L'ultima ragazza
eBook - ePub

L'ultima ragazza

Storia della mia prigionia e della mia battaglia contro l'ISIS

  1. 348 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

L'ultima ragazza

Storia della mia prigionia e della mia battaglia contro l'ISIS

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

NADIA MURAD è PREMIO NOBEL per LA PACE 2018.

Nell'agosto 2014 la tranquilla esistenza di Nadia Murad, ventunenne yazida del Sinjar, nell'Iraq settentrionale, viene improvvisamente sconvolta: con la ferocia che li contraddistingue, i militanti dello Stato Islamico irrompono nel suo villaggio, incendiano le case, radunano i maschi adulti uccidendone 600 a colpi di kalashnikov e rapiscono le donne, caricandole su autobus dai vetri oscurati. Per Nadia e centinaia di ragazze come lei, giovanissime e vergini, inizia un vero calvario. Separate dalle madri e dalle sorelle sposate, scontando l'unica colpa di appartenere a una minoranza che non professa la religione islamica, vengono private di ogni dignità di esseri umani: per i terroristi dell'ISIS saranno soltanto sabaya, schiave, merce da vendere o scambiare per soddisfare le voglie dei loro padroni.

L'abisso della prigionia, gli stupri selvaggi, le torture fisiche e psicologiche, le continue umiliazioni, insieme al dolore per la perdita di quasi tutti i parenti, vengono raccontati da Nadia - miracolosamente sfuggita agli artigli dei suoi aguzzini - con parole semplici e dirette, e proprio per questo di straordinaria efficacia. Le tremende sevizie le hanno lasciato cicatrici indelebili sul corpo e nell'anima, ma anziché ridurla al silenzio, cancellandone l'identità, l'hanno spinta a farsi portavoce della sua gente e di tutte le vittime dell'odio bestiale dell'ISIS.

Oggi Nadia è una donna libera, che ha scelto con coraggio di denunciare al mondo intero il genocidio subìto dal suo popolo, non per invocare vendetta, bensì per chiedere giustizia, affinché i colpevoli compaiano di fronte alla Corte penale internazionale dell'Aia e vengano giudicati e condannati per i loro orrendi crimini contro l'umanità. Ma il suo messaggio è soprattutto un pressante invito a non lasciarsi sopraffare dalla violenza e a conservare intatta, sempre e comunque, la fierezza delle proprie radici, e una struggente lettera d'amore a una comunità e a una famiglia distrutte da una guerra tanto assurda quanto spietata.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a L'ultima ragazza di Nadia Murad, Manuela Faimali in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Social Sciences e Social Science Biographies. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852083754

PARTE SECONDA

1

Non mi ero resa conto di quanto fosse piccolo il nostro villaggio finché non vidi l’intera popolazione di Kocho radunata nel cortile della scuola. Eravamo accalcati sull’erba secca. Alcuni sussurravano tra loro chiedendosi cosa stesse succedendo. Altri erano in silenzio, sotto choc. Nessuno aveva ancora capito cosa ci aspettava. Da quel momento, ogni mio pensiero e ogni mia azione furono un’invocazione a Dio. I militanti ci puntarono contro le armi. «Donne e bambini al piano di sopra» gridarono. «Gli uomini restano qui.»
Stavano ancora cercando di mantenerci calmi. «Se non vorrete convertirvi vi lasceremo andare alla montagna» dissero, così salimmo al piano di sopra come ci avevano ordinato, senza quasi salutare gli uomini rimasti in cortile. Se avessimo saputo cosa stava realmente per capitare loro, credo che nessuna donna avrebbe mai abbandonato il figlio o il marito.
Di sopra, ci raccogliemmo in piccoli gruppi nella sala comune. La scuola dove per tanti anni avevo studiato e fatto amicizia ora sembrava un luogo diverso. I pianti echeggiavano nella stanza, ma se qualcuno gridava o chiedeva cosa stesse succedendo, un militante dello Stato Islamico urlava di tacere e la stanza ripiombava in un silenzio colmo di terrore. Eravamo tutti in piedi, tranne le donne più anziane e i bimbi piccoli. Faceva caldo e respiravamo a fatica.
Le finestre protette da inferriate erano aperte per far entrare l’aria, e da lì era possibile vedere appena oltre i muri della scuola. Corremmo alle finestre per capire cosa stesse accadendo fuori. Io mi sforzavo di vedere qualcosa da dietro una fila di donne. Nessuna di noi guardava in direzione della città; tutte cercavamo di individuare figli, fratelli o mariti nella calca sottostante e capire cosa gli stesse succedendo. Alcuni uomini sedevano nel giardino con aria mesta, e provammo compassione per loro. Sembravano davvero disperati. Quando una fila di pick-up arrivò al cancello principale della scuola e i mezzi si raggrupparono in modo disordinato lasciando accesi i motori, nella stanza serpeggiò il panico, ma i militanti ci ordinarono di fare silenzio, perciò non potemmo chiamare a gran voce i nostri uomini o metterci a gridare come avremmo voluto.
Alcuni militanti cominciarono a girare per la stanza reggendo grandi sacchi e ci ordinarono di consegnare cellulari, gioielli e soldi, allora quasi tutte rovistammo nelle borse che avevamo preparato prima di lasciare la casa e gettammo i nostri averi nei sacchi aperti, spaventate a morte. Nascondemmo il possibile. Vidi alcune prendere i documenti dalle borse e togliersi gli orecchini dai lobi per nasconderli sotto gli abiti e nei reggiseni. Altre li spinsero in fondo alle borse quando i militanti non stavano guardando. Eravamo spaventate ma non volevamo arrenderci. Anche se ci avessero portate alla montagna, avevamo il sospetto che prima ci avrebbero derubato e c’erano alcune cose dalle quali non eravamo disposte a separarci.
I militanti, in ogni caso, riempirono tre grandi sacchi con i nostri soldi, i cellulari, fedi nuziali e orologi, documenti e tessere annonarie rilasciati dallo Stato. Perfino i bambini piccoli vennero perquisiti in cerca di oggetti di valore. Un militante puntò la pistola contro una ragazza che portava un paio di orecchini. «Togliteli e mettili nel sacco» le ordinò. Lei non si mosse, allora la madre sussurrò: «Dalli all’uomo così potremo andare alla montagna», e la ragazza si sfilò gli orecchini e li mise nel sacco aperto. Mia madre consegnò la fede, il suo bene più prezioso.
Dalla finestra vidi un uomo sulla trentina seduto sul terreno riarso contro il muro del giardino, accanto a un albero fragile e scheletrico. Lo avevo già visto al villaggio, ovviamente – ci conoscevamo tutti –, e sapevo che, come ogni uomo yazida, andava fiero del proprio coraggio e si considerava un combattente. Non era il tipo di persona disposta ad arrendersi facilmente. Eppure, quando un militante si avvicinò e indicò il suo polso, l’uomo non disse e non fece nulla per opporre resistenza. Si limitò a tendere il braccio e distolse lo sguardo mentre il militante gli sfilava l’orologio e lo gettava nel sacco prima di lasciargli andare il braccio, che ricadde lungo il fianco. In quel momento capii quanto fosse pericoloso l’ISIS. Avevano spinto i nostri uomini sull’orlo della disperazione.
«Dagli i tuoi gioielli, Nadia» ordinò mia madre sottovoce. L’avevo trovata in un angolo insieme ad alcuni parenti che stavano aggrappati gli uni agli altri, pietrificati. «Se controllano e li trovano, ti uccideranno di sicuro.»
«Non posso» mormorai. Tenevo ben stretta la borsa con i miei gioielli nascosti negli assorbenti. Avevo spinto sul fondo perfino il pane, temendo che i militanti mi costringessero a consegnarlo. «Nadia!» Mia madre tentò di protestare, ma solo per un secondo. Non voleva attirare l’attenzione su di noi.
Di sotto, il nostro mukhtar Ahmed Jasso era al telefono con il fratello Naif, che era ancora nell’ospedale di Istanbul con la moglie e che in seguito avrebbe raccontato a Hezni di quelle terribili telefonate. «Ci stanno requisendo gli oggetti di valore» disse Ahmed. «Poi hanno detto che ci porteranno alla montagna. Ci sono già i furgoni fuori dal cancello principale.»
«Può darsi, Ahmed» rispose Naif. Se questa è la nostra ultima telefonata, pensò tra sé, voglio che sia il più felice possibile. Ma dopo aver parlato con il fratello, Naif telefonò a un amico arabo in un villaggio vicino. «Se senti degli spari, chiamami» gli disse, poi riattaccò e aspettò.
Infine, i militanti chiesero anche ad Ahmed Jasso di consegnare il cellulare. Gli domandarono: «Tu rappresenti il villaggio. Cosa avete deciso? Vi convertirete?».
Il nostro mukhtar aveva dedicato la vita a servire Kocho. Quando c’era una disputa tra gli abitanti convocava gli uomini al jevat per tentare di risolverla. Se nascevano tensioni tra noi e un villaggio vicino, Ahmed Jasso era la persona incaricata di provare ad appianare le cose. La sua famiglia era l’orgoglio di Kocho, e ci fidavamo di lui. Adesso gli stavano chiedendo di decidere il destino dell’intero villaggio.
«Portateci alla montagna» disse.
Vi fu un momento di scompiglio vicino alle finestre, e mi feci largo per raggiungerle. Fuori, i militanti avevano ordinato agli uomini di salire sui furgoni parcheggiati all’esterno della scuola, e li stavano mettendo in fila per caricarli sui cassoni, stipandoli quanto più possibile. Mentre guardavano, le donne sussurravano tra loro temendo che, se avessero alzato la voce, un militante avrebbe chiuso la finestra impedendo la visuale. I ragazzi, alcuni a malapena tredicenni, vennero caricati sui furgoni insieme agli uomini, e avevano tutti l’aria disperata.
Scrutai i furgoni e il giardino in cerca dei miei fratelli. Vidi Massoud in piedi sul secondo furgone, che guardava dritto davanti a sé come gli altri uomini per evitare di alzare gli occhi verso la finestra affollata o di voltarsi indietro verso il villaggio. Con il suo gemello Saoud al sicuro in Kurdistan, Massoud non aveva detto più di dieci parole durante l’assedio. Era sempre stato il più stoico tra i miei fratelli. Amava la quiete e la solitudine, e il lavoro di meccanico era perfetto per lui. Uno dei suoi amici più cari era stato ucciso quando aveva tentato di fuggire da Kocho con la famiglia per andare alla montagna, eppure Massoud non aveva mai detto una parola su di lui o su Saoud o chiunque altro. Aveva trascorso l’assedio guardando alla tivù i collegamenti dal monte Sinjar, come tutti noi, e di sera saliva sul tetto a dormire, però non mangiava, non parlava e, a differenza di Hezni e Khairy, che erano sempre stati più emotivi, non piangeva mai.
Poi vidi Elias camminare lentamente in fila indiana per salire sullo stesso furgone. L’uomo che ci aveva fatto da padre dopo la morte del nostro vero genitore era irrimediabilmente abbattuto. Guardai le donne intorno a me e fui sollevata notando che Kathrine non era alla finestra; non volevo che vedesse suo padre così. Non riuscii a distogliere lo sguardo. Ogni cosa intorno a me svanì: i pianti delle donne, i passi pesanti dei militanti, il sole intenso del pomeriggio, perfino l’afa sembrò dissolversi mentre guardavo i miei fratelli che venivano caricati sui furgoni, Massoud nell’angolo ed Elias in fondo. I portelli si chiusero e i camion si allontanarono dietro la scuola. Un attimo dopo sentimmo gli spari.
Mi allontanai dalla finestra mentre nella stanza esplodevano le grida. «Li hanno uccisi!» strillarono le donne mentre i militanti ci urlavano di tacere. Vidi mia madre seduta sul pavimento, immobile e zitta, e corsi da lei. Per tutta la vita, ogni volta che avevo avuto paura ero andata da mia madre per cercare conforto. «È tutto a posto, Nadia» mi diceva, accarezzandomi i capelli, se avevo avuto un incubo o ero turbata per un litigio con uno dei miei fratelli. «Si sistemerà tutto.» Le credevo sempre. Mia madre ne aveva passate di tutti i colori e non si era mai lamentata.
Adesso era seduta sul pavimento con la testa fra le mani. «Hanno ucciso i miei figli» singhiozzava.
«Basta gridare» ordinò un militante facendo su e giù per la stanza affollata. «Se sento un altro rumore vi uccideremo.» I singhiozzi si trasformarono in gemiti soffocati mentre le donne facevano del loro meglio per trattenere il pianto. Pregai che mia madre non avesse visto, come me, caricare i suoi figli sul furgone.
L’amico arabo di Naif chiamò dal suo villaggio. «Ho sentito degli spari» disse. Stava piangendo. Un attimo dopo, in lontananza, vide la sagoma di un uomo. «Qualcuno sta correndo verso il nostro villaggio» disse al fratello del nostro mukhtar. «È tuo cugino.»
Quando il cugino di Naif arrivò al villaggio, crollò a terra ansimando. «Hanno ucciso tutti» disse. «Ci hanno messi in fila e ci hanno costretti a scendere nei fossi dei campi. A quelli più giovani hanno fatto alzare le braccia per controllare se avessero i peli, e quelli che non li avevano li hanno riportati sui furgoni. Poi hanno sparato a tutti gli altri.» Quasi tutti gli uomini erano rimasti uccisi sul colpo, i corpi erano ricaduti gli uni sugli altri come alberi raggiunti dal fulmine nello stesso istante.
Centinaia di uomini furono portati dietro la scuola quel giorno e solo pochi di loro sopravvissero al plotone di esecuzione. Mio fratello Said era stato colpito a un braccio e a una gamba, e una volta a terra aveva chiuso gli occhi tentando di rallentare i battiti del cuore e calmare il respiro. Un corpo gli era caduto sopra. Era un uomo grande e grosso, ancora più pesante adesso che era morto, e Said si era morso la lingua per non gemere sotto quel peso schiacciante. Almeno il suo corpo mi nasconderà dai militanti, si era detto, e aveva chiuso gli occhi. Nel fosso c’era puzza di sangue. Accanto a lui, un altro uomo non ancora morto aveva cominciato a gemere e a piangere per il dolore, implorando aiuto. Said aveva sentito i passi dei militanti tornare verso di lui. Uno di loro aveva detto: «Quel cane è ancora vivo» prima di far partire un’altra fragorosa raffica di colpi con la mitragliatrice.
Un proiettile aveva colpito Said al collo, e lui aveva dovuto far ricorso a tutte le sue forze per non gridare. Solo quando sembrava che i militanti si fossero allontanati lungo la colonna di centinaia di uomini, Said aveva osato portarsi una mano al collo per tentare di fermare l’emorragia. Accanto a lui, anche un insegnante di nome Ali era ferito ma vivo. Aveva sussurrato a Said: «C’è la capanna di un contadino poco lontano da qui. Credo che siano abbastanza lontani per arrivarci senza che ci vedano». Mio fratello aveva annuito, la faccia contratta dal dolore.
Qualche minuto dopo, Said e Ali si erano tolti di dosso i corpi dei vicini ed erano strisciati lentamente fuori dal fossato, guardando in entrambe le direzioni per assicurarsi che non ci fossero militanti nei paraggi. Poi avevano raggiunto la capanna il più in fretta possibile. Mio fratello era stato colpito sei volte, soprattutto alle gambe; per sua fortuna, nessun proiettile aveva raggiunto le ossa o gli organi interni. Ali era ferito alla schiena, e pur essendo in grado di camminare delirava per la paura e la perdita di sangue. «Ho lasciato là gli occhiali» continuava a ripetere a Said. «Senza non ci vedo. Dobbiamo tornare a prenderli.»
«No, Ali, amico mio, non possiamo» aveva risposto Said. «Se lo facciamo ci uccideranno.»
«Va bene» aveva risposto Ali con un sospiro, e si era addossato al muro della capanna. Poi, un attimo dopo, si era rivolto di nuovo a Said in tono supplichevole: «Amico mio, non ci vedo». E nell’attesa erano andati avanti così, con Ali che implorava di tornare a prendere gli occhiali e Said che con gentilezza rispondeva che non potevano.
Mio fratello aveva raccolto il terriccio dal pavimento della capanna e lo aveva premuto sulle ferite di entrambi per cercare di arrestare l’emorragia. Temeva che sarebbero morti dissanguati. Stordito e ancora tremante per la paura, aveva teso l’orecchio in cerca di rumori dalla scuola e dal campo dietro di loro, chiedendosi cosa stesse succedendo alle donne e se l’ISIS avesse cominciato a seppellire i corpi degli uomini. A un certo punto avevano sentito un rumore come di un bulldozer accanto alla capanna, e avevano pensato che lo stessero usando per riempire di terra il fosso.
Khaled, il mio fratellastro, era stato portato dalla parte opposta del villaggio, e anche lì gli uomini erano stati messi in fila e fucilati. Come Said, era sopravvissuto fingendosi morto per poi mettersi in salvo scappando. Un braccio penzolava inerte lungo il fianco, il gomito frantumato da un proiettile, ma almeno le gambe funzionavano e si era allontanato il più velocemente possibile. Vedendolo andare via, un uomo che giaceva poco distante gli aveva chiesto aiuto piagnucolando. «La mia macchina è parcheggiata al villaggio» aveva detto. «Mi hanno colpito e non riesco a muovermi. Ti prego, prendi la mia macchina e torna a recuperarmi. Possiamo andare alla montagna. Ti prego.»
Khaled si era fermato a guardarlo. Aveva le gambe devastate dai proiettili. Non era possibile spostarlo senza attirare l’attenzione su entrambi, e sarebbe morto se non fosse andato in ospedale. Khaled avrebbe voluto dirgli che sarebbe tornato, ma non se l’era sentita di mentire. Così era rimasto a fissarlo per un attimo. «Mi dispiace» aveva detto, poi era scappato via.
I militanti dell’ISIS avevano sparato contro di lui dal tetto della scuola di Kocho, e Khaled aveva visto un furgone dello Stato Islamico inseguire tre uomini del nostro villaggio che si erano allontanati dal fosso in direzione della montagna. Quando i militanti sopra il furgone avevano cominciato a sparare, si era lanciato fra due delle balle di fieno rotonde sparpagliate per i campi ed era rimasto lì fino al tramonto, tremando e quasi svenendo per il dolore, e per tutto il tempo aveva pregato che non si alzasse un vento forte, nel timore che facesse rotolare via le balle lasciandolo esposto. Poi, scesa la sera, si era incamminato tra i campi alla volta del monte Sinjar.
Said e Ali erano rimasti nel capanno fino al calare del sole. Durante l’attesa, Said aveva tenuto d’occhio la scuola da una finestrella. «Riesci a vedere cosa sta succedendo alle donne e ai bambini?» aveva chiesto Ali, seduto in un angolo. «Non ancora» aveva risposto mio fratello. «Per ora non sta succedendo niente.»
«Se avessero voluto uccidere anche loro, a quest’ora non lo avrebbero già fatto?» si era domandato Ali. Said era rimasto in silenzio. Non aveva idea del destino che ci attendeva.
Quando era quasi buio i furgoni erano tornati al villaggio e si erano fermati all’ingresso della scuola. Donne e bambini erano usciti dall’edificio e i militanti li avevano condotti sui furgoni. Said aveva allungato il collo per tentare di scorgerci nella folla. Riconoscendo il velo di Dimal che si muoveva nella fila verso uno dei furgoni, era scoppiato a piangere. «Che succede?» aveva chiesto Ali, ma Sai...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione
  4. L’ultima ragazza
  5. PARTE PRIMA
  6. PARTE SECONDA
  7. PARTE TERZA
  8. Epilogo
  9. Inserto fotografico
  10. Copyright