Il numero due
Per sei volte fu fissata la data dell’esecuzione, per sei volte Claude Frizzell Bloodgood III scampò alla sedia elettrica. Nel frattempo, non smise mai di giocare a scacchi. E quando, nell’ottobre 2000, il cronista del «Washington Post», Michael Leahy, andò a trovarlo nel Powhatan Correctional Center, a 30 miglia da Richmond, in Virginia, per raccontare la storia di una sporca dozzina di condannati a morte – tra cui il giovane Claude, che nel 1972 si vide sospesa l’esecuzione della sentenza a seguito del verdetto di incostituzionalità della pena capitale sancito dalla Suprema Corte americana (che però, quattro anni dopo, mutò avviso e la reintrodusse) –, l’anziano scacchista sedeva ormai su una sedia a rotelle, afflitto da un tumore, da seri problemi cardiaci e da un cronico enfisema polmonare che lo inchiodava alla bombola per l’ossigeno: «Continuo a giocare via mail» disse al giornalista, senza particolare enfasi, «non mi è mai passata la voglia».
Nove mesi dopo, l’uomo che si vantava di aver giocato e vinto contro Humphrey Bogart, Charlie Chaplin, Gary Cooper, Marlene Dietrich, Richard Widmark, Clark Gable, John Wayne e chissà quale altra celebrità di Hollywood morì, lasciando in eredità, in mezzo ad altre cose di nessuna importanza, tre libri sugli scacchi, un bel po’ di articoli, tutti a tema scacchistico, e decine di migliaia di cartoline postali, il mezzo di cui per quasi trent’anni si era servito per continuare a giocare a scacchi dalla prigione. In nove grosse scatole, tutto il lascito di Bloodgood si trova oggi depositato presso la Public Library di Cleveland: ci sono documenti legali, cartelle cliniche, tutto il lungo percorso di Bloodgood nel sistema penitenziario dello Stato della Virginia. E ci sono, naturalmente, le cartoline.
Prima dell’avvento dei computer, giocare a scacchi per corrispondenza, in partite che duravano in media poco meno di un anno, aveva perfettamente senso. In verità, vi è tuttora una federazione internazionale, la Iccf (International Correspondence Chess Federation), che organizza tornei ufficiali, ivi compresi i campionati del mondo della specialità, ma l’interesse per il gioco a distanza è ovviamente scemato: prima, un giocatore aveva a disposizione solo i libri per curare la sua preparazione; oggi, può far lavorare al suo posto un motore scacchistico e limitarsi a prendere qualche decisione fra le diverse linee di gioco suggerite dalla macchina. Certo, non è stata ancora inventata la Macchina Definitiva, che abbia cioè esaurito tutto lo spazio delle possibilità e giochi ogni volta la Partita Perfetta, e dunque esiste ancora un margine di incertezza (e di miglioramento). Ma sono ormai davvero pochi quelli che si dedicano a esplorarlo nel gioco per corrispondenza.
Ci sono invece filosofi che hanno esplorato, per dir così, la corrispondenza stessa, il significato della scrittura e la scrittura del significato, ossia l’invenzione straordinaria – il fatto che a essa siamo abituati non la rende meno straordinaria – grazie alla quale un significato, un pensiero, un concetto, messo per iscritto, non si consuma con lo spegnersi della voce, ma sopravvive, supera le distanze spaziali e temporali, acquisisce una vita ben oltre la sua momentanea presenza orale. Mezzo testamentario, la scrittura, perché rimane anche dopo che mittente e destinatario sono scomparsi, e così può ricordarne l’esistenza passata.
Che è quel che per esempio si può fare grazie alle cartoline di Claude Frizzell Bloodgood III. Nel basso edificio in mattoni, vicino al fiume Appomatox, in mezzo al verde dei pascoli della Virginia, lì dove era trattenuto, il prigioniero numero 99432 non smise mai di scrivere le sue mosse e di mandarle in giro per il mondo. Aveva cominciato nel 1970, rinchiuso nel braccio della morte, approfittando del fatto che lo Stato della Virginia pagava ai condannati alla pena capitale le spese postali di spedizione: una misura che solo con Bloodgood, che inviava migliaia di cartoline contemporaneamente, si rivelò sorprendentemente onerosa. Ad ogni modo, quelle cartoline sono ancora in fondo a una scatola, a Cleveland, e permettono di capire di che pasta fosse fatto l’uomo. Scacchisticamente parlando, s’intende. Rimandiamo allora di qualche pagina le questioni filosofico-postali, e dedichiamoci al caso che mise a soqquadro il mondo degli scacchi.
È il 1997, gennaio. La Uscf, Federazione statunitense degli scacchi, rende nota la classifica dei giocatori più forti, in base alla graduatoria Elo. L’Elo è un punteggio che viene attribuito a ogni scacchista regolarmente tesserato, in ragione dei risultati ottenuti in incontri ufficiali. Deve il suo nome al professor Arpad Elo, ungherese, che inventò il sistema di calcolo. Funziona come il punteggio Atp del tennis, anche se l’algoritmo è diverso. Ma il principio è lo stesso: il punteggio assegnato varia in relazione alla forza degli avversari incontrati e ai risultati conseguiti contro di essi, e come nel tennis c’è un numero uno, che non necessariamente ha vinto Wimbledon, o il Roland Garros, così a scacchi c’è un giocatore in cima alla lista, che ha il rating Elo più alto, ma che non necessariamente è il campione del mondo (anche se spesso le due cose coincidono).
Nel 1997, dunque, viene stilata la classifica, ed ecco la sorpresa. Tra i giocatori statunitensi in attività, il primo è Gata Kamsky, un tipetto che te lo raccomando: grande talento di origine russa, scontroso e attaccabrighe, sapeva come innervosire gli avversari. L’episodio più famoso avvenne nel 1994, nel corso del match, valido per la corsa al titolo mondiale, contro l’inglese Nigel Short, che nel corso della partita si vide ripetutamente accusato di imbrogliare e fu addirittura minacciato fisicamente da Rostam, il padre di Gata. Short ha poi raccontato che prima del match Kasparov gli aveva consigliato, scherzosamente ma non troppo, di assumere per la sua tranquillità un paio di guardie del corpo, per dire di qual fama godesse il clan. Gata Kamsky, insomma, nel 1997 è primo in classifica, con 2789 punti. Dietro di lui, però, con punti 2712, compare a sorpresa il ceffo di Claude Frizzell Bloodgood III, l’uomo che sta scontando l’ergastolo nel carcere di Richmond. Seguono altri due nomi più quieti ma di assoluto prestigio, Alex Yermolinsky e Yasser Seirawan, noti tuttora agli appassionati di scacchi: il primo come autore di libri e rinomato istruttore; il secondo, anche lui prolifico scrittore, come apprezzato commentatore dei principali eventi scacchistici mondiali. Ma Bloodgood, nel 1997, è davanti a entrambi.
Lo sconcerto è appena mitigato dal fatto che l’ascesa di Bloodgood nell’Olimpo scacchistico era cominciata un po’ prima, agli inizi degli anni Novanta. Nel 1995 figurava al nono posto della classifica statunitense, e nel 1996, un anno dopo, aveva già raggiunto il terzo. Nel 1997, l’exploit finale. La Uscf è costretta a occuparsi del caso: cosa permette a Claude Frizzell Bloodgood III di raggiungere simili livelli? Nessun trucco, nulla di formalmente scorretto. Semplicemente, Bloodgood domina incontrastato le partite e i tornei che organizza a ripetizione in carcere. Il sistema di calcolo attribuisce infatti a chiunque cominci a giocare un punteggio figurativo. Poiché però, di regola, chi comincia a giocare è giovane e realizza progressi importanti in poco tempo, mentre chi gioca da molto tempo migliora di poco, il sistema Uscf assegna, all’epoca, punti Elo aggiuntivi ai giocatori «anziani», per correggere la tendenza. Nel chiuso della prigione, tuttavia, dove i giocatori dilettanti non hanno affatto le caratteristiche per cui la correzione era stata introdotta (non sono giovanotti di belle speranze, e in genere non puntano a progredire negli scacchi, ma solo a occupare qualche ora nei lunghi pomeriggi dietro le sbarre), il calcolo Elo non fa che avvantaggiare Bloodgood.
Vale la pena ricordare che anche in Italia si è dato qualche tempo fa, nel 1997, un caso clamoroso di variazione anomala. Protagonista ne fu il Candidato Maestro Roberto Ricca, che approfittò della cadenza semestrale negli aggiornamenti Elo della Federazione italiana (oggi, invece, di regola è mensile) per giocare un gran numero di partite, muovendo da un punteggio Elo molto basso che non veniva, durante l’intero lasso di tempo, ricalcolato di torneo in torneo. Alla fine del semestre si ritrovò con 2579 punti Elo. Come un Grande Maestro. La sua azione pare avesse una finalità non fraudolenta ma dimostrativa, e per questo la Federazione se la sbrigò senza troppo scandalo, riconoscendo l’Elo, segnalando l’anomalia ma non attribuendo neanche il titolo di Maestro al giocatore. Che, al momento in cui scrivo, ho controllato: non disputa una partita ufficiale da almeno vent’anni, e ha 2100 punti Elo.
Torniamo a Claude. Nel giugno 1997 è salito ancora: 2722 punti. Per la posizione raggiunta, gli spetterebbe partecipare al campionato nazionale Usa come testa di serie, anche se si possono immaginare le difficoltà logistiche comportate dalla trasferta di un ergastolano. Per giunta, insieme a un certo Lewis William Capleaner, anche lui scacchista e assassino, Bloodgood aveva già approfittato una volta di un permesso premio per darsi alla fuga, nel 1974, e il permesso gli era stato accordato proprio perché partecipasse a un torneo fuori dalle mura del carcere. Erano seguite due settimane di furibonde polemiche sui giornali locali, prima della cattura dei due evasi e delle inevitabili dimissioni del direttore del penitenziario.
C’entri o no il precedente, la Federazione statunitense a quel punto dice basta: accusa Bloodgood di frode, gli ritira la tessera e lo depenna dalla classifica. E in seguito, con più calma, modifica anche l’algoritmo del calcolo Elo. Ma Bloodgood, il bugiardo seriale (così lo aveva dipinto a margine del processo il suo stesso avvocato), non aveva affatto imbrogliato. Giocando indefessamente nello spazio chiuso del carcere alla media di più di quattrocento partite all’anno, senza avversari di rilievo, Bloodgood aveva raggranellato i punti necessari per scalare la classifica fino al secondo posto. Senza giocare con i campioni in attività, men che meno con Humphrey Bogart e le altre star hollywoodiane che si vantava di aver sconfitto – ma questa finisco di raccontarvela fra poco –; gli era invece bastato convincere i compagni di prigione a giocare a scacchi per ammazzare il tempo, che, si sa, in carcere non passa mai. Ed ecco fatto: punto dopo punto, il picaresco, imbroglione e assassino Claude Frizzell Bloodgood III è ormai giunto ai vertici dello scacchismo americano e mondiale.
Il condannato a morte
Che vita, quella di Claude Frizzell Bloodgood III! Poco prima di morire, al «Guardian», Claude fece in tempo a raccontarla così:
Il mio vero nome è Klaus Bluttgutt. Sono nato a La Paz, in Messico, nella penisola di Baja California. Mio padre si chiamava come me, Klaus Bluttgutt jr, così al mio nome aggiunse il numero romano. Americanizzato, divenni Claude III. È lui che mi ha insegnato a giocare a scacchi. Lui era in realtà un agente dell’Abwehr, il controspionaggio militare tedesco, e aveva trovato lavoro, grazie a un inglese perfetto e a documenti falsificati, nel quartier generale della flotta atlantica degli Stati Uniti: a Norfolk, in Virginia, verso la fine degli anni Trenta. Quando gli Usa entrarono in guerra, nel 1941, fui mandato segretamente in Germania, nel campo di addestramento dell’Accademia navale di Kiel, per imparare il mestiere di mio padre. Presi la tessera numero 1098201 del Partito nazista e, anche grazie agli scacchi, feci amicizie importanti. Cominciai a lavorare come corriere dell’Abwehr, trasferendo segreti e denaro da mio padre alle spie naziste. Durò fino alla fine della guerra. Nell’ultima missione, nel 1945, l’U-Boat che mi trasportava si incagliò al largo di Willoughby Spit. Molti annegarono, altri furono catturati. Io fui l’unico a scappare e a mettermi in salvo.
Bene, prima di dirvi che ovviamente non è vero niente, lasciatemi continuare con gli ultimi ricordi inventati di sana pianta da Bloodgood: lui che gioca contro l’ammiraglio Wilhelm Canaris – non un ammiraglio qualunque, ma l’uomo che, a capo del servizio informazioni della Wehrmacht, tramò contro Hitler e, dopo il fallimento dell’operazione Valchiria (l’attentato contro il Führer del 1944), fu internato a Flossenburg e lì giustiziato: «Un uomo assai rispettabile, afflitto da una lieve zoppia», così lo ricordava, fantasticando, Claude –; lui che gioca contro il generale Erwin Rommel, la Volpe del deserto – «Aveva un’ampia cicatrice sul volto», è il tocco di realismo di Claude –; lui che gioca contro uno dei più alti gerarchi nazisti, Heinrich Himmler – «I suoi occhi erano morti» raccontava Claude, e non si farebbe fatica a credergli. Manca solo Hitler in persona, nei ricordi dello scacchista, che forse, per una volta, si era fatto scrupolo di non esagerare (si fa per dire).
Ma, insomma, di frottole, Bloodgood ne ha raccontate molte. Frottola era anche la storia degli attori hollywoodiani, tra cui Humphrey Bogart, che il futuro assassino (ma già pregiudicato) si trova davanti nell’ospedale dei marines di Camp Pendleton, mentre è bloccato a letto da un infortunio al piede. Stavolta, l’aneddoto prosegue implausibilmente, senza scrupoli di sorta: Bogart gioca, perde e, indispettito per la sconfitta, lo invita per una rivincita nella sua lussuosa casa di Santa Monica. (Però è vero che Bogart fosse un grande appassionato di scacchi: pare che la famosa scena nel film Casablanca, in cui siede da solo al tavolino da gioco mentre analizza una posizione, sia un’idea dell’attore. Bogart morì di infarto, nel gennaio 1957: accanto al suo corpo esanime fu ritrovata una scacchiera.)
Frottole, naturalmente, erano anche quelle che Bloodgood raccontò alla giustizia americana, dopo l’assassinio della madre, Margaret Belma Howell. Disse che lui non c’entrava, che era stato un altro uomo (fece anche il nome), ma le cose erano andate diversamente: finito in carcere per aver falsificato la firma del padre su alcuni assegni, giurò di vendicarsi della madre, che l’aveva denunciato. Il 19 novembre 1969, nove giorni dopo essere uscito di prigione, Claude Bloodgood III pugnalò e strangolò la povera donna, poi arrotolò il suo corpo in un tappeto e se ne sbarazzò gettandolo nei boschi del Great Dismal Swamp, l’ampia zona paludosa del sudest della Virginia, a 70 miglia di distanza dall’abitazione. Un cuscino inzuppato di sangue fu ritrovato sotto la testa di Margaret.
Bloodgood venne catturato un paio di mesi dopo, nel gennaio 1970. Il processo si tenne nel mese di giugno, durò soltanto due giorni e richiese alla giuria meno di un’ora, in camera di consiglio, per sentenziare la condanna a morte.
Nel Correctional Center in cui fu trattenuto in attesa dell’esecuzione, Bloodgood comincia a giocare a scacchi tutti i santi giorni. La data dell’esecuzione si avvicina, ma Claude non smette di giocare. Nel luglio 1971 la rivista «Chess» pubblica una lettera del detenuto Claude Bloodgood che recita, più o meno: sono condannato a morte. Non ho soldi per comprare ciò di cui ho bisogno. Vi chiedo pertanto la cortesia di mandarmi, se potete, copia dei numeri della rivista in cui compaiono mie partite. So che ne sono comparse almeno un paio. In passato ero abbonato alla rivista, ma ora non ho modo di recuperare i fascicoli. Vi sarei infinitamente grato, e vi sarei grato anche se mi inviaste vecchi fascicoli, non importa se danneggiati o tenuti male: qualunque cosa riguardi gli scacchi va bene. Molte grazie.
Fioccano intanto i rinvii: Claude ne approfitta per giocare ancora. Va così ben sei volte – di rinvio in rinvio, di partita in partita – fino alla commutazione definitiva della pena in ergastolo. E l’archivio di Bloodgood – le cartoline, le partite, i libri, qualunque cosa riguardi gli scacchi – cresce smisuratamente.
Il Cavaliere
Ma ora togliamo di mezzo le bugie, anche se in una filosofia della menzogna un rapporto tra le panzane e l’ego facilmente tendente alla dismisura dello scacchista bisognerebbe indicarlo, e teniamo il resto: gli scacchi, il tempo, la morte. Per dare maggiore rispettabilità al giro di riflessioni sull’argomento, basta, a questo punto, togliere pure Bloodgood e mettere al suo posto il pio Cavaliere Antonius Block che, nel capolavoro di Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, strappa alla Morte il tempo di un’ultima partita a scacchi. Perciò lasciamo il braccio della morte del Powhatan Correctional Center, in Virginia, in cui un truffatore assassino, che ha ucciso la madre per una stupida vendetta, non cerca né un prete né un avvocato né un amico per condividere le sue paure, o i suoi rimorsi, ma solo qualcuno con cui giocare a scacchi – tra colpi di tosse, balle grossolane e tiri di sigaretta – e spostiamoci sul set del maestro del cinema scandinavo, sotto nuvole scure, fra danze macabre e spettacoli di saltimbanchi:
– Tu giochi a scacchi, non è vero? –
– Come lo sai? –
– Lo so. L’ho visto nei quadri, lo dicono le leggende. –
– Sì, anche questo è vero, come è vero che non ho mai perduto una partita. –
– Forse anche la Morte può commettere un errore. –
– Per quale ragione vuoi sfidarmi? –
– Te lo dirò se accetti. –
– Avanti allora… – lo invita la Morte.
I due siedono alla scacchiera e si studiano in silenzio.
– Perché voglio sapere fino a che punto saprò resisterti, e se dando scacco alla Morte avrò salva la vita – riprende il cavaliere.
Ha preso in mano due pedoni e sorteggia le parti.
– Ti tocca il nero – dice il cavaliere.
– Si addice alla morte, non credi? –
Come tutti quelli che sono stati in chiesa – così scrive Bergman, figlio di un pastore luterano, nella sua splendida autobiografia, Lanterna magica –, da bambino sono rimasto colpito dai dipinti che potevo osservare sopra l’altare. Il cattivo teatro e le messe solenni sono le cose più lunghe del mondo (e il tempo in prigione, avrebbe potuto aggiungere) e così mi fermavo col naso in su, a osservare Gesù e i ladroni feriti e insanguinati, Maria dolente appoggiata a Giovanni, i peccatori che precipitano a capofitto nelle fiamme, il cavaliere che gioca a scacchi con la Morte.
Quest’ultima immagine ispirerà in seguito alcune...