L'armata scomparsa
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L'armata scomparsa

L'avventura degli italiani in Russia

  1. 252 pagine
  2. Italian
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L'armata scomparsa

L'avventura degli italiani in Russia

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"In tempo di guerra la verità è così preziosa che bisogna nasconderla dietro una cortina di bugie" ha scritto Winston Churchill. E sulla Seconda guerra mondiale ne sono state dette molte, ora per proteggere autentici segreti militari, ora per occultare responsabilità politiche, complicità, doppi giochi e tradimenti. Ma con la disastrosa avventura bellica italiana si è fatto ancora di più: si è cercato di attribuire alla folle megalomania di Mussolini - le cui colpe restano indiscutibili - anche quello che in verità dipese da una classe politica, militare, economica e intellettuale che prima lo aveva osannato e poi, ritenendolo il solo responsabile, lo aveva spinto verso il baratro. Alla luce delle rivelazioni, revisioni e riflessioni maturate negli ultimi anni, Petacco riscrive, con ritmo serrato e senza retorica, la cronaca dettagliata e impietosa, asciutta e diretta di quei cinque tragici anni in cui, accanto alle grandi personalità - Rommel, Churchill, Kesselring, Montgomery, Stalin e Mussolini - assurgono al ruolo di protagonisti i popoli e gli eserciti, i drammi collettivi, come in un grande "romanzo" corale.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2018
ISBN
9788852013669
Argomento
History
Categoria
World History
Parte prima

VORWÄRTS!

(Avanti!)
Macchinista, macchinista del vapore
dà pressione agli stantuffi
dell’Italia, dell’Italia siamo stufi
ed in Russia vogliamo andar…
Cantano i bersaglieri della Celere affacciati ai finestrini o ai portelloni dei carri bestiame surriscaldati dal sole di luglio. I militi della Tagliamento, in camicia nera, partecipano al coro con un canto più minaccioso:
Abbiam cambiato un giorno
in bombe il manganello
perciò faremo a pezzi
la falce ed il martello…
Coraggio, ragazzi: si parte per la Russia! È il 10 luglio 1941 e le prime delle settecento tradotte, che porteranno oltre duecentomila soldati italiani in quella che in gergo mussoliniano viene chiamata la Marca Orientale, lasciano le stazioni di Roma, Cremona e Verona in un tripudio di folle e di bandiere. Le campane delle chiese suonano a distesa, le bande militari strombazzano marcette, gli altoparlanti ululano parole d’ordine e i marciapiedi sono gremiti: scolaresche rumorose di «balilla» e di «piccole italiane» che sventolano piccoli tricolori e bandierine con la svastica, gerarchi in sahariana nera che salutano impettiti, preti benedicenti e cappellani in uniforme militare, crocerossine eccitatissime che distribuiscono fiori e pacchi dono, e tanta gente festosa che quasi occulta la presenza delle madri e delle spose che piangono in silenzio nella soffocante calura.
Le recenti notizie e le immagini dei cinegiornali che testimoniano la travolgente avanzata delle truppe tedesche in territorio sovietico hanno creato nel paese un clima di euforia. «Chissà se arriveremo in tempo», già si preoccupano i soliti strateghi da caffè. Nessuno infatti dubita dell’immancabile vittoria. Mussolini ha salutato i partenti con la parola d’ordine che lui stesso ha coniato e che ora è d’obbligo usare come formula di saluto nelle lettere a casa: Vincere, e Vinceremo! Anche la Chiesa non ha fatto mancare il suo viatico spirituale a coloro che si accingono a debellare il comunismo ateo. Il cardinale di Milano, Ildefonso Schuster, ha invocato in Duomo la vittoria ricordando la condizione necessaria: «Noi vinceremo se avremo Dio con noi, e lo avremo, se noi pure ci metteremo dalla sua parte».
Nessuno in quell’ardente vigilia potrebbe immaginare che, fra due anni, per riportare a casa i resti del nostro Corpo di spedizione saranno sufficienti appena diciassette tradotte.
Poi i treni si allontanano nel crepuscolo, i rumori della folla si spengono a poco a poco, e a bordo cala come un’ombra la malinconia del distacco. Il vociare si affievolisce, qualcuno estrae di tasca l’armonica a bocca e i motivi nostalgici lanciati alla radio da Natalino Otto, Oscar Carboni o Alberto Rabagliati sostituiscono i canti marziali della partenza: Un po’ di luna, un po’ di mare, un po’ di musica nel cuore… La nebbia portata dal vento… Forse sarà la musica del mare…
Una sola delle canzonette in voga viene tacitamente evitata: Campagnola bella. Porta male: la cantavano l’anno scorso gli alpini della Julia in partenza per la Grecia fino a quando, sul tragico ponte di Perati, la sostituirono con Bandiera nera.

Cominciamo dal principio

La campagna italiana di Russia è sempre stata raccontata cominciando dalla fine, o almeno anticipando il suo tragico epilogo e condendo il tutto con osservazioni, considerazioni e condanne suggerite dall’infallibile senno del poi. Ma se invece torniamo a quell’estate del 1941 con la mente sgombra dagli avvenimenti successivi, forse sarà più facile capire le ragioni che spinsero Mussolini a compiere quella scelta rovinosa.
In quella lontana estate, l’Italia era in guerra da poco più di un anno e aveva già collezionato una serie umiliante di sconfitte. Dopo nove mesi di titubante «nonbelligeranza», nel corso dei quali l’alleato tedesco aveva conquistato in poche settimane, con portentosi blitz, Polonia, Danimarca, Norvegia e Francia, il 10 giugno 1940 Mussolini aveva deciso di entrare al suo fianco nel conflitto dichiarando guerra all’agonizzante Francia e alla Gran Bretagna. Egli era consapevole dell’inadeguatezza delle proprie forze armate, ma aveva giocato d’azzardo convinto che la cosiddetta «guerra lampo» si sarebbe conclusa nel giro di pochi mesi. Tutti infatti pensavano che, liquidata la Francia, l’Inghilterra non avrebbe esitato ad accettare le proposte di pace che Hitler effettivamente le offrì nel luglio del 1940. «Mi bastano un migliaio di morti da gettare sul tavolo delle trattative», aveva infatti confidato il Duce a Badoglio il quale, come capo di Stato Maggiore, aveva avanzato gravi riserve sulla preparazione delle nostre truppe.
Ma le attese non si erano avverate: l’Inghilterra, benché isolata, aveva continuato a resistere e a combattere con albionica ostinazione. E Mussolini era stato costretto a rivelare il bluff. L’impero etiopico, impegnato in un’eroica resistenza senza speranze era stato abbandonato al suo destino, in Libia i carri britannici scorrazzavano a loro piacimento nel deserto minacciando Bengasi e Tripoli, sul mare la nostra squadra navale era stata dimezzata dai siluri e dai grossi calibri della Mediterranean Fleet, mentre l’azzardato diversivo della nostra aggressione alla Grecia era stato salvato dal completo fallimento grazie all’intervento delle provvidenziali divisioni germaniche.
Tuttavia, malgrado l’evidente crisi italiana, all’avvicinarsi dell’estate del 1941 le sorti del conflitto erano ancora saldamente in pugno alle forze dell’Asse Roma-Berlino. Salvo la Svizzera neutrale, l’intera Europa era dominata dalle truppe tedesche o controllata da governi alleati (Unione Sovietica, Ungheria e Romania) o non ostili (Spagna, Bulgaria, Svezia e Finlandia). L’Inghilterra, invece, era isolata e stretta d’assedio. Il suo vasto impero era in ebollizione per gli insorgenti movimenti nazionalisti e il suo unico alleato, gli Stati Uniti d’America, peraltro ben intenzionato a non intervenire, si limitava ad inviare enormi convogli di rifornimento di cui gli U-Boot tedeschi facevano strage nell’Atlantico.
Questa era dunque la situazione quando, all’alba del 22 giugno 1941, Hitler diede il via all’Operazione Barbarossa, la fulminea e proditoria aggressione all’Unione Sovietica con la quale, appena due anni prima, aveva firmato un patto di alleanza per spartirsi la Polonia e i paesi baltici. Le ragioni che lo spinsero a compiere questa scelta decisiva per il conflitto non sono ancora del tutto chiare. L’ipotesi che Hitler sia stato spinto in questa direzione da accordi segreti con ambienti britannici, o dalla convinzione che il mondo occidentale, capitalista, non lo avrebbe ostacolato (vedi l’ancora misterioso volo del vice-Führer Rudolf Hess in Inghilterra dieci giorni prima dell’attacco), benché verosimile non è mai stata confermata. Ma anche l’interpretazione del pensiero strategico di Hitler avanzata dagli storici non si discosta molto da questa realistica supposizione. Come sappiamo, Hitler aveva molto criticato la guerra su due fronti condotta dagli Stati Maggiori austro-tedeschi nel primo conflitto mondiale. La considerava la causa principale della sconfitta. Si deve quindi presumere che non avrebbe mai attaccato l’URSS se non fosse stato convinto di avere le spalle coperte. Sappiamo inoltre che Hitler era un terragno convinto, tanto da trascurare la marina a vantaggio dell’esercito. Le sue mire, d’altronde, erano esclusivamente territoriali: «Il mare se lo tenga pure l’Inghilterra» era solito dire. Di conseguenza, appena convinto di essersi assicurato le spalle con la liquidazione della Francia, il suo pensiero si era rivolto all’Est dove esisteva il mitico Lebensraum, lo spazio vitale su cui espandere il Grande Reich. Inutile aggiungere che a spingerlo in questo senso, oltre alla convinzione che l’Armata Rossa non avrebbe retto all’urto della Wehrmacht, influirono naturalmente anche motivi ideologici. «Finalmente» confiderà a Mussolini comunicandogli l’inizio di Barbarossa, «mi sono liberato di quel disagio spirituale che l’associarmi all’Unione Sovietica aveva pervaso il mio animo.»

La crociata antibolscevica

A proposito dell’attacco tedesco all’URSS, una certa storiografia ci presenta un Mussolini colto di sorpresa dall’avvenimento. Anzi, addirittura gettato giù dal letto, a Riccione dov’era in vacanza, dalla telefonata del messaggero di Hitler che gli annunciava, con appena un paio d’ore d’anticipo, l’imminente inizio dell’Operazione Barbarossa. Naturalmente, non è vero. Pur non essendo preciso sulle date, Hitler aveva preavvertito da tempo l’alleato delle sue intenzioni e non vi è dubbio, come documenta lo storico Renzo De Felice, che già nel maggio del 1941 Mussolini era sostanzialmente a conoscenza dell’Operazione Barbarossa. Nel caso contrario non si spiegherebbe perché, già il 30 maggio, Mussolini avrebbe ordinato al capo di Stato Maggiore, Ugo Cavallero, di allestire un Corpo di spedizione in previsione di un conflitto russo-tedesco a cui «l’Italia non può rimanere estranea perché si tratta di lottare contro il comunismo».
Resta invece da chiedersi perché Mussolini volle ostinatamente partecipare a quella campagna. I piani predisposti per Barbarossa dallo Stato Maggiore tedesco non prevedevano una partecipazione italiana, ma solo quella di Finlandia, Ungheria e Romania, paesi confinanti con l’URSS e con un ampio contenzioso da riscattare. Da parte sua, Hitler gli italiani proprio non li voleva e cercherà invano di dissuadere Mussolini dall’intento sottolineando i rischi dell’impresa con le solite circonlocuzioni diplomatiche. In privato sarà invece più duro e sprezzante: «Farebbe meglio» commentò con i suoi generali «a preoccuparsi della situazione in Libia dove, se non fossimo intervenuti noi, il suo esercito sarebbe già stato rigettato in mare». Pochi mesi prima, infatti, per ristabilire la situazione, i tedeschi erano stati costretti a inviare in Libia l’Afrika Korps al comando del generale Erwin Rommel.
La prontezza con la quale il Duce decise di scendere in campo va comunque giudicata con la mente sgombra da cosa accadde poi. Sul momento, infatti, una volta che Hitler si era messo in marcia con un’azione spettacolare che lasciò il mondo col fiato sospeso (tre milioni di uomini, migliaia di carri e di aerei scatenati su un fronte che andava dal Baltico ai Carpazi), Mussolini, che forse, se avesse potuto, si sarebbe opposto a quella decisione, non aveva interesse a estraniarsene. Il rischio, come si usa dire, valeva la candela. Tutti erano infatti convinti che il blitz fosse destinato a un rapido successo. La pessima prova fornita dall’Armata Rossa nel conflitto russo-finnico del 1939-40 (dove era stata messa in serie difficoltà da un minuscolo esercito di trentamila sciatori) costituiva anche per gli anglosassoni un test incontrovertibile. Secondo il ministro della Guerra americano, Henry Stimson, per esempio, i tedeschi avrebbero vinto nel giro di due mesi o «al massimo tre». Da parte loro, i soldati germanici contavano di giungere a Mosca in sei settimane, e gli strepitosi risultati ottenuti fin dai primi giorni confermavano questa eventualità.
Oggi è molto difficile descrivere l’eccitazione e anche l’entusiasmo che sollevò nel mondo occidentale l’inizio di quell’operazione che l’astuto ministro della Propaganda nazista Joseph Goebbels ribattezzò «crociata antibolscevica»: molte posizioni sono state rivedute e corrette. Ma non c’è dubbio che negli ambienti economici internazionali la prospettiva di debellare definitivamente il «paese del socialismo» fu salutata con favore. Tanto è vero che a Londra molti criticarono la decisione del capo del governo britannico, Winston Churchill, di schierarsi al fianco di Stalin. Ma lui non ebbe esitazioni: «Se Hitler attacca l’inferno» dichiarò l’ostinato premier, cui si deve la soluzione diversa del conflitto, «io mi alleo con il diavolo».
Come si è detto, anche Ungheria, Romania e Finlandia scesero immediatamente in campo. Le prime due inquadrarono le loro divisioni nell’esercito tedesco, la Finlandia pretese invece di condurre una guerra autonoma come «compagno d’armi». Pochi giorni dopo l’inizio delle ostilità anche la Francia di Vichy e la Spagna di Franco ottennero da Hitler il permesso di partecipare alla «crociata» e di inviare i loro volontari. Neanche la Chiesa rimase indifferente di fronte all’eccezionale avvenimento. Per esempio, la Santa Sede si pose subito il problema di riorganizzare la vita religiosa nel paese in cui imperava il «comunismo ateo». Invierà infatti al seguito degli ungheresi e poi degli italiani un numero eccezionale di cappellani militari anche se, ufficialmente, rifiutò di prendere una posizione precisa. Pio XII infatti respinse le pressioni tedesche e italiane affinché ribadisse solennemente la condanna del bolscevismo. «Se io parlassi del bolscevismo» risponderà il Santo Padre al ministro Attolico che sollecitava una sua dichiarazione, «non dovrei forse parlare anche del nazismo? Se un giorno dovrò parlare, parlerò, ma dirò tutto.» Mentre da parte sua monsignor Tardini, segretario di Stato, a chi gli chiedeva di benedire la «crociata antibolscevica» rispondeva significativamente: «Vedo la crociata, ma non i crociati».
Tuttavia, anche se il vertice della Chiesa si mantenne con fermezza neutrale, il variegato mondo cattolico non poteva non plaudire, almeno nei primi mesi, alla campagna anticomunista. Non mancarono infatti voci autorevoli di vescovi e di cardinali che benedirono senza mezzi termini «la lotta contro la barbarie rossa». Persino Alcide De Gasperi, allora bibliotecario in Vaticano, manifestò soddisfazione per l’eventuale caduta di Mosca.
Benché spinto all’intervento dall’atmosfera euforica che si era creata attorno a Barbarossa (i giornali riferivano con titoli a piena pagina gli strepitosi successi conseguiti dalla Wehrmacht, mentre sugli schermi scorrevano le immagini delle lunghe colonne di prigionieri russi in mezzo ai campi di girasole) Mussolini era meno ottimista di Hitler sul risultato della campagna. «Non mi dispiacerebbe affatto» confiderà in quei giorni a Galeazzo Ciano «se la Germania perdesse nello scontro con la Russia molte penne…» Insomma, non dubitava della vittoria, ma temeva, o meglio, sperava che l’impresa fosse molto più impegnativa delle «passeggiate militari» in cui i tedeschi si erano fino allora esibiti guadagnando tanto prestigio. Ciò avrebbe ridimensionato la loro albagia e anche le brutte figure in cui erano incorse le truppe italiane.
A questo proposito, lo storico Renzo De Felice riferisce una frase pronunciata da Mussolini in quei giorni che è rivelatrice del suo stato d’animo: «C’è un problema che mi assilla» disse nel corso di un Consiglio dei ministri «e sul quale la mia mente ritorna spesso: dopo la vittoria tedesca sulla Russia, non vi sarà una sproporzione troppo grande fra l’apporto germanico e quello italiano alla guerra dell’Asse?». In questa domanda si nasconde la ragione principale che spinse Mussolini a inviare forze italiane sul fronte russo. Egli si riprometteva, contribuendo militarmente alla sconfitta sovietica, di rilanciare in Italia e nel mondo la propria immagine di primo campione della lotta contro il bolscevismo.

Vengo anch’io! No, tu no…

Mussolini era stato ufficialmente informato dell’inizio dell’Operazione Barbarossa all’alba del 22 giugno. Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri, si era messo in contatto con lui, telefonicamente, dopo che l’ambasciatore tedesco, von Bismarck, gli aveva recapitato il messaggio del Führer consistente in una lunga lettera in cui Hitler spiegava dettagliatamente le ragioni e gli obiettivi dell’impresa. Il Duce, che si trovava a Riccione per un periodo di vacanza, fu colto di sorpresa ma solo dall’ora insolita (e non mancherà più tardi di approfittarne per uno sfogo antitedesco. «Io non oso di notte disturbare i servitori» dirà a Ciano. «E i tedeschi mi fanno saltare dal letto senza il minimo riguardo»). Ma non era impreparato. Dispose infatti l’immediata esecuzione dei piani predisposti. Ossia, consegna della dichiarazione di guerra all’ambasciatore sovietico Gorelkin (il quale, lui sì colto di sorpresa dagli avvenimenti, si era concesso una giornata di mare a Fregene) e ordine al generale Cavallero di procedere rapidamente ai preparativi riguardanti l’allestimento del Corpo di spedizione.
Era poi seguito uno sconcertante scambio di messaggi fra il Duce e il Führer: il primo che chiedeva l’onore di partecipare all’impresa con le sue truppe, il secondo, evidentemente desideroso di declinare l’of...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’Armata scomparsa
  4. Parte prima. VORWÄRTS! (Avanti!)
  5. Parte seconda. WIDERSTEHEN! (Resistere!)
  6. Parte terza. DAVAI (Camminare)
  7. Bibliografia
  8. Ringraziamenti
  9. Inserto fotografico
  10. Copyright