Interista social club
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Interista social club

Viaggio al termine delle nostre notti insonni nell'anno dello scudetto

  1. 156 pagine
  2. Italian
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Viaggio al termine delle nostre notti insonni nell'anno dello scudetto

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Il tifo calcistico è qualcosa di più di una storia d'amore o di una fede religiosa, è una condizione dell'essere. Si è di una squadra fin da bambini e la si ama seguendo dinamiche personalissime, fatte di consuetudini e liturgie ben precise, che rispondono a una grammatica che il non tifoso non può che ignorare.

Tommaso Labate prende le mosse dalla recente vittoria dello scudetto del 2021 da parte della sua Inter per accompagnare il lettore alla scoperta di questa grammatica, attraverso un vero e proprio viaggio nell' interismo. Una riflessione in cui sport e costume, analisi e narrazione si intrecciano fino a toccare la società, la cultura e la politica del Paese nel suo complesso. Un viaggio al termine di notti insonni in cui, sullo sfondo dei ricordi, si stagliano avvenimenti felici, come la conquista dello scudetto del 2008, o delusioni laceranti, come il titolo perso all'ultima giornata il 5 maggio 2002, fatidica data dalla quale Labate trae spunto per imbastire uno dei capisaldi della sua personale analisi dell'indole interista.

Se è vero, infatti, che c'è una piccola percentuale di pessimismo dentro ognuno di noi, nel tifoso di calcio - e in particolar modo in quello dell'Inter - questa percentuale è più alta. Si tratta di una sorta di «ottavo vizio capitale» che fin dalla nascita lo accompagna, latente e silenzioso ma sempre presente, nell'altalena di emozioni in cui la passione per il calcio e le questioni della vita si intrecciano, spesso sfumando i propri contorni fino a diventare una cosa sola. Una girandola di gioie e delusioni in cui si alternano «diverse gradazioni di paradiso» e veri e propri «gironi infernali».

Fra i vari personaggi che popolano queste pagine ce n'è uno che aleggia come un fantasma da esorcizzare, quel José Mourinho il cui nome, grazie alla conquista del Triplete, è destinato a restare impresso per sempre nella storia dell'Inter. Ed è stato proprio un ex juventino, Antonio Conte, a «liberare» gli interisti da un'eredità tanto pesante in una sera di ottobre del 2019, quando i nerazzurri, pur giocando un calcio spettacolare, persero con il Barcellona in una partita della fase a gironi della Champions League. Fu una sconfitta ingiusta, che lasciò un segno indelebile nel cuore dei tifosi, ma segnò l'inizio di un nuovo percorso. Perché il calcio è come la vita. E la sconfitta, più della vittoria, in alcuni casi è la chiave dell'eternità.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
ISBN
9788835713364
PARTE TERZA

L’OTTIMISMO

V

Il centrosinistra di noi stessi

La formula centrosinistra compare nel 1852 dopo un accordo «di palazzo» tra Cavour e Urbano Rattazzi.
Centoquarantaquattro anni dopo, il centrosinistra ha vinto le elezioni politiche italiane.
Un’altra volta che doveva stravincerle, poi, le ha solo vinte.
Un’altra ancora che doveva vincerle e basta, poi, le ha «non vinte».
Altre volte le ha perse.
Il calcio è come il centrosinistra.
A volte chi deve stravincere, alla fine, perde.

La misura del tempo

«Fede» è una parola troppo piccola.
Per quanto la religione rappresenti ancora oggi, per una significativa fetta della popolazione mondiale, una cosa decisamente più importante di un campionato di calcio, ecco, «fede» rimane una parola troppo piccola per catalogare la connessione sentimentale che lega un essere umano alle vicende della sua squadra.
Ancor più della fede religiosa, su cui può capitare di scivolare nel divenire, il tifo calcistico fissa la dimensione dell’essere. Un tifoso di calcio è e basta. Se dovessimo esercitarci nel censimento di personaggi celebri che hanno cambiato la loro fede religiosa e finito per abbracciare un altro credo, anche il più disattento metterebbe in fila su un foglio bianco, nel solo volgere di qualche secondo, una serie di nomi: il calciatore Roberto Baggio è diventato buddista, il pugile Cassius Clay e il cantante Cat Stevens musulmani (entrambi con cambio di nome), l’ex primo ministro britannico Tony Blair cattolico. Se invece su quel foglio bianco dovessimo scrivere il nome di qualche piccola o grande celebrità che ha cambiato la propria squadra del cuore, difficilmente andremmo oltre il caso – famoso molto meno dei tre di cui sopra – del giornalista italiano Emilio Fede, che nel suo abbraccio al berlusconismo aziendale e poi politico aveva finito per comprendere anche la modifica del suo status calcistico-emotivo, da juventino a milanista (Fede, lettera «F» maiuscola, è quindi una delle prove viventi che fede, «f» minuscola, è una parola troppo piccola per tutto questo).
Per chi sa ascoltare le sue lancette, per chi è in grado di vedere dietro un pallone che rotola i granelli di sabbia che scendono nella clessidra, il calcio è la misura del tempo. Una formidabile misura del tempo. Se pensate che formule come «avanti Cristo» e «dopo Cristo», da sole, mettono insieme un numero infinito di anni – «dopo Cristo», finora, infila sotto lo stesso arco temporale la bellezza di duemilaventuno anni, «avanti Cristo» è un’unità di misura ancor meno precisa –, il ricordo di una partita di calcio è come quegli esplosivi illegali lanciati in fondo al mare dai pescatori di frodo, pratica orrenda e vietata. Il meccanismo è lo stesso: lanci un ricordo nel mare della tua storia personale e quello fa risalire tutto ciò che gli sta attorno.
Due dei dischi che hanno segnato la storia degli anni Novanta, Lorenzo 1992 di Jovanotti e Jagged Little Pill di Alanis Morissette, riaffiorano dalla mia memoria riportati a galla dal pensiero di due domeniche bestiali. Il primo, acquistato all’uscita nei primi giorni dell’aprile del 1992, con perle come Non m’annoio e Ragazzo fortunato, si alternò nel mio impianto hi-fi all’ascolto della radiocronaca di un Ascoli-Inter terminato 1-2 in rimonta, col centravanti tedesco Jürgen Klinsmann nei panni di un ragazzo fortunatissimo, soprattutto nel secondo gol che segna grazie a una palla respinta dal portiere dell’Ascoli che gli finisce addosso e poi termina in rete, senza che il bencapitato abbia la possibilità di rendersene conto.
Il disco della Morissette, prima di allora ventunenne canadese conosciuta solo nel Nord America, piomba nella memoria collettiva dei ragazzi italiani degli anni Novanta alla fine dell’estate del 1995. Quando presenta Jagged Little Pill a Milano, qualcuno le chiede se la sua fosse una specie di risposta singolare, femminile e rock all’imperante, collettivo e maschile pop dei Take That. «I Take chi? Mi spiace, non li conosco» rispose.
La vita è una specie di matrioska e la bambolona di Jagged Little Pill, vale anche per il disco di Jovanotti Lorenzo 1992, di bambole più piccole ne contiene parecchie. Per tutti coloro che hanno concentrato negli anni Novanta preadolescenza e adolescenza, per chi ha aperto il decennio pedalando sulla bicicletta e l’ha chiuso con la patente in tasca, questi dischi – aggiungiamoci anche l’inizio dell’epopea di Oasis e Blur e l’atterraggio del britpop sulla pista della nostra anima – sono sismografi che tracciano trasformazioni importanti e passaggi decisivi. La vita che scorre, insomma, il nostro crescere visto dai nostri stessi occhi e senza specchi: le Big Babol panna e fragola che lasciano il posto al pacchetto di Diana Blu dure da dieci, col pacchetto da dieci che diventa uno da venti; l’Oransoda della festa delle medie che poi si trasforma in una birra in lattina; la bicicletta col cambio Shimano che cede il passo allo scooter; quella cosa che chiamavamo cotta che da un certo punto in poi, non si capisce nemmeno bene quando, a furia di sentirti dire «è solo una cotta, domani passa», scivola lentamente in quello che il mondo chiama amore.
Ma, se la musica è la bambola grande di una matrioska che una volta aperta mostra queste piccole bamboline, nel nostro periodico esercizio del ricordarci chi e soprattutto come eravamo, è una partita di calcio che nel cuore di un tifoso interviene a innescare il ricordo di una canzone o di un disco come la moneta da cento lire in un juke-box. Dal punto di osservazione di chi scrive, tutte le volte che Luís Nazário da Lima detto Ronaldo mi capita davanti agli occhi – che si tratti del suo profilo su Instagram o di qualche speciale sulla pay-tv che ripercorre le tappe della sua carriera incredibile e pure sfortunata – è come se una specie di lettore per compact disc nascosto nel mio cervello iniziasse a suonare due canzoni, due sole. La prima è Per una lira di Lucio Battisti, che l’edizione delle 20 del Tg1 del giorno in cui Massimo Moratti riuscì a strapparlo al Barcellona scelse come tappeto musicale per il servizio dedicato alla notizia, inopinatamente confinata alla fine del telegiornale come succede alle notizie sportive (io ci avrei aperto il notiziario, forse addirittura avrei previsto anche un’edizione straordinaria). La seconda è un pezzo scelto a caso da quell’incredibile condensato di capolavori che era (e rimane, visto che il disco non muore mai) Hurban Hymns dei Verve, piombato sulla Terra nel settembre del 1997, proprio nei giorni in cui Ronaldo giocava le sue prime partite nell’Inter. Sono talmente tante le volte in cui nella mia testa, se ripenso al primo anno di università e al mio trasferimento da un paesino di seimila abitanti a una città di tre milioni, ripasso in sequenza le canzoni di quel disco dei Verve e i primi gol di Ronaldo con la maglia dell’Inter – succedeva tutto nelle stesse settimane: la mia vita che cambiava, il disco dei Verve che usciva, Ronaldo che iniziava a giocare in nerazzurro – che spesso, come caduto d’improvviso in un’inaspettata trance, ho pensato per qualche secondo che io, Ronaldo e Richard Ashcroft dei Verve fossimo la stessa persona.
Che per un tifoso il calcio sia la misura del tempo, e la bambola di una matrioska persino più capiente della musica e quindi più adatta a contenere i ricordi, lo dimostrano anche i frammenti dell’infanzia. Non ho mai capito se l’infanzia sia davvero, come fior di psicoterapeuti sostengono, il periodo della vita in cui le cose brutte entrate in noi faticano ad andarsene, e forse non se ne vanno mai. So, e questa certezza è figlia dell’esperienza personale, che un inganno consumato ai tuoi danni nel periodo dell’infanzia, soprattutto se a commettere quel delitto sono stati i tuoi stessi genitori, genera disfunzioni nell’apparato cognitivo che poi faticano non poco a risolversi.
Il meccanismo dei tempi supplementari di una partita di calcio delle coppe europee, che immagino comprensibile per un essere umano di media intelligenza dai sei anni in su, io l’ho capito più tardi, e male, a causa di una bugia che mi è stata rifilata dai miei genitori; un delitto molto serio che avrebbe meritato pene pesanti, aggravato da quel movente che il codice penale riassume nella formula «futili motivi».
La sera del 16 aprile 1986 – la precisione con cui indico la data è figlia del lavoro di ricostruzione fatto ex post ma i ricordi che seguono sono quelli impressi nella memoria di un bambino di sei anni e mezzo – sul Secondo canale della Rai, come ancora all’epoca qualcuno chiamava la rete che già da tre anni aveva preso il nome di Raidue, trasmettono la semifinale di ritorno di Coppa Uefa che vede l’Inter opposta al Real Madrid.
È il mio primo ricordo calcistico; non ho memoria del mio primo momento da tifoso dell’Inter, che visto il mio interesse per la partita era senz’altro precedente, ma ricordo quella serata come la prima notte da tifoso, impegnato davanti alla tv come se al mondo non esistesse altro che quella cosa da fare: stare fermo a migliaia di chilometri dal luogo in cui si svolgevano determinati avvenimenti, in questo caso una partita di calcio che si giocava allo stadio Santiago Bernabéu; e agitarsi come se il proprio agitarsi potesse risultare non certo determinante, ma quantomeno incisivo per lo svolgersi degli eventi. Perché un tifoso fa questo: si dimena come la farfalla della teoria del caos, che batte le ali in Brasile generando un movimento d’aria che contribuirà a determinare un tornado in Texas.
Il tifoso in questione, e cioè io, all’epoca figlio unico, si impossessa dell’unico televisore a colori di casa – l’abitazione era dotata anche di un secondo apparecchio in bianco e nero, che chissà perché veniva chiamato, ogni volta che si parlava di televisori, «quello piccolo», come se le sue ridotte dimensioni fossero più qualificanti rispetto al fatto che non avesse i colori; avessi deciso io l’avrei chiamato «quello senza colori», ma tant’è –, dicevo, si impossessa del televisore grande in tempo per il fischio d’inizio della partita. Le due persone che rimiravo in figurina, Altobelli e Karl-Heinz Rummenigge, le rivedo in tre dimensioni. So già che la partita di andata è finita 3-1 per noi, anche se non rintraccio alcuna scheggia nella mia memoria; e che quindi, spiegazione di mio papà, va benissimo se vinciamo con qualsiasi punteggio, pareggiamo con qualsiasi punteggio o perdiamo con un punteggio inferiore a 3-1.
La scarsa attitudine a fare la domanda giusta propria degli esseri umani in età acerba – a dispetto del falso mito secondo cui gli infanti tirano perennemente fuori dalla bocca la domanda o l’osservazione da Pulitzer in grado di tramortire le famiglie, scoprire gli altarini, scovare eventuali amanti che minacciano il nucleo familiare e altre sciocchezze, tutto falso – mi impedisce di chiedere ciò che oggi, da consumato giornalista (sic!), chiederei dopo cinque decimi di secondo. E cioè: «Papà, che cosa succede invece se la partita di ritorno finisce con lo stesso risultato dell’andata a parti invertite, e cioè 3-1?». Fare quella domanda all’inizio della partita sarebbe stata la mia assicurazione antimenzogna; e farla a bruciapelo mi avrebbe messo al riparo dalla bugia che sarebbe arrivata dopo. Avrei colto l’attimo giusto, come quei bambini della leggenda ai quali basta mezza domanda per aprire lo scrigno dei segreti inconfessabili, e mio papà, sorpreso dalla prontezza del figlio, avrebbe sputato fuori la verità, senza fare calcoli: si giocano i tempi supplementari, che sono due; e nel caso in cui non succeda niente in quella mezz’ora divisa in due blocchi da quindici minuti, poi, ciascuna squadra tirerebbe i calci di rigore (lì non sarebbe servito il bambino mago della leggenda dei bambini prodigio, anche il meno sveglio si sarebbe mosso con la velocità della tigre: «e quanti sono i calci di rigore?», «chi li tira per primo?», «ah, quindi prima uno e poi l’altro? Ho capito…»).
Invece nulla. Arso dal fuoco sacro del tifoso infante, sottratto il televisore grande al resto di un nucleo familiare composto da altre due persone decisamente più cinefile che calciofile, mia mamma e mio papà, mi sottopongo al fischio d’inizio di Real Madrid-Inter e metto la mia sofferenza di seienne a disposizione della mia squadra, che difende il 3-1 dell’andata.
Alla fine del primo tempo segna il Real Madrid: 1-0.
Al diciottesimo del secondo tempo segna di nuovo il Real Madrid: 2-0.
Tre minuti dopo segna l’Inter: 2-1.
E poco dopo, quando manca un quarto d’ora alla fine della partita, segna di nuovo il Real Madrid: 3-1.
(A questo punto l’annotazione, che viene dal presente, e cioè dalla ricostruzione di questa partita fatta con documenti alla mano, visto che la memoria di bambino non ha fissato i nomi dei marcatori nella testa. Sequenza dei gol finora, al minuto 90: Hugo Sánchez su rigore e Gordillo per il Real Madrid; Brady su rigore per l’Inter; di nuovo Sánchez e di nuovo su rigore per il Real Madrid.)
È lo stesso risultato dell’andata.
Prima che inizino i tempi supplementari, una specie di purgatorio dantesco di cui fino ad allora ignoravo l’esistenza e di cui – vedrete tra poco – avrei assimilato regole completamente sballate, immagino che i miei genitori si siano sentiti come in preda a un gigantesco «che fare?».
Il futile motivo che innesca la loro bugia è l’antica regola, che negli anni a venire avrebbe tenuto a fatica il suo posto fra i pilastri dell’educazione familiare, secondo cui i bambini devono andare a letto, se non presto, il più presto possibile. E che quindi due tempi supplementari di quindici minuti ciascuno, con la possibilità che un intervenuto immobilismo nel tabellino dei gol trascini la partita fino ai calci di rigore, mi avrebbero condotto tra le lenzuola decisamente oltre l’orario allora consentito.
Il primo tempo supplementare lo vedo. E vedo la bestia nera delle recenti apparizioni dell’Inter contro il Real Madrid – che fosse la bestia nera l’avrei scoperto dopo, ricordo che quella è la prima partita di calcio che la mia mente è in grado di afferrare – scrivere anche su quella notte la sua inappellabile sentenza di Cassazione. Si chiama Carlos Alonso González, in quella sera di aprile del 1986 ha trentatré anni e di mestiere fa l’attaccante. Lo chiamano tutti «Santillana», quindi sono praticamente certo di essere rimasto convinto per qualche anno, dopo quella sera, che quello fosse il suo vero cognome.
Santillana fa gol pochi minuti dopo l’inizio dei supplementari. Siamo 4-1. E quando l’arbitro fischia la fine del primo dei due tempi da quindici minuti mia mamma ingombra con la sua figura l’angusto spazio che separa il mio raggio visivo dallo schermo del televisore. «La partita è finita» dice approfittando del fatto che i calciatori avevano smesso di giocare. Così, prima che le squadre potessero cambiare campo e ricominciare a giocare, ero già tra le sue braccia diretto verso il letto.
«Sì» devo aver detto io, «ma com’è finita?»
Ai bambini si raccontano frottole a lieto fine. Almeno una volta, prima che telefonini e tablet mostrassero anche a loro la crudezza del mondo a portata di mano, si usava così. I miei genitori sorvolarono sull’esistenza di un secondo tempo supplementare, in caso contrario avrei scatenato una guerra pur di vederlo, ritardando quindi il sonno. E bofonchiarono in coppia uno schema che, a ripensarci adesso, suonava così: nelle coppe europee esistono i tempi suppl...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Interista Social Club
  4. Ieri
  5. Parte prima. L’AMORE
  6. Parte seconda. IL PESSIMISMO
  7. Parte terza. L’OTTIMISMO
  8. Ringraziamenti
  9. Copyright