andarsene. Provo a parlarci ma il loro inglese è masticato. Fatico a capire cosa dicono. Una frase però mi è chiara e chiude la mia ricerca: «No officers, no officers». Niente ufficiali.

Senza la squadra

Bartolo. Mi affaccio al ponte 5. Il buio è interrotto dalle lucine intermittenti dei giubbotti di salvataggio. Fuori ce n’era un’infinità, abbandonati in mare e sulla costa. Qua sono pochi ma speciali. Perché in questi c’è dentro qualcuno, non sono stati gettati dopo l’uso. È un accendi e spegni incessante che indirizza la mia ricerca. Mi calo dal ponte 6 come posso, sfruttando ogni appiglio utile. Balaustre, corrimani, soprattutto l’intelaiatura metallica della gru delle scialuppe. Trovo tre persone buttate a terra nel terrazzino capovolto, dove parete e pavimento si sono invertiti. Inermi. Mute. Sono da solo e non sono abituato. I vigili del fuoco lavorano in squadra. Ti senti protetto quando sei con gli altri, anche per le decisioni da prendere che sono sempre collettive. Si discute pure, in certi frangenti. Momenti di nervosismo che fanno parte delle dinamiche normali e che contribuiscono lo stesso a raggiungere l’obiettivo. Adesso no. Devo fare io. «Sono Stefano» mi presento. È importante stabilire un contatto umano. Non siamo numeri ma persone. «Io sono Elena» mi risponde una del gruppo. «Faccio parte dell’equipaggio» aggiunge. Un’informazione positiva: dovrebbe avere un minimo di preparazione per affrontare un’emergenza. Dovrebbe. Perché mi sa che su questa nave manca.
Mi guardo intorno ma è buio pesto. La sola luce è data dalla lampada che ho in testa. Un cono che illumina solamente dove lo punto. Il resto è nascosto. Per uscire devono ripercorrere la stessa via che ho utilizzato scendendo, non ce ne sono altre. Mi avvicino al gruppetto dei naufraghi. Una è una signora portatrice di handicap, la terza una signora anziana e piuttosto in carne. Sono francesi ma Elena mi aiuta traducendo le indicazioni che gli do. Devo capire come fare per portarle di sopra. Il sistema lo trovo da pompiere, ossia arrangiandomi. Vedo poco distante un cancelletto in metallo. Uno di quelli che stanno nei giardini. Lo scardino, lo giro in maniera che la griglia formi dei pioli e lo lego a una cima. Faccio salire la prima signora. Lei si tira facendo forza sulla corda e io la spingo da sotto. Esce dalla sagoma del terrazzino ma qua si scivola. Appena fuori è disturbata da uno degli elicotteri che ci passa sulla testa. Il rombo del motore è pazzesco, la disorienta, si alza in piedi come a volerlo afferrare ma cade violentemente e batte un polso. Resta dolorante a terra ma nulla di grave. Il peggio è come tenerla in sicurezza mentre torno a prendere l’altra. Accanto a me c’è Elena. Le dico di aiutarmi, di mantenerla sdraiata nella mia attesa. Torno sotto. Ho una sensazione strana addosso. Sono ancora solo. Non vedo gli altri. Una cosa che mi toglie il respiro. E poi ho sete. Tanta sete. La muta da 5 millimetri che indosso è uno strazio. Sarebbe buona per scendere in acqua, ma all’asciutto è pesante e mi fa sudare troppo. Se non bevo muoio, penso. O almeno non avrò più le forze per proseguire il soccorso. Cerco. Trovo una bottiglietta d’acqua aperta ma va bene lo stesso. Qualsiasi cosa va bene per non farmi bruciare muscoli e cervello dalla sete.
Cominciamo la scalata utilizzando gli appigli che conosco, gru, ringhiera, corrimano. La donna si attacca, io la sorreggo, la spingo, la tiro. Siamo a metà tra il 5 e il 6. Guardo su e li vedo. Per primo Bronco, poi Lallo, Beppe. Eccoli. Non sono più solo. Mi sento rincuorato dalla loro presenza. Mi aiutano nell’ultimo tratto fino alla murata. Ma non è solo questo, il loro aiuto è anche psicologico. Siamo pochi ma siamo una squadra.

Sottosopra

Trap. Il Com è andato a prendersi il comando della nave. Sì, insomma, è andato a cercare gli ufficiali, anche se a occhio mi pare che non ce ne siano. Intanto Bartolo è sceso al ponte 5 da una mezz’ora. Le voci che sentivamo venivano da laggiù. Ha già portato fuori tre donne ed è di nuovo sotto. Sento che mi chiama. Ha trovato due ragazzi. Scendo da lui. Anche se scendere non significa prendere le scale o un ascensore, significa calarsi. Vuol dire aggrapparsi alle ringhiere, alle balaustre, ai corrimani e scendere. La nave, appoggiata sulla murata di dritta, si è inclinata di almeno settanta gradi. Settanta, ma sento che si sta piegando di più. E allora magari arrivasse a novanta e ciò che era nato orizzontale finisse in verticale. Con le pareti esattamente al posto dei pavimenti e viceversa. Invece no. Quasi. Un’imprecisione geometrica che ti spacca le gambe. Per tenerti in piedi devi compensare senza sosta la forza che spinge di lato. L’unico sollievo è nel punto di incontro tra pavimento e parete, dove la pressione si allevia e l’acido lattico smette per un po’ di masticarti i muscoli. Fuori da quell’equilibrio è un tormento. Le porte degli spazi comuni si spalancavano verso l’esterno per consentire l’uscita rapida in caso di pericolo. È un bene, perché se ci passi sopra non ti si aprono sotto i piedi facendoti cascare nel vuoto. Un male se devi aprirle, perché devi fare uno sforzo enorme per sollevarle contrastando la gravità. Innanzitutto, ci sei sopra con il tuo peso, quindi devi scostarti di lato e tirarle facendo forza in modo innaturale. Pare che pesino quintali. Le porte delle cabine invece si aprono all’interno. Per quelle che ci stanno sotto i piedi basta girare la maniglia ed è fatta. Le porte dall’altra parte sono sopra le nostre teste e tocca al contrario spingerle. Solo che i mobili ci sono finiti sopra e allora è inutile provarci. Il controllo di queste va fatto da esterno nave, attraverso gli oblò.
Il resto è un mondo rovesciato che il cervello non decodifica d’istinto. Nel mondo in posizione normale se avanzo alla cieca, tastando con il piede, riconosco lo scalino di una rampa che scende. So che poi ce ne sarà un altro e un altro, e vado. Nella bestia accasciata sul fianco le scale si aprono sulla parete e le porte stanno per terra o sul soffitto, il cervello non riesce a leggere queste immagini difettose. Deve studiarle. Capire dove andare e come muoversi. Ogni passo è una fatica penosa.
E la nave si sta muovendo. Dopo essersi ribaltata quasi completamente ha trovato il fondale che digrada. E ora ci sta scivolando sopra, muovendosi verso il baratro di settanta metri che c’è più in là. Che ci porterà a fondo con lei è una certezza. Sento gli scatti che fa accompagnati da rumori di lamiera e scossoni che mi buttano a terra. Si muove e ci tiene a farmelo sapere. Magari mi sta avvisando di scappare. No. Vuole solo farmi paura. Ci riesce. Ma ho davanti ai miei occhi questi due ragazzi ed evito di pensarci. Devo occuparmi di loro. Senza perdere tempo.

La nave mi fa paura

Bartolo. Quando l’avevo vista da sotto no. Non mi aveva spaventato. La nave mi aveva trasmesso una sensazione di stabilità. Un blocco assoluto e fermo. E all’inizio ho lavorato con tranquillità, mi sono mosso con scioltezza nel suo corpo smisurato fatto di pozzi allagati. Questo sembrano, dei pozzi. Sono i corridoi che dopo che si è inclinata si sono trasformati in cavità verticali. Vanno giù per decine di metri e in fondo c’è l’acqua. Con questo nero, inviolabile, rischio di finirci dentro senza neanche accorgermene. E comunque sono tutti pozzi. Anche le cabine, qualsiasi locale lo è diventato dopo il ribaltamento.
Mi viene un pensiero cupo. Che fine avranno fatto le persone che erano nelle cabine, nei corridoi e nei locali sul lato di dritta della nave? Quando si è capovolta, l’acqua del mare deve averla penetrata con una forza devastante, invadendo e sommergendo ogni cosa. Se c’erano passeggeri non hanno avuto scampo. A pensarci mi vengono i brividi. E poi c’è questo bobom bobobobom. Un rumore cupo. Martellante. Continuo. Che entra nel cervello. Ecco, ora sì. Adesso la nave mi fa paura. Capisco che si muove. E che diventa sempre più inclinata. Sono al ponte 5. Al chiuso. Se affondasse non riuscirei mai a mettermi in salvo. Anche di corsa impiegherei dieci minuti a tornare su. I pensieri mi si aggrovigliano in testa. Mentre cerco i dispersi ci ragiono. Credo che anche se fossi all’aperto mi porterebbe a fondo lo stesso. Insomma, o ce ne andiamo o il rischio è questo.
Vedo una lucina arrivare da dove sono entrato. Ecco il Trap. Ha finito la ricognizione sul ponte e ora è con me. «Che dici… andiamo a fondo?» gli domando appena mi raggiunge. Non mi risponde ma è un sì. Mi preoccupo. «Che si fa?» gli chiedo. «E che vuoi fare?» risponde. «Bisogna portar via questa gente.» Me lo ripete tre volte. Con calma. E certo. Che altro possiamo fare? Nessuna possibilità di scelta. Andiamo avanti a cercare.

Dove sono le mappe?

Il Com. Ripercorro all’indietro i trecento metri di murata viscida del ponte 6. Giunto a metà, incrocio Bennati e Falciani che conducono due donne verso la via di fuga a poppa. Sarà questo il nostro punto di scambio dove faremo la spola, gli dico. Nel prossimo recupero arriveranno fin qui da prua e io proseguirò con le persone verso poppa. Il tragitto è lungo e per loro farlo per intero sarebbe uno spreco inutile di tempo. Cerco di aiutarli così.
Tornato a prua trovo il resto del gruppo. Sono saliti anche Scoccia, Bronchini e Bartalotta. Di norma le squadre sono fatte da cinque vigili del fuoco, ma qua serve ampliare la nostra possibilità d’azione. Sono sette in tutto, li divido e formo tre squadre ridotte. Tre, due e due, con Trapassi e Bartolommei che già portano su naufraghi dal ponte 5.
C’è ancora gente che grida di sotto. Tanta. Troppa da gestire per un’evacuazione complessa com’è questa. Regna il panico, tutti cercano la salvezza e appena ci vedono la reclamano all’unisono. Ma siamo pochi. La Concordia è grande come una città. Ci muoviamo in un ambiente ostile e sconosciuto, dove sarebbe facile perdersi pure in condizioni normali e con la luce. Anche così non troveresti mai il bar o la sala massaggi o il cinema senza chiedere o seguire le indicazioni dei cartelli. E adesso che è tutto sottosopra è impossibile orientarsi. Ma come si fa a svuotare una nave da crociera senza avere a disposizione una mappa?

Quattro alla volta

Beppe. Sul ponte 6 trovo Trap e il Com che sono saliti prima di noi. Bartolo è sceso sotto a cercare gente intrappolata. Non siamo soli sulla nave come temevo e mi sento meglio. Comunque, non siamo soli ma neppure in tanti. Prima sentivo dalle radio sulle motobarche che a bordo non c’erano più naufraghi. Ma quando mai?! Chi sarà stato a dare quelle informazioni facendoci credere che avremmo eseguito un controllo veloce e via? La nave è piena di passeggeri. Decine e decine. Centinaia. Parecchi sono ammassati a prua mentre la salvezza è a poppa. Si tratta di avviarli lungo la murata della nave, e accompagnare noi quelli che non camminano o gli anziani. Il problema sta nella distanza tra punta e coda della nave. A occhio direi che saranno trecento metri e farli avanti e indietro con questa gente, camminando sulla murata inclinata e scivolosa della nave è rischioso e lento. Gli scossoni che arrivano mi fanno capire che bisogna fare in fretta. Prima scendiamo e meglio è, penso.
Che poi questa è la parte più semplice delle operazioni. Il peggio sarà soccorrere e portare fuori la gente che sta nei ponti di sotto. Al ponte 5 di sicuro ce n’è. Sento le grida ma temo che arrivino anche dal ponte 4. «Sbrighiamoci» esorto Lallo e Bronco come se ne avessero bisogno. Sono con loro, il Com ci ha divisi in gruppi e ci muoviamo così. Scendiamo aggrappandoci ad appigli di fortuna, l’appoggio più facile ce lo offre la gru delle scialuppe di salvataggio. Ora che la nave sta sul fianco non è più alabile e non può svolgere il suo compito di mettere in acqua le lance.
Entriamo nel corridoio scavalcando un terrazzino. A dirlo pare facile ma non lo è. Nella pancia della nave è buio pest...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Apnea
  4. Prefazione. di Virginia Piccolillo
  5. Introduzione. Profumo d’agrumi
  6. Otto vite al servizio degli altri
  7. 13 gennaio 2012
  8. Apnea
  9. Respiro
  10. Dieci anni dopo
  11. Fino all’ultimo
  12. Postfazione. di Virginia Piccolillo
  13. Copyright