Farò rapporto come se raccontassi una storia, perché mi è stato insegnato da bambino, sulla mia terra natia, che la Verità è una questione dell’immaginazione. A seconda di come viene raccontato, il più solido dei fatti può farsi fiasco o conquista: come l’ineffabile gioiello organico dei nostri mari, che si fa tanto più luminoso quanto più una donna lo indossa e, portato da un’altra, si offusca e si fa polvere. I fatti non sono più solidi, coerenti, rotondi e reali delle perle. Ma entrambi sono delicati.
La storia non è tutta mia, né raccontata da me soltanto. A dirla tutta non so per certo a chi appartenga; giudicate voi. Ma è un’unica storia, e se in certi momenti i fatti sembreranno cambiare di voce, proprio allora potrete scegliere quello che più vi aggrada; nessuno di essi è falso, tutti sono un’unica storia.
Inizia nel quarantaquattresimo diurno dell’anno 1491, che sul pianeta Inverno nella nazione di Karhide era Odharhahad Tuwa, o il ventiduesimo giorno del terzo mese di primavera dell’Anno Uno. È sempre l’Anno Uno, qui. Solo la datazione dell’anno trascorso e di quello a venire cambiano a ogni Capodanno, contando avanti o indietro dall’Ora unitaria. Era dunque la primavera dell’Anno Uno a Erhenrang, capitale di Karhide, e la mia vita era in pericolo e nemmeno lo sapevo.
Stavo partecipando a una parata. Marciavo poco dietro ai gossiwor, poco davanti al re. Stava piovendo.
Nuvole gonfie di pioggia sulle torri nere, scrosci di pioggia nei lunghi viali, una nera città di pietra, flagellata dalla tempesta, attraverso cui serpeggia lenta una vena d’oro. Prima vengono i mercanti, i potentati e gli artigiani della città di Erhenrang, rango dopo rango, vestiti con sfarzo, avanzano tra la pioggia a loro agio come pesci nel mare. Le facce intente e placide. Non marciano al passo. Questa è una parata che non ha soldati, nemmeno loro imitazioni.
Poi vengono i signori, i sindaci e i rappresentanti, una persona, o cinque, o quarantacinque, o quattrocento, da ciascun Dominio e Codominio di Karhide, un’immensa, elaborata processione che si muove alla musica di corni di metallo e blocchi cavi d’osso e legno e alla melodia essenziale dei flauti elettrici. I vari stendardi dei grandi Domini si mescolano alle bandiere gialle che adornano la via in un viluppo di colori battuto dalla pioggia, e le varie musiche di ciascun gruppo stridono e armonizzano nei tanti ritmi che riecheggiano lungo il viale di pietra.
Poi una schiera di giocolieri con sfere d’oro lucido: le lanciano in alto in lampi volanti, le afferrano e le lanciano ancora, zampilli luminosi di giocoleria. Tutto d’un tratto, come se avessero davvero catturato la luce, le sfere d’oro risplendono brillanti come vetro: il sole le attraversa.
Poi quaranta uomini in giallo, che suonano i gossiwor. Il gossiwor, suonato solo in presenza del re, emette uno strambo muggito sconsolato. Quaranta, suonati all’unisono, scuotono il senno, scuotono le torri di Erhenrang, scrollano un ultimo fiotto di pioggia dalle nuvole gonfie di vento. Se questa è la Musica reale, non stupisce che i re di Karhide siano tutti pazzi.
Poi il corteo reale, guardie e funzionari e dignitari della città e della corte, deputati, senatori, cancellieri, ambasciatori, signori del Regno, incapaci di tenere il passo e serrare le fila seppure marciando con grande dignità; e tra di loro c’è re Argaven XV, con tunica e camicia e braghe bianche, gambali di pelle color zafferano e un copricapo giallo a punta. Un anello d’oro è il suo unico ornamento e simbolo della sua carica. Dietro questo gruppo otto uomini robusti reggono la lettiga reale, ruvida di zaffiri gialli, che da secoli non trasporta più nessun re, reliquia cerimoniale dei tempi andati. Accanto alla lettiga marciano otto guardie dotate di “armi da incursione”, reliquie anch’esse di un passato più barbaro ma non innocue, caricate a pallottole di ferro dolce. La morte marcia alle spalle del re. Alle spalle della morte ci sono gli studenti delle Scuole per artigiani, delle Università, delle Professioni e dei Focolari del re, lunghe file di bambini e ragazzini vestiti di bianco e di rosso, di oro e di verde; e infine, numerose macchine silenziose, lente e nere chiudono la parata.
Il corteo reale, e io tra loro, si raduna su una tribuna di legno verde accanto all’Arco di River Gate, ancora incompleto. La parata celebra l’ultimazione di quell’arco che completa la nuova Via e Porto fluviale di Erhenrang, una grandiosa operazione di dragaggio e costruzione per cui sono occorsi cinque anni e che darà lustro al Regno di Argaven XV negli annali di Karhide. Siamo tutti pigiati sulla tribuna nei nostri abiti pieni di fronzoli, umidi e ingombranti. La pioggia se n’è andata e il sole brilla su di noi, il sole splendido, luminoso e traditore di Inverno. Mi rivolgo alla persona alla mia sinistra: «Fa caldo. Molto caldo».
La persona alla mia sinistra – un karhidiano scuro e robusto con capelli impomatati e pesanti che indossa un pesante soprabito di pelle verde ricamato d’oro, una pesante camicia bianca, braghe pesanti, e una pesante collana d’argento a maglie grandi quanto il palmo di una mano – questa persona, sudando copiosamente, risponde: «Proprio così».
Tutto intorno a noi, pigiati sulla tribuna, si estendono i volti della gente della città, rivolti verso l’alto come una moltitudine di ciottoli bruni e rotondi, luccicanti di mica, con migliaia di occhi curiosi.
Ora il re sale su una passerella di legno grezzo che porta dalla tribuna alle cime dell’arco i cui piloni disgiunti torreggiano su corona e pontili e fiume. Mentre sale la folla si agita e dice in un diffuso mormorio: «Argaven!». Lui non li degna di risposta. Né loro se ne aspettano una. I gossiwor emettono un fragore di tuono dissonante, si fermano. Silenzio. Il sole splende su città, fiume, folla e re. I muratori più in basso hanno avviato un argano elettrico, e mentre il re sale più in alto la pietra di volta dell’arco, nella sua imbracatura, lo supera, è sollevata, deposta e sistemata quasi senza rumore, nonostante sia un blocco enorme e pesante, nello spazio tra i due pontili, rendendolo una cosa sola, un arco. Un muratore armato di secchiello e cazzuola aspetta il re sull’impalcatura; tutti gli altri operai scendono su scale di corda, come un nugolo di pulci. Il re e il muratore si inginocchiano, in alto tra il fiume e il sole, sulle tavole di legno. Il re prende la cazzuola e inizia a stuccare le lunghe giunture della pietra di volta. Non si limita a qualche colpetto simbolico per poi restituire la cazzuola al muratore, ma si mette a lavorare con metodo. Il cemento che usa è di un colore rossiccio diverso dal resto della muratura, e dopo cinque o dieci minuti a osservare il lavorio dell’ape re chiedo alla persona alla mia sinistra: «Le vostre pietre di volta sono sempre fissate con la malta rossa?». Perché lo stesso colore si estende intorno alla pietra di volta di ciascun arco del Ponte Vecchio, che si innalza maestoso sul fiume a monte di questo.
Asciugandosi il sudore dalla scura fronte l’uomo – così devo chiamarlo, uomo, avendo usato pronomi maschili – risponde: «Molto tempo fa la pietra di volta veniva sempre fissata con una malta di ossa frantumate mescolate a sangue. Ossa umane, sangue umano. Senza il legame del sangue l’arco sarebbe caduto, sapete? Oggi usiamo il sangue di animali».
Spesso parla in questo modo, schietto eppure guardingo, ironico, come se fosse sempre consapevole che vedo e giudico da alieno: una consapevolezza singolare in una persona di razza così solitaria, di così alto rango. È uno degli uomini più potenti del paese; non so per certo quale sia l’equivalente storico della sua posizione, visir o primo ministro o consigliere; la parola karhidica che la definisce significa Orecchio del re. È signore di un Dominio e signore del Regno, e può orchestrare gli eventi del mondo. Il suo nome è Therem Harth rem ir Estraven.
Il re sembra avere finito coi lavori di muratura, e me ne rallegro; ma oltrepassato il culmine dell’arco sulla sua tela di assi di legno, ricomincia a lavorare all’altro lato della pietra di volta, che dopotutto ha due lati. Non bisogna essere impazienti, in Karhide. I karhidiani sono gente imperturbabile, eppure sono caparbi, sono ostinati, portano a termine il loro lavoro. Le folle sull’argine del Sess sono felici di osservare il re all’opera, ma io mi annoio e ho caldo. Non ho mai sofferto il caldo, prima d’ora, su Inverno; né lo soffrirò mai più; eppure non riesco a dare importanza all’evento. Sono vestito per l’Era glaciale e non per il sole, avvolto in strati e strati di vestiti, fibre naturali intessute, fibre artificiali, pelliccia, cuoio, un’imponente armatura contro il freddo, all’interno della quale appassisco come una foglia di ravanello. Per distrarmi guardo le folle e gli altri che sfilavano prima in parata, ora radunati intorno alla tribuna, i vessilli dei loro Domini e Clan fermi e lucenti al sole, e svogliatamente chiedo a Estraven di chi sia questa bandiera e quella e quell’altra ancora. Conosce tutte quelle che gli chiedo, anche se ce ne sono centinaia, alcune di Domini remoti, di Focolari e Sottotribù di Pering Storm e di Kerm Land.
«Io stesso vengo da Kerm Land» mi dice quando esprimo ammirazione per quello che sa. «E comunque è mio compito conoscere i Domini. I Domini sono Karhide. Governare questa terra equivale a governarne i lord. Non che sia mai stato fatto. Conoscete il detto: “Karhide non è una nazione ma una lite tra parenti”?» Non lo conoscevo, e sospetto che Estraven se lo fosse inventato; ha il suo stile.
A questo punto un altro membro del kyorremy, l’alta camera o parlamento che Estraven presiede, si fa strada a spintoni fino ad avvicinarsi a lui e inizia a parlargli. È il cugino del re, Pemmer Harge rem ir Tibe. La sua voce è molto bassa mentre parla con Estraven, la postura un poco insolente, il sorriso pronto. Estraven, che suda come ghiaccio al sole, come ghiaccio resta liscio e freddo, risponde ai sussurri ad alta voce con un tono di consueta cordialità che fa sembrare Tibe uno sciocco. Ascolto, mentre osservo il re che continua a dare la malta, ma non colgo granché se non l’animosità tra i due. Non mi riguarda, in ogni caso, e sono semplicemente interessato al comportamento di queste persone che governano una nazione nel senso più datato del termine, e decidono le sorti di venti milioni di persone. Il potere è diventato qualcosa di così sottile e complesso, nelle modalità dell’Ecumene, che solo una mente altrettanto sottile può coglierne i meccanismi; qui è ancora un concetto circoscritto, ancora visibile. In Estraven, per esempio, si percepisce il potere dell’uomo come amplificazione del suo carattere; gli è impossibile compiere un gesto vacuo o pronunciare una parola che vada inascoltata. Lo sa, e questa consapevolezza gli attribuisce più verità di quanta la gente normalmente possieda: una solidità dell’essere, una materialità, un’umana grandiosità. Niente ha successo quanto il successo. Non mi fido di Estraven, i cui fini mi saranno sempre oscuri; non mi piace; eppure percepisco la sua autorità e rispondo a essa come al calore del sole.
Nel momento in cui rifletto su queste cose il sole del mondo si offusca fra le nuvole di nuovo vicine, e presto degli scrosci di pioggia cadono radi e violenti a monte, bagnando le folle lungo gli argini, rendendo cupo il cielo. Mentre il re scende dalla passerella la luce irrompe per un’ultima volta, e la sua figura bianca e il grande arco per un momento si stagliano vividi e sontuosi contro il sud rabbuiato dalla tempesta. Le nuvole si chiudono. Un vento freddo squarcia la Port-and-Palace Street, il fiume si fa grigio, gli alberi lungo l’argine tremano. La parata è finita. Mezz’ora più tardi inizia a nevicare.
Mentre la macchina del re si allontanava lungo Port-and-Palace Street e le folle iniziavano a muoversi come ciottoli trasportati da una lenta marea, Estraven si voltò di nuovo verso di me e mi disse: «Volete cenare con me, stasera, Mr Ai?». Accettai, più sorpreso che contento. Negli ultimi sei o otto mesi, Estraven si era speso molto per me, ma non mi aspettavo né desideravo un’ostentazione di cortesia personale come un invito a casa sua. Harge rem ir Tibe era ancora vicino a noi a origliare, ed ebbi l’impressione che lo facesse apposta. Infastidito da quest’aura di intrigo femmineo, scesi dalla tribuna e mi persi tra la folla, acquattandomi e incurvandomi per farlo. Non sono molto più alto della media dei getheniani, ma la differenza in una folla è percepibile. Eccolo, guardate, ecco l’Inviato. Certo, faceva parte del mio lavoro, ma anziché diventare più semplice, si faceva più difficile col passare del tempo; sempre più spesso desideravo essere anonimo, conforme. Smaniavo di sentirmi uguale agli altri.
Un paio di isolati più in là, sulla Strada dei Birrifici, presi la via dei miei alloggi e all’improvviso, là dove la folla si iniziava a diradare, trovai Tibe che camminava al mio fianco.
«Un evento impeccabile» disse il cugino del re, sorridendomi. I suoi denti lunghi, puliti e giallastri apparivano e scomparivano in quella faccia gialla solcata, per quanto non fosse vecchio, da rughe sottili.
«Un buon auspicio per il successo del Porto Nuovo» dissi.
«Certamente.» Ancora più denti.
«La cerimonia della pietra di volta è davvero emozionante.»
«Certamente. Il cerimoniale è antico. Ma di sicuro Lord Estraven vi ha spiegato ogni cosa.»
«Lord Estraven è sempre sollecito.»
Stavo cercando di parlare in modo blando, ma ogni parola rivolta a Tibe sembrava assumere un doppio significato.
«Certamente, sì» disse Tibe. «Certamente la gentilezza di Lord Estraven nei confronti dei forestieri è risaputa.» Sorrise di nuovo, e ogni dente sembrava avere un significato, doppio, molteplice, trentadue significati diversi.
«Pochi forestieri sono forestieri quanto me, Lord Tibe. Sono molto riconoscente per ogni gentilezza.»
«Certamente, certamente! E la riconoscenza è un’emozione nobile e rara, molto elogiata dai poeti. Rara soprattutto qui a Erhenrang, forse perché è impraticabile. È un’epoca dura quella in cui viviamo, un’epoca ingrata. Le cose non sono più come ai tempi dei nostri nonni, non credete?»
«Posso averne solo una vaga idea, signore, ma ho udito le stesse rimostranze su altri mondi.»
Tibe mi fissò per qualche istante come se cercasse di capire se ero pazzo. Poi scoprì i lunghi denti gialli. «Oh, sì! Certamente! Continuo a dimenticare che venite da un altro pianeta. Ma certo non potete dimenticarlo voi. Anche se senza dubbio la vita sarebbe più serena e semplice e sicura per voi qui a Erhenrang se ve ne poteste dimenticare, vero? Certamente! Ecco la mia macchina, ho richiesto che mi aspettasse qui, un po’ in disparte. Mi piacerebbe offrirvi un passaggio per la vostra isola, ma devo rinunciare al privilegio poiché sono atteso alla Casa del Re a breve e i parenti poveri devono arrivare in anticipo, come si suol dire. Certamente!» disse il cugino del re infilandosi nella sua piccola auto elettrica, sorridendomi a denti scoperti, gli occhi velati da un reticolo di rughe.
Tornai a casa a piedi, alla mia isola.1 Il giardino di fronte era visibile ora che l’ultima neve dell’inverno si era sciolta e le porte invernali, a dieci piedi da terra, erano sigillate per un paio di mesi, fino a quando l’autunno e la neve fresca non fossero tornati. A lato dell’edificio fra fango e ghiaccio e la vegetazione primaverile del giardino, viva, soffice, lussureggiante, una giovane coppia parlottava. Le mani destre congiunte. Erano nella prima fase del kemmer. Soffici, enormi fiocchi di neve danzavano intorno a loro che, a piedi nudi, se ne stavano nel fango ghiacciato, le mani congiunte, gli occhi allacciati. Primavera su Inverno.
Cenai nella mia isola e al quarto rintocco della torre di Remmy mi recai al Palazzo pronto per uno spuntino serale. I karhidiani consumavano quattro pasti solidi al giorno, colazione, pranzo, cena e spuntino serale, e nel mezzo spiluccavano o si ingozzavano in modo fortuito. Non c’erano bestie da macello in inverno, né prodotti di mammiferi come latte, burro o formaggio; le uniche fonti di proteine e carboidrati erano i vari tipi di uova, pesci, noci e grani di Hainish. Con una dieta di scarsa qualità per un clima così...