Tifone - Gioventù
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Tifone - Gioventù

  1. 320 pagine
  2. Italian
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Al centro del racconto Tifone (1902) sta la figura del capitano MacWhirr che con forza eccezionale affronta il ciclone, opponendo all'apocalisse della natura la gestione tenace e scrupolosa della sua nave e resistendo al caos, all'abisso risucchiante - reale e simbolico - con l'azione concreta. Gioventù (1898) è invece la storia di una vicenda memorabile vissuta al tempo della giovinezza, del "primo comando". Narrazioni di straordinaria suggestione e perfezione stilistica, i due racconti qui raccolti sono emblematici della visione del mondo di Conrad, testi indimenticabili nei quali gli eventi e i paesaggi diventano magistrali metafore esistenziali.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
ISBN
9788835715474
Argomento
Literature
Categoria
Classics

Tifone

I

Il capitano MacWhirr, del piroscafo Nan-Shan, aveva una fisionomia che, nell’ordine delle apparenze materiali, era l’immagine esatta della sua mente: non presentava nessuna caratteristica marcata di fermezza o di stupidità; anzi, non aveva proprio nessuna caratteristica pronunciata; era semplicemente naturale, inespressiva e serena.
L’unica cosa che il suo aspetto poteva forse talvolta denotare era la timidezza: a terra, sedeva negli uffici, abbronzato e lievemente sorridente, con gli occhi bassi. Quando li alzava, si poteva vedere che quegli occhi avevano uno sguardo diritto e che erano azzurri. I suoi capelli erano biondi, finissimi, e fasciavano, da tempia a tempia, la volta calva del cranio come una morsa di seta vaporosa. I peli della faccia, invece, d’un rosso carota fiammante, sembravano una vegetazione di fili di rame tagliati corti lungo la linea del labbro, mentre sulle guance, per quanto accuratamente egli si radesse, ogni qual volta muoveva il capo, passavano bagliori di metallo incandescente. Era piuttosto al di sotto della statura media, di spalle un poco rotonde, e tanto robusto di membra che i suoi vestiti parevano sempre appena troppo stretti per le sue braccia e per le sue gambe. Come fosse incapace di capire le esigenze delle diverse latitudini, portava una bombetta marrone, un completo color ruggine e un paio di grosse scarpe nere. Questa foggia di vestire poco marinaresca dava alla sua figura massiccia un’aria di rozza e inamidata eleganza. Una sottile catena d’argento gli tracciava un semicerchio sul panciotto, ed egli non lasciava mai la propria nave per scendere a terra senza stringere nel potente pugno villoso un elegante ombrello di ottima fattura, ma quasi sempre srotolato. Il giovane Jukes, primo ufficiale di bordo, accompagnando il suo comandante al barcarizzo, osava talvolta, con un gentilissimo: “Permette, signore?”, impossessarsi deferentemente del paracqua; dopo di che ne alzava il puntale verso il cielo, ne scuoteva le pieghe, le arrotolava rapidamente in una perfetta spirale e restituiva l’oggetto al proprietario, compiendo tutta questa operazione con una faccia soffusa di tanta solenne gravità, che Solomon Rout, il capo macchinista, che fumava il suo sigaro mattutino sopra l’osteriggio di macchina, si voltava per nascondere un sorriso. “Ah, sì! Questo benedetto ombrello… Grazie, Jukes, grazie” mormorava il capitano MacWhirr senza alzare gli occhi.
Fornito di tanta immaginazione quanta ne occorre per giungere, attraverso ogni giornata, alla giornata seguente, e non di più, MacWhirr era tranquillamente sicuro di sé; e proprio per la medesima ragione non era per nulla presuntuoso. Il superiore dotato d’immaginazione è permaloso, prepotente e difficile da soddisfare; ma ogni nave comandata dal capitano MacWhirr diventava la galleggiante dimora dell’armonia e della pace. In verità, sarebbe stato tanto impossibile per lui spiccare un volo con la fantasia, quanto per un orologiaio mettere insieme un cronometro senza altri utensili che un martello da un chilo e una sega da falegname. E tuttavia, anche le vite poco interessanti di uomini interamente dediti ai fatti della nuda esistenza hanno i loro lati misteriosi. Per esempio, nel caso del capitano MacWhirr, era impossibile indovinare che cosa avesse potuto indurre quel figlio ideale di un piccolo droghiere di Belfast a fuggire sul mare. Eppure, era proprio quello che aveva fatto all’età di quindici anni. Quanto basta, se ci si riflette, a suggerire l’idea di una mano potente, immensa e invisibile, che, cacciandosi nel formicaio della terra, afferra spalle, fa cozzare teste, e gira i volti inconsci della moltitudine verso mete inconcepibili e in direzioni mai sognate.
Il padre non gli aveva mai perdonato completamente questa stupida ribellione. “Avremmo potuto andare avanti senza di lui” era solito dire più tardi “ma c’è il negozio. E un figlio unico, per giunta!” La madre aveva pianto molto dopo la sua scomparsa; e, poiché non aveva assolutamente pensato a lasciare una spiegazione scritta, venne pianto per morto sino a quando, dopo otto mesi, non giunse la sua prima lettera da Talcahuano. Era breve e conteneva queste parole: “Nel nostro viaggio d’andata abbiamo avuto bel tempo”. Ma evidentemente, nella mente dello scrivente, l’unica notizia interessante era che il suo capitano, alla data stessa della lettera, lo aveva immatricolato nel registro di bordo in qualità di marinaio semplice, “perché” spiegava “so fare il lavoro”. La madre aveva pianto di nuovo copiosamente; quanto al padre, aveva tradotto i propri sentimenti nella seguente osservazione: “Tom è un asino”. Era un uomo corpulento, capace di una sua arguta ironia, che, sino alla fine della vita, esercitò a spese del figlio, non senza un’ombra di pietà, come si fa con un semidemente.
Le visite di MacWhirr a casa erano necessariamente rare; nel corso degli anni spedì altre lettere ai genitori, informandoli delle sue successive promozioni e dei suoi movimenti per il vasto mondo. In queste missive era dato di leggere frasi del seguente tenore: “Qui fa molto caldo” oppure: “Il giorno di Natale, alle 4 pomeridiane, abbiamo incontrato alcuni iceberg”. Alla fine i due vecchi erano giunti a conoscere un buon numero di nomi di bastimenti e di nomi dei capitani che li comandavano, molti nomi di armatori scozzesi e inglesi, e nomi di mari, di oceani, di stretti e di promontori, nomi esotici di porti in cui si carica legname e di altri in cui si carica riso o cotone, nomi di isole, e il nome della ragazza del figlio. Si chiamava Lucy. A lui non era nemmeno passato per la mente di accennare se questo nome gli sembrava grazioso. Poi i genitori erano morti.
A tempo debito giunse anche il gran giorno delle nozze di MacWhirr, poco dopo il gran giorno in cui aveva avuto il suo primo comando.
Tutti questi avvenimenti si erano svolti molti anni prima del mattino in cui, nella sala nautica del piroscafo Nan-Shan, MacWhirr si trovava a considerare la discesa di un barometro del quale non aveva nessuna ragione di diffidare. La discesa, tenuto conto della perfezione dello strumento, del periodo dell’anno e della posizione della nave sul globo terrestre, era foriera di sventure, ma il volto rosso dell’uomo non tradiva alcun turbamento interno. Per lui i segni e i presagi contavano meno di nulla; ed era incapace di scoprire il messaggio di una predizione finché questa, realizzandosi, non glielo metteva proprio davanti agli occhi. “Questa è una discesa, non c’è possibilità di errore” pensò. “Ci deve essere del tempo straordinariamente cattivo in giro.”
Il Nan-Shan si trovava in rotta da sud verso il porto aperto di Fu-chou, con del carico nella stiva bassa e duecento coolies cinesi che tornavano a casa nei loro villaggi della provincia di Fu-chien dopo alcuni anni di lavoro in varie colonie tropicali. La mattinata era bella, il mare come olio si gonfiava senza un luccicore, e vi era una strana macchia bianca e caliginosa nel cielo, come un alone solare. La coperta di prua, gremita di cinesi, era piena di vesti scure, di facce gialle, di codini, e disseminata di moltissime spalle nude, perché non c’era vento e il caldo era opprimente. I coolies oziavano, chiacchieravano, fumavano o fissavano lo sguardo oltre la battagliola; alcuni, attingendo acqua dal mare, si bagnavano scambievolmente; altri dormivano sui boccaporti, mentre parecchi gruppetti di sei persone sedevano sui talloni intorno a vassoi di ferro su cui c’erano piatti di riso e minuscole tazze di tè. E ciascun figlio del Celeste Impero recava con sé tutto quello che possedeva al mondo – una cassetta di legno con gli spigoli d’ottone e un risonante lucchetto, entro cui erano i risparmi delle sue fatiche: alcune vesti da cerimonia, bastoncini d’incenso, forse un po’ d’oppio, cianfrusaglie indefinibili di valore puramente convenzionale, e un esiguo gruzzolo di dollari d’argento, faticato sulle chiatte da carbone, vinto nelle bische o guadagnato con piccoli traffici, strappato alla terra, sudato nelle miniere, sulle ferrovie, nella giungla mortale, sotto pesanti carichi – messo insieme pazientemente, guardato con cura, adorato ferocemente.
Verso le dieci si era levato un mare lungo al traverso della nave dalla direzione del Canale di Formosa, senza troppo turbare i passeggeri, perché il Nan-Shan, con il suo fondo piatto, le alette di rollio e la grande larghezza di baglio, aveva fama di nave che teneva eccezionalmente bene il mare. Jukes, nei momenti di espansività a terra, proclamava a gran voce che la vecchia era tanto buona quanto bella. Al capitano MacWhirr non sarebbe mai passato per la testa di esprimere la sua opinione favorevole a voce tanto alta o in termini così fantasiosi.
Il Nan-Shan era una buona nave, indubbiamente, e neppure vecchia. Era stata costruita a Dumbarton meno di tre anni prima, su ordinazione di una ditta commerciale siamese, la Sigg & Figlio. Quando fu in acqua, rifinita in ogni particolare e pronta a intraprendere il lavoro della sua vita, i costruttori l’avevano contemplata con orgoglio.
«Sigg ci ha chiesto un capitano fidato che la porti a destinazione» aveva osservato uno dei soci; e l’altro, dopo aver riflettuto un po’, aveva risposto: «Credo che MacWhirr sia a terra in questo momento». «Davvero? Allora telegrafagli subito. È l’uomo che ci vuole» aveva dichiarato il socio anziano, senza un istante d’esitazione.
L’indomani mattina MacWhirr stava di fronte a loro, impassibile. Era partito da Londra con l’espresso di mezzanotte dopo un commiato improvviso ma asciutto da sua moglie, figlia di genitori altolocati che in passato avevano conosciuto giorni migliori.
«Sarà meglio che andiamo insieme a visitare la nave, capitano» aveva detto il socio anziano; e i tre uomini s’erano mossi per esaminare le meraviglie del Nan-Shan da prua a poppa, e dal paramezzale alle formaggette dei due tozzi alberi a palo.
Il capitano MacWhirr aveva cominciato col togliersi la giacca per appenderla all’estremità di un argano a vapore che sintetizzava in sé i ritrovati più recenti della tecnica.
«Lo zio ha scritto con la posta di ieri ai nostri buoni amici – i signori Sigg, capisce – dicendo molto bene di lei, e senza dubbio la manterranno al comando laggiù» gli aveva detto il socio giovane, e aveva soggiunto: «potrà vantarsi di comandare la più maneggevole tra le navi di questa stazza che navigano lungo le coste della Cina, capitano.»
«Davvero?… Grazie» aveva borbottato vagamente MacWhirr per il quale la prospettiva di una lontana evenienza non presentava maggiore attrazione di quanta ne presenti la bellezza di un vasto panorama per un turista miope; e poiché in quel momento gli erano caduti gli occhi sulla serratura della porta della saletta, avvicinatosi risolutamente s’era messo a scuoterne con forza la maniglia, osservando con la sua solita voce bassa e seria: «Al giorno d’oggi non ci si può fidare degli operai. Una serratura nuova fiammante, e non funziona per nulla: inceppata. Vedete? Vedete?».
Non appena i soci s’erano trovati soli nel loro studio dall’altro lato del cantiere, il nipote aveva chiesto con blando disprezzo: «Hai fatto l’elogio di quel tipo ai Sigg. Che cosa ci trovi di speciale?».
«Ti concedo che non ha nulla del comandante elegante e alla moda, se è questo che intendi» aveva risposto seccamente il più anziano. «C’è fuori il caposquadra dei falegnami del Nan-Shan?… Entri, Bates. Come mai ha permesso che gli uomini di Tait ci imbrogliassero con una serratura difettosa alla porta della saletta? Il capitano se n’è accorto appena ci ha messo gli occhi sopra. La faccia cambiare subito. Le inezie, Bates… le inezie…»
La serratura era stata quindi cambiata, e pochi giorni dopo il Nan-Shan era salpato per l’Oriente, senza che MacWhirr avesse trovato altro da ridire sulle installazioni di bordo e senza che dalla sua bocca fosse uscita una parola che denotasse orgoglio per la nave, gratitudine per la nomina, o soddisfazione per le future prospettive.
Con un temperamento né loquace né taciturno, trovava pochissime occasioni per parlare. C’erano naturalmente le questioni di servizio, istruzioni, ordini, e così via; ma poiché, secondo il suo modo di vedere, il passato era una cosa liquidata, e il futuro non c’era ancora, gli avvenimenti comuni della giornata non richiedevano commenti: i fatti sanno parlare da sé con precisione schiacciante.
Al vecchio signor Sigg piacevano gli uomini di poche parole dei quali “si può esser certi che non cercheranno di modificare le istruzioni ricevute per far meglio”. E MacWhirr, che possedeva in pieno tali caratteristiche, era stato confermato al comando del Nan-Shan, di cui aveva cominciato subito a dirigere con cura le navigazioni per i mari della Cina. La nave era stata iscritta al Registro britannico, ma dopo qualche tempo la ditta Sigg aveva ritenuto opportuno trasferirla alla bandiera siamese.
Alla notizia del progettato passaggio, Jukes s’era mostrato irrequieto, come per un affronto alla sua persona. Girava borbottando fra sé e sé ed emettendo brevi sogghigni di scherno. «Bella roba avere un ridicolo elefante da Arca di Noè sulla bandiera della propria nave» aveva esclamato un giorno stando sulla porta della sala macchine. «Mi prenda un colpo se manderò giù una cosa simile. Piuttosto mi licenzio. Non fa schifo anche a lei, signor Rout?» Il capo macchinista s’era limitato a tossicchiare con l’aria di uno che conosce il valore di un buon posto.
Il giorno in cui la nuova bandiera era apparsa a poppa del Nan-Shan, Jukes l’aveva guardata dal ponte con amarezza; poi, dopo aver lottato con i propri sentimenti per qualche istante, aveva osservato: «Strana bandiera per navigarci, capitano».
«Che cos’ha quella bandiera?» aveva chiesto il capitano MacWhirr. «A me sembra che vada benissimo.» Ed era andato verso l’ala di plancia per guardarla meglio.
«Ebbene, a me sembra buffa» era sbottato Jukes al colmo dell’esasperazione, e aveva lasciato il ponte di comando in fretta e furia.
Il capitano MacWhirr era rimasto stupefatto da quel modo di agire. Poco dopo, entrato con calma nella sala nautica, aveva aperto il Codice internazionale dei segnali alla pagina in cui le bandiere di tutte le nazioni figurano disposte correttamente in file multicolori, aveva fatto scorrere il dito di fila in fila, sino a che, trovata la bandiera del Siam, s’era messo a contemplare con molta attenzione il campo rosso e l’elefante bianco. Nulla avrebbe potuto essere più semplice; ma per esserne sicuro, aveva portato il libro sul ponte allo scopo di confrontare il disegno colorato con il modello reale all’asta di poppa. Quando Jukes, che quel giorno faceva il suo servizio con una specie di rabbia repressa, era capitato di nuovo sul ponte, il comandante aveva osservato:
«Quella bandiera non ha nulla che non sia in regola.»
«Davvero?» aveva detto Jukes tra i denti, mentre s’inginocchiava davanti a un cassone per tirarne fuori rabbiosamente una sagola da scandaglio nuova.
«Sicuro. Ho verificato nel libro. Lunghezza doppia della larghezza e l’elefante esattamente nel centro. Lo pensavo che questa gente deve pur sapere come va fatta la bandiera locale. È logico. Ha torto, Jukes.»
«Ebbene, capitano» aveva cominciato Jukes, alzandosi di scatto «tutto quello che posso dire…» E cercava il capo della sagola con mani tremanti.
«Va bene, va bene» aveva risposto conciliante il capitano MacWhirr, sedendosi pesantemente su di un piccolo sgabello pieghevole di tela che prediligeva. «Deve soltanto badare a che non alzino l’elefante c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. di Ian Watt
  4. Tifone. Gioventù Una narrazione
  5. Tifone
  6. Gioventù. Una narrazione
  7. Typhoon
  8. Youth. A Narrative
  9. Copyright