Thika. Un'infanzia in Africa
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Thika. Un'infanzia in Africa

  1. 384 pagine
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Thika. Un'infanzia in Africa

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Kenya, 1913. Sotto il sole implacabile dell'Africa Orientale Britannica, una bambina inglese e sua madre stanno viaggiando su un carro trainato da buoi. Vanno a Thika, «un nome su una mappa alla congiunzione di due fiumi», dove le aspetta Robin, il capofamiglia, che lì ha acquistato il suo «pezzetto di El Dorado», una piantagione di caffè. In realtà si tratta di duecento ettari di savana arida, infestata da terribili insetti senza neppure una capanna di paglia in cui dormire. Vivere a Thika sarà tutt'altro che facile. Ma grazie alla loro determinazione e all'aiuto della popolazione kikuyu, i coloni riusciranno a trasformare quel pezzo di terra selvaggia in un'efficiente fattoria.

Con eccezionale sensibilità per i dettagli e fine senso dell'umorismo, Elspeth Huxley rievoca la sua infanzia ricca di avventure e libertà in una terra tanto aspra quanto meravigliosa. Thika è un emozionante memoir che diventa anche uno struggente canto d'amore per la rude bellezza dell'Africa.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
ISBN
9788835716181

IX

A Capodanno, la maggior parte degli agricoltori andava a Nairobi per le corse. Il primo anno Tilly e Robin restarono a casa, ma la volta seguente i Palmer li convinsero ad andare, e io fui mandata dalla signora Nimmo.
La signora Nimmo era gentile, ma troppo materna. Tilly era così presa dalle faccende quotidiane da avere poco tempo, e forse ancor meno propensione, per fare la mamma-chioccia. La vita era lì, a mia disposizione, e offriva sempre mille cose da fare, ma non era stata inventata per me, non ero considerata una bambina da maneggiare con cura, alla quale riservare un trattamento speciale. La signora Nimmo, che al presente non aveva figli – e le prolungate assenze del signor Nimmo non le davano molte speranze di averne –, era incline a riversare su di me il suo amore materno. Io lo trovavo imbarazzante, anche se non privo di vantaggi, perché mi dava da mangiare cose che mi piacevano e mi faceva sentire importante. D’altro canto, lei disapprovava tutto il tempo che passavo bighellonando per i fatti miei o parlando con i kikuyu, e cercava di mettere un freno alla mia autonomia.
La signora Nimmo era una donna grande, forte, spesso agitata, e dava l’impressione di essere sull’orlo di una crisi di nervi. Non era propriamente grassa, ma di struttura generosa, e caratterizzata da una bizzarra combinazione di indolenza ed energia. A volte restava con i bigodini fino a metà mattina e bighellonava in ciabatte, eppure era estremamente esigente riguardo all’ordine e alla pulizia del soggiorno, a come venivano serviti i pasti e a cose come pulirsi gli stivali prima di entrare in una stanza (faccende a cui in casa nostra spesso non si badava).
In alcuni aspetti era in anticipo sui tempi. Le cucine, per esempio, in genere erano considerate specie di antri della strega: meglio non metterci piede. Erano locali piccoli, anneriti dal fumo, riempiti da una stufa a legna (in genere comprata di seconda mano) e da una quantità di gente che ci si ammassava dentro, forse parenti del cuoco o semplici passanti. Per cuocere si usavano grandi tegami neri che non venivano mai sfregati per bene, come i pentoloni per il brodo. Tutto era incrostato da uno strato nero di fuliggine, la finestra era sigillata con vecchi sacchi per impedire che entrasse il minimo alito d’aria fresca, era troppo buio per vedere qualcosa e l’intrepido esploratore bianco che ci si avventurava inciampava su toto rannicchiati negli angoli, sobbalzava per gli odori insoliti e finalmente emergeva alla luce del sole con gli occhi che bruciavano e i polmoni chiusi dal fumo. Da quel buco nero e sovraffollato usciva sempre cibo caldo, nutriente e, se si dava al cuoco la minima possibilità, spesso anche appetitoso. Niente di buono derivava dal desiderare troppo l’igiene, e nessun cuoco sarebbe rimasto a lungo se il padrone si fosse messo a fare il pignolo. Era una situazione perfetta per Tilly, a cui non avevano insegnato a cucinare e che preferiva lavorare nella fattoria e nel giardino. Si era disinteressata della faccenda, lasciando la cucina in carico a Juma.
La signora Nimmo, d’altro canto, era una donna coscienziosa che voleva avere il controllo su tutto. Quindi lei e il cuoco erano perennemente in guerra; i sacchi venivano tirati giù, i toto scacciati e i tegami sfregati a fondo. Ma dopo che lei era passata in cucina come un tornado, di lì a pochi giorni le cose tornavano alla normalità e le ricette che aveva faticosamente insegnato al cuoco sparivano dal menu. In queste occasioni, il cuoco si aggirava con l’aria di un uomo in preda a una profonda sofferenza, cosa del resto vera, e a volte Tilly si chiedeva perché non se ne andasse. La ragione fu chiara qualche tempo dopo. L’uomo aveva incaricato un fabbro kikuyu di fare una copia della chiave della dispensa, e per lui la casa dei Nimmo era una specie di cornucopia traboccante di zucchero, lardo e paraffina.
Quando i bianchi scoprivano queste faccende ovviamente le consideravano furti e si scagliavano contro la morale dei nativi. Ma io non credo proprio che gli africani le vedessero così. I kikuyu erano onestissimi tra di loro: le messi crescevano senza che nessuno le saccheggiasse, le case erano munite soltanto contro gli spiriti malvagi, se una donna lasciava un carico di miglio sul ciglio della strada, o un uomo perdeva un corno per il tabacco o la lancia, al ritorno li trovavano intatti. Ma gli europei erano estranei al normale corso della vita e, quindi, le loro proprietà non obbedivano alle solite leggi; quello che possedevano spuntava come erba dopo la pioggia, e per un kikuyu servirsene non era un furto, non più che prendere il miele dalle api selvatiche.
«Devi finire il tuo budino al latte» mi ripeteva la signora Nimmo – sento ancora la sua voce bassa e monotona eppure cantilenante, vedo il suo sorriso gentile eppure curiosamente formale, quella faccia tonda con il naso schiacciato dove i singoli lineamenti, che presi di per sé erano abbastanza gradevoli, sembravano faticare a fondersi in una personalità. La sento ancora dire: «Devi finire il tuo budino al latte, fa bene alla pelle» oppure «Devi finire il tuo porridge, fa bene al cervello».
«Pensavo che quello fosse il pesce» protestavo.
«Be’, è anche il pesce, cara; il porridge fa bene a tutto, ti farà diventare una ragazza grande e bella.»
«Ma io non voglio diventare una ragazza grande e bella. Io voglio diventare un fantino.»
La signora Nimmo schioccava la lingua, come una gallina; la sua disapprovazione era evidente. La vita che conducevo a casa la sconvolgeva nel profondo, e la sentii osservare con Alec Wilson, che passò a trovarla un paio di giorni dopo il mio arrivo: «Non sono affari miei, certo, ma quando intendono mandare a scuola quella bambina? Non è giusto lasciare che cresca come un’indigena».
«La manderanno in un collegio in patria quando il caffè darà frutto» spiegò Alec.
«Quando il caffè darà frutto! Io voglio avere un castello in Spagna quando la mia nave tornerà in porto.»
Alec represse un sorriso; era opinione comune che il signor Nimmo stesse facendo un’enorme fortuna con il contrabbando di avorio, e Robin pensava che nascondesse le rupie sotto il pavimento della capanna, come facevano i kikuyu, o che le investisse in mandrie di bestiame in Uganda. Nel frattempo, la signora Nimmo era tenuta così a corto di contanti che poteva a malapena permettersi di comprare cinquanta uova per una rupia o una gallina per sei penny – questi erano i prezzi correnti – e doveva parecchi mesi di paga ai lavoranti.
«Il signor Nimmo è molto spiacente di non poter essere qui per il Capodanno» aggiunse la signora con il suo tono più formale. «Scrive di essere trattenuto per affari nel Congo belga. Ma lo attendo il prossimo mese.»
Era una formula che lei utilizzava di continuo; per quanto si sapeva, il signor Nimmo non scriveva mai, limitandosi a ricomparire tra un safari e l’altro, non troppo spesso: beveva un bel po’ di whisky, licenziava metà dei lavoranti, si lamentava dell’eccessiva prodigalità della signora Nimmo, e ripartiva.
Alec non era andato alle corse – non voleva spendere – e nemmeno il nostro vicino Victor Patterson, che aspettava ospiti. Alec era venuto a invitare la signora Nimmo ai festeggiamenti per Capodanno, ma lei aveva dovuto rifiutare a causa mia e, impietosito dalla sua delusione, Alec aveva accettato l’entusiastica proposta della signora di dare lei stessa una festa.
«Ma che cosa preparerò per cena?» si lamentò la signora Nimmo, in grandi ambasce. «Non c’è il manzo di prima qualità che avevamo a casa, e nemmeno un tacchino decente, e il pollame ha le dimensioni di uno storno, e la carne di montone è dura come una scarpa vecchia!»
«Il cibo sarà di secondaria importanza, almeno per Victor» replicò Alec. «E si porterà il suo whisky, credo.»
La signora Nimmo schioccò la lingua, esprimendo la speranza che tutto rimanesse nell’ambito della rispettabilità; il signor Nimmo non avrebbe tollerato niente di equivoco sotto il suo tetto.
«Lei potrebbe non crederci, ma mio marito è molto esigente, quando è a casa. Ovvio, è abituato al meglio. Suo padre era uno degli uomini più rispettati di Dundee, ed era stato nominato sindaco della città per due volte. E io non ho sempre vissuto come una zingara, come faccio qui. Mio nonno era Writer of the Signet,1 e mio prozio Andrew diventò Lyon Knight at Arms2
Alec se ne andò con deferenza, lasciando la signora Nimmo ad affannarsi, presa dalla foga di reperire il cibo e prepararlo, di mettere tutto in ordine e assillare il cuoco, che da parte sua sembrava distante e indifferente; non vedeva la ragione di tutta quell’improvvisa, frenetica attività, il Capodanno era un giorno come un altro, non era un banchetto di nozze, una circoncisione o un fidanzamento.
«Oh cosa darei per un buon, gustoso taglio di manzo scozzese di prima scelta, o un bel tacchino di Midlothian!» gemeva la signora Nimmo. «O anche per un agnello muso nero o un salmone appena affumicato! Questo è un paese selvaggio e non c’è niente che valga la pena mangiare. La farina è così grossolana e grumosa che anche se facessi la focaccina migliore possibile, mia madre la farebbe volare dalla finestra. Mi piace il giovane signor Wilson, è un ragazzo che parla con proprietà, ma quel signor Patterson… Be’, immagino che non possa fare a meno di essere australiano, e quaggiù si deve prendere il brutto insieme al bello; ma spero che i suoi amici non siano della stessa pasta, o non so cosa direbbe il signor Nimmo. È molto sofisticato riguardo alle persone da invitare a casa.»
Non vidi un granché degli amici di Victor Patterson, perché poco dopo il loro arrivo mi mandarono a letto, ma avevo già sentito parlare della signora Walsh, e in seguito la rividi un paio di volte: era il genere di persona che lascia un segno indelebile nella memoria, come un marchio a fuoco. Era decisamente un tipo focoso, piccola, magra, con i capelli rossi, vibrante di energia. Gli occhi erano azzurri e vivacissimi, la carnagione accesa e parlava con un forte accento irlandese. Infatti non era nata in Australia, ma ci aveva vissuto per molti anni con il primo marito, ormai defunto; con lui era partita a diciassette anni a cercare fortuna nei giacimenti auriferi dell’Australia Occidentale. Invece di fare fortuna, aveva perso tutto quello che aveva – il marito e i suoi due bambini, uno annegato, l’altro morso da un serpente velenoso; e così a meno di trent’anni aveva lasciato l’Australia, sola e senza amici, per trovare la sua strada in Sudafrica.
Subito dopo la costruzione della ferrovia, si era trasferita sulla costa orientale insieme al secondo marito, John Walsh, un inglese flemmatico; i due erano rimasti insieme fino alla fine dei loro giorni. Tutti la chiamavano Mary la Pioniera. Quando arrivò a Thika per il Capodanno di cui sto parlando, quello del 1914, era un personaggio famoso, perché aveva viaggiato per tutto il Protettorato e nel territorio tedesco per commerciare con gli indigeni, a volte su un carro trainato da buoi e a volte a dorso di mulo, a volte con il marito e a volte da sola. Non aveva paura di niente, e andava tra tribù ancora non sfiorate dall’influenza europea, e più o meno estranee alle leggi europee, con il fucile a tracolla, ma non aveva mai dovuto usarlo, se non per procurarsi da mangiare. Le importava poco di dove andava, o di quel che faceva, o con chi parlava. A volte portava il suo carro sul marciapiede di una stazione ferroviaria – non propriamente un marciapiede, ma soltanto una superficie piatta indurita dal murram – per offrire la mercanzia ai passeggeri indigeni: arance, banane, uova, polli già cotti, oppure oggetti apprezzati dagli africani, come fazzoletti di cotone colorato, pettini, gingilli e specchietti, e qualsiasi altra cosa la signora riusciva ad accaparrarsi a poco prezzo nei bazar.
I nativi che lavoravano per lei la temevano e la rispettavano, e forse credevano che fosse un essere sovrumano perché, se pure abbastanza femminile nell’aspetto, a loro parere non aveva niente del carattere di una donna. Era diretta, dura e a volte violenta, e mai nessuno la molestò. Tutte le volte che la incontrai era allegra e cordiale, anche se era facile credere che avesse il temperamento per il quale era famosa. In lei c’era qualcosa che ti faceva stare in guardia, come di fronte a una leonessa addomesticata e che fa le fusa, ma che ha gli artigli pronti sotto le zampe.
Dalla signora Nimmo fu tutta fusa e niente artigli. Si guardò attorno nel soggiorno dalle pareti di paglia, ammirata: la signora Nimmo l’aveva decorato con rami verdi, candele colorate e stelle filanti.
«Be’, ma guardate qui!» esclamò Mary la Pioniera. «Non vi pare l’ambiente più accogliente del mondo? Sembra di essere tornati nella nostra cara vecchia patria, con la neve fuori e lo scampanio delle campane della chiesa e la servitù che aspetta il suo bicchiere di porto, vero? Be’, insomma, per l’amor del cielo, è tutto pulito e ordinato come l’uniforme di un fuciliere il giorno delle sue nozze!»
Andò avanti su questo tono per un po’, con la signora Nimmo che gongolava. Di base la capanna di paglia era ammobiliata in modo spartano, ma la signora Nimmo l’aveva rallegrata con oggettini e ninnoli (come li definiva lei) di sua proprietà, come scaldaletto d’ottone e contenitori per il carbone appesi alle pareti rivestite di cannicciata, ornamenti d’ottone per i cavalli sopra il grande focolare aperto, e in un angolo un filatoio che raccoglieva ragnatele. La legna ardeva nel focolare. Su una cassa da imballaggio coperta da una tovaglia di ciniglia rossa troneggiava un abete in vaso, fatto arrivare da Nairobi con considerevole difficoltà. Dai rami pendevano festoni, palle scintillanti e altri gingilli. La signora aveva fatto fiorire l’albero con candele rosse, azzurre e gialle; se socchiudevi gli occhi assomigliava a un misterioso animale accucciato con la pelliccia dorata e i finimenti argentati: per me era assolutamente meraviglioso.
Mary la Pioniera tirò fuori dall’enorme tasca della sahariana un pacchetto fatto su alla buona, dicendo che se avesse saputo prima che c’era una bambina mi avrebbe portato qualcosa di bello e divertente, un giocattolo o un libro, ma non era riuscita a trovare altro. Era un piccolissimo coccodrillo, lungo una ventina di centimetri, impagliato e scuoiato rozzamente, ma interessante perché era un rettile completo in miniatura, perfetto fino ai minuscoli artigli e ai piccoli bozzi lungo la spina dorsale e ai denti aguzzi che spuntavano dalla mascella feroce. Era straordinario che i coccodrilli nascessero così, completi: piccole, scattanti creature predatorie fin dal momento in cui arrivavano su questa terra. Adoravo il mio minicoccodrillo e lo tenni per...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Thika. Un’infanzia in Africa
  4. I
  5. II
  6. III
  7. IV
  8. V
  9. VI
  10. VII
  11. VIII
  12. IX
  13. X
  14. XI
  15. XII
  16. XIII
  17. XIV
  18. XV
  19. XVI
  20. XVII
  21. XVIII
  22. XIX
  23. XX
  24. XXI
  25. XXII
  26. XXIII
  27. XXIV
  28. XXV
  29. XXVI
  30. XXVII
  31. XXVIII
  32. XXIX
  33. XXX
  34. Copyright