Nessuno ne parla
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Nessuno ne parla

  1. 168 pagine
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Nessuno ne parla

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Informazioni sul libro

Una giovane donna recentemente balzata alla ribalta per i suoi post virali sui social media viaggia in tutto il mondo per incontrare i suoi fan adoranti. La sua esistenza è ormai un'immersione totale nella navigazione online, nel nuovo linguaggio e negli usi e costumi di quello che lei chiama "il portale". Nemmeno l'incombere di minacce esistenziali di enorme portata (il cambiamento climatico, il dilagare della precarietà economica, l'ascesa di un dittatore senza nome e un'epidemia di solitudine) è in grado di arrestare la valanga di immagini, dettagli e riferimenti che si accumulano per formare un paesaggio che è post-senso, post-ironia, post-tutto. "Siamo all'inferno?" si chiedono gli abitanti del portale. "Continueremo a fare questo fino alla morte?" Improvvisamente, due messaggi di sua madre bucano questa densa cortina di chiacchiericcio digitale: "Qualcosa è andato storto" e "Tra quanto riesci ad arrivare?". Mentre la vita reale e la sua posta in gioco si scontrano con la crescente assurdità del portale, la protagonista si ritrova alle prese con un mondo che sembra contenere sia un'abbondanza di prove dell'esistenza di bontà, empatia e giustizia nell'universo, sia un diluvio di prove del contrario.

Irriverente e sincero, struggente e deliziosamente profano, frammentario e onnisciente, scritto da una poetessa come Patricia Lockwood (una delle voci più originali del nostro tempo), Nessuno ne parla è insieme un omaggio pieno di passione all'infinito scrolling, una potente meditazione sull'amore e una riflessione sul valore delle relazioni umane e sulle insidie dei social media.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
ISBN
9788835717058

PRIMA PARTE

Aprì il portale, e la mente la raggiunse a più di metà strada. Il clima all’interno era tropicale e nevoso, e il primo fiocco della bufera di ogni cosa atterrò sulla sua lingua e si sciolse.
Ingrandimenti di nail art, un sassolino dallo spazio, i molteplici occhi di una tarantola, una tempesta come pesche sciroppate sulla superficie di Giove, I mangiatori di patate di Van Gogh, un chihuahua appollaiato su un membro in erezione, il portone di un garage con sopra scritto a bomboletta STOP! DON’T EMAIL MY WIFE!
Come mai il portale sembrava così privato, se ci entravi solo quando avevi bisogno di essere dappertutto?
Tastò il marmo verde e compatto del giorno in cerca di una minuscola fessura dalla quale uscire. Non poteva forzare la mano. Fuori l’aria sembrava appesa al cielo come un fagotto, e le nuvole fluttuavano come mucchi di imbottitura per divani, e a sud del cielo c’era un punto delicato dove un arcobaleno voleva esistere.
Poi tre sorsi di caffè, e una finestra si aprì.
“Sono convinto che il mondo si stia riempiendo troppo lol” le scrisse suo fratello, quello che ogni sera si annientava con una sua cometa personale chiamata Fireball.
Capitalismo! Era importante odiarlo anche se ti serviva per fare soldi. Lentamente, molto lentamente, si avvicinò a una posizione che sarebbe stata troppo filosofica persino per Gesù: doveva odiare il capitalismo e al tempo stesso amare le scene dei film ambientate nei centri commerciali.
Politica! Il problema era che adesso avevano un dittatore, e secondo alcuni (i bianchi) non lo avevano mai avuto mentre secondo altri (il resto del mondo) lo avevano sempre avuto, ininterrottamente, fin dalla notte dei tempi. Sentirsi stupida la mandava nel panico, e anche ascoltare il suono della propria voce quando parlava con gente che non aveva ancora smesso di essere stupida.
Il problema era che il dittatore era divertentissimo, cosa che forse si può dire di tutti i dittatori della Storia. Assurdismo, pensò. Di colpo tutti quei romanzi russi in cui un uomo si trasformava in un cucchiaino di marmellata di more dentro una casa di campagna cominciarono ad avere senso.
Qual era quel pensiero bellissimo, quell’intensa profondità che si era convinta a mettere nero su bianco? Aprì il taccuino con il senso di speranza che la accompagnava sempre in quelle occasioni: forse sarebbe stata la frase buona, quella che avrebbero inciso sulla sua lapide. Diceva:
chuck e cheese può rosicchiarmi quella cosa lì
Dopo la morte, pensò mentre si lavava accuratamente le gambe sotto gli spilli d’acqua perché aveva appena scoperto che qualcuno non lo faceva, vedrai un piccolo grafico a torta che ti dirà quanta parte della tua vita hai trascorso dentro la doccia discutendo con gente mai incontrata. Cos’è, per caso vale meno del tempo passato a monitorare con cura la robustezza delle tane dei castori cercando di intuire se l’inverno imminente sarà rigido?
La sua era una stereotipia? Aveva proprio paura di sì.
Le cose che erano sempre presenti:
Il sole.
Il suo corpo, e quella minima increspatura alla radice dei capelli.
Una quasi musica nell’aria, caotica, elementare e turbinosa, come gomitoli di lana di vari colori lasciati lì ad aspettare.
La sigla di un programma per bambini in cui i manichini di un centro commerciale prendevano vita ogni notte.
Un video anonimo di History Channel con milioni di sagome grigie in marcia, aeroplani con il muso da squalo, dispiegamenti setosi di missili, funghi atomici.
Un episodio di True Life su una ragazza a cui piaceva cospargersi d’olio, immergersi in un pentolone pieno di verdure miste e fingere che i cannibali stessero per avventarsi su di lei. Sessualmente.
Un nonpensiero quasi formato: Ho addosso una cimice???
Una grande vergogna per tutto, per tutto quanto.
Che fine aveva fatto la vecchia tirannia, la tirannia del marito sulla moglie? Sospettava che fosse confluita quasi tutta in idee strambe sugli integratori, nel dibattito per stabilire se il vinile suonasse più “caldo”, e quali macchinette per l’espresso fossero solo una cagata in bocca al cristo del caffè. “Cent’anni fa saresti stato a picconare dentro una miniera di carbone, e avresti avuto quattordici figlie che si chiamavano tutte Jane” pensava spesso con stupore mentre guardava un uomo puntare un dito contro sua moglie davanti alla vetrina di Keurig. “Duecento anni fa magari saresti stato in un bar di Göttingen a sbattere il giornale e a discutere delle notizie di attualità, mentre io sbattevo le lenzuola fuori dalla finestra perché non sapevo leggere.” Ma non sembrava che la tirannia incarnasse sempre lo stato delle cose?
Era un errore credere che gli altri non vivessero con la tua stessa profondità. Che poi, non stavi neanche vivendo così profondamente.
La quantità di origliamenti in corso era enorme, le conseguenze ancora ignote. I diari degli altri scorrevano intorno a lei. Per esempio, era il caso di ascoltare le conversazioni degli adolescenti? Era il caso di seguire con tale avidità i complimenti che gli sceriffi di campagna elargivano alle pornostar senza rendersi conto che chiunque poteva leggerli? E il thread delle donne che si erano accorte di avere tutte la stessa identica cicatrice sul ginocchio? “Ho anch’io quella cicatrice!” intervenne una donna bianca, ma fu prontamente ed efficacemente zittita perché non era uguale, aveva interrotto un senso di condivisione, il mondo in cui lei aveva quella cicatrice non era lo stesso.
Ogni mattina si sdraiava estasiata sotto una valanga di dettagli, foto di colazioni in Patagonia, una ragazza che si applicava il fondotinta con un uovo sodo, uno Shiba Inu in Giappone che saltellava da una zampa all’altra per salutare il suo padrone, donne pallide come fantasmi che postavano fotografie dei loro lividi; il mondo che si stringeva sempre più intorno a lei e la schiacciava, la ragnatela di connessioni umane ormai così fitta da diventare quasi una seta sfavillante e compatta, e il giorno che ancora non si decideva ad accoglierla. Perché era autorizzata a vedere tutto questo?
Se cominciava a mordersi il labbro inferiore, come faceva quasi sempre dopo l’amarezza del suo caffè mattutino, una specie di kopi luwak allungato col latte, andava in bagno, con l’edera incolta che spuntava sopra la finestra a formare una sorta di frangia, e si tingeva molto accuratamente le labbra di un rosso deciso e intenso tipo copritastiera del pianoforte, come se quella sera avesse dovuto fare un salto in un locale underground dove sarebbe andata spoglia quanto un lustrino mancante, dove avrebbe sintetizzato l’intera nuvola crepuscolare del sentimento umano in una strofa di sei parole.
Qualcosa in fondo alla testa le faceva male. Era la sua nuova coscienza di classe.
Ogni giorno la loro attenzione doveva orientarsi simultaneamente, come il luccichio di un banco di pesci, verso una nuova persona da odiare. A volte il soggetto era un criminale di guerra, altre volte era qualcuno che aveva compiuto un’efferata sostituzione negli ingredienti del guacamole. A interessarle non era tanto l’odio quanto il suo repentino attenuarsi, come se il loro sangue collettivo avesse preso una decisione. Come fossero una specie che rilasciava sbuffi di veleno o nuvole di inchiostro nero sul fondale oceanico. A proposito, avete letto quell’articolo sull’intelligenza dei polpi? Avete letto che i polpi stanno marciando fuori dal mare e sulla terraferma in armate viscide e ubbidienti?
«Ahahahah!» strillò, un modo di ridere nuovo e più divertente, mentre guardava un video con dei corpi sbalzati da una giostra alla Ohio State Fair. Le traiettorie nell’aria erano archi di pura gioia, le magliette liquefatte sulla loro pelle, incredibile cosa riusciva a fare la carne quando cedeva, fino allo schiocco arrendevole del…
«Cosa c’è da ridere?» chiese il marito, seduto di traverso sulla poltrona con gli stinchi affilati che penzolavano da un bracciolo, ma a quel punto aveva già scorso il resto del thread e aveva scoperto che uno di loro era rimasto ucciso e altri cinque erano tra la vita e la morte. «Oddio» esclamò rendendosene conto. «Oh Cristo, no, oddio!»
Ogni sera alle nove abbandonava la sua mente. La abiurava come un credo. La deponeva come una corona, solo per amore. Andava verso il freezer, si spalancava l’aria fresca sul viso, posava le dita sul collo ghiacciato di una bottiglia e versava in un bicchiere un liquido molto, molto trasparente. E poi era felice, anche se ogni sera temeva, cosa che non facciamo mai con il sapere, che non ce ne fosse abbastanza.
Dentro il portale, un uomo che tre anni prima postava solo cose tipo “Sono un ritardato con l’AIDS al culo” adesso esortava la gente ad aprire gli occhi sul potere del socialismo, che all’improvviso sembrava davvero l’unica via.
Il suo pronome, al quale non si era mai sentita particolarmente legata, si spingeva sempre più lontano da lei nel portale, catapultato in paesaggi di noi, lui e loro. Ogni tanto tornava indietro volando sulla sua spalla, come un pappagallo pronto a ripetere qualunque cosa dicesse ma che per il resto non c’entrava niente con lei, anche perché lo aveva ricevuto in eredità da una vecchia zia stramba che sul letto di morte aveva semplicemente gracchiato: “Pensaci tu!”.
Ma per la maggior parte del tempo si trasformava in voi, voi, voi, voi, e alla fine non aveva idea di dove finisse lei e dove iniziasse il resto della gente.
C’era una fotografia iconica, nitida nella sua divisa da infermiera, di una donna piegata all’indietro e baciata da un soldato durante il V-Day. La vedevamo da tutta la vita e pensavamo di avere colto la particolare scintilla catturata in quell’immagine, e invece adesso la donna era emersa dalla storia per dire al mondo che non conosceva affatto quell’uomo, che in realtà era stata terrorizzata per tutto il tempo dell’incontro. E solo a quel punto balzavano all’occhio il colibrì della sua mano sinistra, l’innaturale torsione della schiena, il gomito del soldato come una morsa intorno al suo collo. «Non lo avevo mai visto in vita mia» aveva dichiarato, ed ecco che l’uomo si stagliava in quella fotografia, e nelle nostre menti, aggrappato a lei come fosse la vittoria che non voleva più lasciare andare.
Ovviamente erano sempre quelli che si dichiaravano di larghe vedute a rubare di più. Ad appropriarsi per primi dello slang. Per dimostrare… cosa? Che non erano come gli altri? Che sapevano cosa valeva la pena rubare? Erano anche i più colpevoli. Ma la colpa non valeva niente.
C’era un giocattolo nuovo. Lo sfottevano tutti, poi qualcuno disse che era stato progettato per le persone autistiche, allora smisero di sfotterlo e iniziarono a sfottere quelli che prima lo sfottevano. Poi qualcun altro scoprì una versione in pietra di un milione di anni fa in un certo museo, e questo sembrava dimostrare qualcosa. Poi venne fuori che le origini del giocattolo c’entravano con Israele e la Palestina, e così si decise di comune accordo di non parlarne mai più. E tutto questo successe nell’arco di tipo quattro giorni.
Aprì il portale. “Continueremo a fare questo fino alla morte?” si chiedevano tra loro, mentre altri giorni la domanda era: “Siamo all’inferno?”. Non all’inferno, pensò, ma in una stanza fluorescente con riviste per sempre obsolete in cui aspettavano di entrare nella memoria della storia sfogliando una copia di “Louisiana Parent” o “Horse Illustrated”.
Era proprio in questo luogo dove eravamo a un passo dal perdere i nostri corpi che i corpi diventavano importantissimi, era in questo luogo della grande mescolanza che diventava fondamentale sapere se da bambino dicevi bibite o bevande, se tua madre cucinava con il sale aromatizzato all’aglio oppure tritando gli spicchi veri, se avevi appeso alle pareti opere d’arte reali o fotografie della tua famiglia in posa, seduta su ceppi di legno davanti a uno sfondo finto, o se avevi quello specifico Tupperware ricoperto di macchie arancioni. La tua immagine veniva sezionata fino al più piccolo particolare, fluttuavi nello spazio, era la confraternita di tutti gli uomini e per certi versi non eravate mai stati così lontani l’uno dall’altro. Continuavi a ingrandire e ingrandire quel particolare caldo, finché non evocava la freddezza della luna.
«Cosa stai facendo?» le chiese il marito sottovoce, esitante, ripetendo la domanda finché lei non alzò lo sguardo vacuo su di lui. Cosa stava facendo? Non si era accorto che aveva le braccia colme di zaffiri dell’istante? Non capiva che quel giorno un uomo femminista aveva postato una foto del suo capezzolo?
Era diventata famosa per un post che diceva semplicemente: “Esiste un cane gemello?”. Tutto qui. Esiste un cane gemello? Negli ultimi tempi aveva raggiunto la fase di penetrazione nella quale dei ragazzini le mandavano emoji che piangevano dal ridere. Erano liceali. Avrebbero ricordato “Esiste un cane gemello?” anziché la data del trattato di Versailles, che, ammettiamolo, non sapeva nemmeno lei.
Questo l’aveva elevata a una sorta di fama astratta. In tutto il mondo la invitavano a parlare, da quello che sembrava un banco di nuvole, della nuova comunicazione, del nuovo flusso di informazioni. Si sedeva sul palco accanto a uomini conosciuti soprattutto con il loro username e a donne che si disegnavano sopracciglia così spesse da sembrare pazze, e tentava di spiegare perché fosse oggettivamente più divertente scrivere sternutare invece di starnutire. Non sembrava proprio la vita reale, ma cosa lo sembrava, al giorno d’oggi?
In Australia, dove godeva di un’inspiegabile popolarità, si sedette sul palco sotto le luci liquefatte con un tizio esperto di internet che aveva stampata in faccia la soddisfazione di essere canadese e i capelli visibilmente ingellati con un gel da 32 dollari. Parlò in modo chiaro e persuasivo di svariati argomenti, ma indossava uno di quei pantaloni cyber che mettevamo quando eravamo convinti che avremmo esplorato internet in skateboard. Aveva sempre addosso anche un paio di occhiali caleidoscopici, come per proteggersi dalla luce accecante del cyberspazio emanata da un sole che portava con sé, esattamente in mezzo al suo campo visivo, ed era la stella del futuro piazzata nella vecchia concavità ossea del cielo.
«Sternutare è più divertente, vero?» gli chiese.
«Senza dubbio» rispose lui. «Sternutare tutta la vita.»
Durante queste comparsate, il suo corpo veniva posseduto da quello che considerava un de...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Nessuno ne parla
  4. PRIMA PARTE
  5. SECONDA PARTE
  6. Ringraziamenti
  7. Copyright