C’era una volta il vecchietto da settore popolare, che se la squadra perdeva lanciava il cuscinetto in campo. O, più spesso, sulla testa di chi gli sedeva davanti. Era lui, in maniche corte d’estate e con il cappotto in inverno, il tifoso tipo. Quello che guardava la partita dal vivo, ma intanto ascoltava alla radio i risultati degli altri campi. Negli ultimi vent’anni, dalla comparsa delle parabole su tetti e balconi, il mondo del calcio si è un po’ dimenticato di lui. L’industria del pallone oggi vive grazie alla vendita dei diritti televisivi, ed è soprattutto al supporter da divano che si rivolge il marketing di club, tornei e campionati. Al centro non c’è più l’eroe da gradinata, insensibile alle temperature e all’acre odore dei fumogeni, ma il telespettatore che, bello comodo, decide tramite il telecomando, paga con carta di credito e magari le partite le guarda con un secondo schermo a disposizione. Spesso quello dello smartphone, grazie a cui oltre che spettatore è anche follower: del club su Twitter, del giocatore su Instagram, della fidanzata del giocatore su TikTok.
Uno studio di StageUp e Ipsos intitolato La Serie A nel XXI Secolo stima che i supporter vecchia maniera di squadre di Serie A, che al proprio club vogliono bene davvero, in Italia siano in tutto 24 milioni: con Juventus (circa 8 milioni), Milan (4 milioni) e Inter (circa 3,9 milioni) sul podio, a rappresentare più di metà del totale degli appassionati. Secondo il portale britannico Zeelo, che conta invece anche i simpatizzanti da web, il club più tifato al mondo sarebbe il Manchester United con 650 milioni di supporter. Seguono il Barcellona, con 450, il Real Madrid, a quota 350 e il Chelsea, con 145. L’Arsenal ne ha 125, il City 110 e il Liverpool 100. All’ottavo posto, la prima italiana: il Milan con 95 milioni di tifosi nel mondo, seguita dall’Inter con 55. Solo tredicesima la Juventus con 27 milioni. Nelle assemblee dei soci dei grandi club, spesso si forniscono dati addirittura più gonfi. Presentando il rendiconto della stagione 2018-2019, in una cerimonia all’hotel Palazzo Parigi di Milano, la proprietà dell’Inter ha sostenuto che il club avrebbe nel mondo 385 milioni di tifosi. C’è da chiedersi cosa si intenda per tifoso. Chi nel corso di un anno ha messo almeno un like a una pagina social del club? Chi ha visto una partita in TV? Sono questi sostenitori a bassa intensità, connessi e distanti, che le società calcistiche studiano per progettare la propria espansione commerciale.
Eppure, diciotto mesi di impianti chiusi causa Covid hanno dimostrato che il supporter da tastiera, da divano o da touchscreen non basta. In un’industria che fatica a stare a galla appesantita dai debiti e che brucia liquidità, senza gente sugli spalti il sistema rischia il collasso. Senza i soldi veri pagati dal vecchietto del secondo anello, il motore del calcio si inceppa. «Gli incassi da stadio garantiscono un flusso di entrate regolare e prezioso, di cui i club non possono fare a meno» osserva Beppe Marotta, amministratore delegato dell’Inter. Stando ai dati della FIGC, solo con questi ricavi i club sono in grado di sostenere il 25 per cento del monte ingaggi stagionale. Ogni squadra con quel che incassa da biglietti e abbonamenti paga quindi circa 3 mensilità di stipendio ai propri giocatori. Non poco. E col senno di poi ha fatto benissimo l’Inter, ben prima dello scoppio della pandemia, a sottoscrivere polizze assicurative per il caso in cui non fosse stato possibile avere i tifosi al Meazza. Grazie a una copertura intermediata da Willis Towers Watson, multinazionale britannico-statunitense che si occupa di gestione del rischio, il club nerazzurro ha ricevuto un rimborso di 10 milioni di euro nel corso della stagione 2019-2020, a fronte di una perdita per 13 milioni dovuta alla chiusura di San Siro al pubblico.
Il governo prima della partenza del campionato 2021-2022 ha stabilito la soglia massima di affluenza iniziale al 50 per cento della capienza, con Green Pass e mascherina, poi aumentata col passare dei mesi. La sottosegretaria allo Sport Valentina Vezzali chiedeva da subito più coraggio – tre quarti dei posti occupati – ma per mesi non è stata ascoltata dai suoi colleghi nell’esecutivo. Una prudenza che il presidente della Lega Serie A, Paolo Dal Pino, ha criticato duramente: «Paragonandoci alle altre nazioni europee, l’Italia è stata senza dubbio quella che ha subito le maggiori limitazioni all’ingresso negli stadi da parte del proprio governo. La decisione di cominciare il campionato con la capienza dimezzata, nonostante il progressivo aumento dei vaccinati, ha inciso fortemente sui ricavi delle società». Perché i numeri – quelli veri, scolpiti nei bilanci – dicono che senza tifo allo stadio il calcio muore.
I dati ufficiali della Lega Serie A, che riunisce i 20 club del massimo campionato italiano, certificano che nella stagione 2019-2020 la chiusura da marzo in poi degli stadi causa Covid ha portato danni diretti (botteghino e abbonamenti da rimborsare) per 108,2 milioni di euro. Nel 2020-2021 le mancate entrate hanno pesato sulle casse dei club per 317,9 milioni. Nel biennio, quindi, la serrata è costata alla Serie A 426,1 milioni a cui si aggiungono il calo dei ricavi commerciali e gli sconti chiesti da sponsor e televisioni, sostenendo che un calcio senza pubblico dal vivo abbia meno appeal anche su schermo. «Per il tifoso che guarda la partita da casa, vedere lo stadio pieno e sentire le voci del pubblico presente crea identificazione. Con spalti pieni e cori di sottofondo ci si immedesima con più facilità nella gara e nel suo clima. Da un punto di vista psicosociale, l’esperienza indiretta della visione dell’incontro in TV non è un perfetto sostituto rispetto alla presenza fisica, ma vedendo sullo schermo lo stadio pieno ho l’impressione di avere acquistato un prodotto di maggior valore. Percepisco di aver pagato poco qualcosa per cui chi è lì presente ha invece pagato molto, e ne sono soddisfatto» dice Claudio Sottoriva, professore di Economia aziendale all’Università Cattolica di Milano, esperto di sport e finanza dei club calcistici.
Secondo le proiezioni della Lega Serie A, ogni giornata del campionato in corso con il pieno accesso consentito potrebbe portare nelle casse dei club 9 milioni di euro, per un incasso potenziale di 342 milioni sui 38 turni. Tagliando il dato con l’accetta, nel periodo di capienza dimezzata le società hanno dovuto accontentarsi di metà di quella cifra. Ma non tutti i club attraggono lo stesso numero di tifosi. E di conseguenza, la previsione di aprire gli impianti solo in parte non ha colpito allo stesso modo le varie società. Un’apertura al cinquanta per cento ha lasciato fuori da San Siro in media a ogni partita oltre 22.000 tifosi dell’Inter e 15.000 del Milan. E sono 18.000 i sostenitori della Juve rimasti senza possibilità di vedere le gare. Per Roma e Lazio la riduzione, conti alla mano, è stata meno dolorosa: dimezzando i seggiolini disponibili sono in media appena 3000 i romanisti restati senza un posto e nemmeno 2000 i laziali.
Il calcolo è semplice: basta prendere la media di spettatori presenti nelle gare casalinghe della stagione 2018-2019, l’ultima con gli stadi aperti al cento per cento, e sottrarre la metà della capienza degli impianti. Nel caso dei nerazzurri di Milano, la squadra che attrae più tifosi in Italia, a fronte di un’affluenza media stagionale di 61.419 tifosi, i posti inizialmente disponibili per la stagione in corso sono stati 39.138, la metà dei 78.275 seggiolini del Meazza. Per contro ci sono squadre che storicamente faticano a riempire il proprio stadio anche solo per metà, se non nelle gare di cartello. È il caso dell’Hellas Verona, che due stagioni fa in Serie B aveva una media di 10.574 tifosi su 31.045 posti. O del Napoli che, nonostante risultati sportivi brillanti, riempiva meno di tre quinti dell’ex San Paolo, oggi stadio Diego Armando Maradona: 29.003 posti occupati in media su 54.726 disponibili. Una situazione che dipendeva dalle pessime condizioni dello stadio, almeno fino alla ristrutturazione per le Universiadi del 2019, e dai rapporti tesi fra tifoseria organizzata e società. Sono simili i dati di affluenza di Genoa e Sampdoria al Ferraris, e quelli del Bologna al Dall’Ara.
Valerio Corradi, docente di Sociologia del territorio alla Cattolica di Milano e appassionatissimo di calcio, spiega: «Sull’affezione dei tifosi alla squadra e sulla loro presenza sugli spalti influiscono tanti elementi. Ci sono contesti locali in cui andare allo stadio ha un valore aggregativo di per sé, indipendentemente dai risultati sportivi, dalle condizioni meteorologiche e da ogni altra variabile. Succede ad esempio a Bergamo, dove i tifosi escono di casa dicendo andiamo all’Atalanta. E non c’è stato nulla di più bello per i bergamaschi di poter tornare allo stadio per festeggiare la fine del lungo lockdown. In altri contesti, dove la squadra di casa non è poi così forte, il ritorno sugli spalti dopo la pandemia potrebbe invece realizzare in negativo il cosiddetto “effetto san Matteo”, caro ai sociologi dell’Economia: chi versa in situazioni grame – e dopo un anno e mezzo di pandemia è la condizione di molti – non ha voglia di seguire una squadra che va male. Alla propria sciagura si sente aggiungere quella altrui. Il Palermo ha uno stadio enorme ma deserto, militando in Serie C. Evidentemente i palermitani si evitano lo spettacolo di una formazione che non gioca come dovrebbe. Lo posso constatare io stesso da tifoso juventino: vedere la mia squadra che nelle prime giornate del campionato giocava male, dopo un anno e mezzo di pandemia, è stato un duro colpo. Ma per fortuna il calcio, a suo modo, è anche terapeutico e basta una vittoria insperata per riaccendere il desiderio di seguire la propria squadra del cuore».
Lo stadio pieno non porta solo soldi in cassa. Cambia le sorti delle partite. Secondo lo studio The Sound of Silence realizzato dall’Università di Trieste, infatti, in condizioni normali le squadre ottengono mediamente circa il 60 per cento dei punti totali in casa e solo il 40 per cento in trasferta: tale differenza di 20 punti viene dimezzata quando si gioca a porte chiuse, con percentuali rispettivamente pari al 55 e al 45 per cento. E un impatto importante il tifo lo ha anche sulle decisioni arbitrali visto che, sempre secondo la ricerca, quando il pubblico è presente le squadre in trasferta vengono sanzionate maggiormente in termini di falli fischiati, cartellini gialli e rossi, e rigori a sfavore, mentre nelle partite giocate in assenza di spettatori questa distorsione decisionale non si manifesta.
Tornando ai soldi, notiamo che in Italia i ricavi da stadio aiutano i bilanci delle società calcistiche meno che in altri campionati. Lo certifica Deloitte nella sua Annual Review of Football Finance, pubblicata nel luglio 2021. La chiusura causa Covid ha dato un duro colpo alle finanze dei club italiani, certo, ma meno che in altri campionati in cui le entrate legate allo sfruttamento degli impianti sono maggiori grazie a strutture di proprietà, con ristoranti, negozi e spazi per eventi legati alla partita. «Data la storica mancanza di investimenti negli stadi italiani, e quindi ricavi da matchday relativamente bassi, in termini assoluti la diminuzione degli introiti da stadio è stata quasi la metà di quella registrata da Premier League e La Liga, e un terzo del calo rispetto alla Bundesliga» rileva Deloitte in una nota a commento del report.
Nella classifica europea degli incassi da stadio, dominata nell’ordine da Barcellona e Real Madrid, la prima squadra italiana è la Juventus, al decimo posto. Secondo i dati di Deloitte, elaborati da «Calcio e Finanza», nella stagione sportiva 2018-2019 l’Allianz Stadium, pur con una capienza di appena 41.507 posti, ha fruttato al club bianconero 66 milioni. Molti meno dei 159 incassati dai blaugrana di Catalogna, ma tanti di più rispetto ai 51 dell’Inter (15esima nel ranking europeo per ricavi da stadio) e ai 34 del Milan (17esimo), che hanno uno stadio più grande ma di proprietà comunale. L’impianto juventino è del club ed è più moderno.
Nell’impossibilità di conoscere l’andamento della pandemia, e nel timore di dover presto richiudere, all’inizio della stagione in corso nessun club di Serie A ha messo in vendita abbonamenti annuali. Il Cagliari ha voluto premiare da subito i propri tifosi con una tesserina da cinque ingressi, per le prime gare casalinghe. La Roma, seguita da altre società, ha previsto abbonamenti solo a partire dall’autunno inoltrato. Per il resto, hanno venduto biglietti singoli. La scelta, già tentata da alcuni, fra cui il Napoli prima del Covid, è anche un tentativo di aumentare gli incassi: aspettandosi un ritorno agli stadi dopo una stagione e mezzo di serrata, i club puntano a massimizzare il profitto su ciascun accesso. Per le società italiane ogni euro è prezioso. Lo è però anche per i tifosi, piegati dalla pandemia come tutti. Si tratta quindi di venirsi incontro. Un caso che dimostra il potere che lo spettatore dal vivo può recuperare nel tempo dello streaming e delle televisioni digitali è quello del Milan in Champions League. Lo scorso settembre il club rossonero, tornato a giocare nell’Europa che conta dopo sette anni, ha dovuto rivedere al ribasso il prezzo dei biglietti per le gare in casa dopo la protesta dei tifosi. Una bella sforbiciata: le poltroncine al primo anello rosso vicine alla tribuna d’onore sono passate da 250 a 200 euro, i biglietti in curva sud al secondo anello da 119 a 54, il terzo anello laterale da 69 a 39. A comunicare il taglio è stato lo stesso amministratore delegato Ivan Gazidis con una lettera aperta, in cui spiegava che comunque non un euro versato per acquistare i tagliandi sarebbe andato perso: «Vogliamo rendere orgogliosi i nostri sostenitori, creando una squadra di successo in modo finanziariamente sostenibile. Tutti i ricavi vengono reinvestiti per raggiungere questo obiettivo prioritario. Questa rimane la nostra strada per il successo».
Le proteste per il caro biglietti nella stagione in corso non si sono limitate al Milan. Nel mirino dei tifosi sono finiti anche i biglietti per i settori ospiti di partite come Udinese-Juventus o Sassuolo-Inter, con il prezzo dei tagliandi fissato dai club di casa a 60 euro per le tifoserie avversarie. Aspettando una misura simile a quella adottata in Premier League, con tetto ai biglietti per il settore ospiti a 30 sterline, anche il governo italiano ha aperto gli occhi. A invocare una politica di prezzi più equa è stata in prima persona Valentina Vezzali. Potrebbe essere l’inizio di un percorso di valorizzazione del vero tifoso, fisicamente al seguito della squadra. Una tendenza già in atto in altri Paesi, a partire proprio dalla solita Inghilterra.
Le proteste seguite all’annuncio della nascita della Superlega in Premier League hanno portato a un maggior coinvolgimento dei tifosi nella gestione del club. Non immaginiamoci il direttore sportivo che alza la cornetta per chiedere ai fan se comprare un giocatore o un altro, ma diverse società hanno deciso di consentire alle tifoserie organizzate di conoscere in diretta quali direzioni stia prendendo il loro club. Tra le altre, Liverpool, Chelsea e Tottenham hanno aperto le porte delle riunioni dei propri consigli d’amministrazione alle organizzazioni dei tifosi. E anche le polemiche sui social media possono avere un peso: un caso è quello dell’accordo sfumato tra l’allenatore Gennaro Gattuso e il Tottenham, che sarebbe saltato in parte a causa della pesante campagna #NoToGattuso dei tifosi Spurs, per alcune frasi infelici del tecnico nel passato in particolare sulle donne nel calcio e sulle coppie gay, oltre alla lite in campo nel 2011 con la leggenda del club londinese Joe Jordan. In Italia un caso noto di coinvolgimento dei tifosi nella gestione del club è l’Associazione Piccoli Azionisti del Milan, che ha un rappresentante nel CDA rossonero: Massimo Ferrari, manager di Webuild. Chissà che non riesca a convincere Elliott, il fondo statunitense proprietario della società rossonera, a tornare ai prezzi dei bei tempi del primo Milan di Berlusconi.
Nel 1986-1987 per vedere in abbonamento le 15 gare in casa stagionali dei rossoneri di Baresi, Maldini, Costacurta e Tassotti si spendevano in tutto 650.000 lire in tribuna coperta, 300.000 in tribuna scoperta e 100.000 nei settori popolari. Al tempo la paga media di un operaio era di poco superiore a 600.000 lire nette al mese secondo la stima del portale Storiologia.it, che aggiorna anno per anno il livello delle retribuzioni e il costo al dettaglio di una ventina di beni di consumo. Nel 2019, ultimo anno in cui sono stati messi in vendita abbonamenti stagionali prima dell’arrivo della pandemia, la paga netta mensile di un operaio era di 1150 euro, sempre secondo l’elaborazione di Storiologia.it. Nell’agosto di quell’anno abbonarsi alle 19 gare casalinghe del Milan di Romagnoli, Kjaer e Calabria – il campionato di Serie A è nel frattempo passato da 16 a 20 squadre – costava 1150 euro per le poltroncine del settore arancio centrale del primo anello, 475 per il secondo anello rosso (sempre centrale), 255 in curva e 215 per il terzo anello, che 33 anni prima non esisteva. In pratica, nel 1986 un operaio spendeva poco meno di un sesto del proprio stipendio per un seggiolino nei popolari e nel 2019 per un posto grosso modo equivalente – la curva opposta a quella del tifo organizzato – pagava più di un quarto della propria paga. Un incremento notevole, confermato in misura diversa da città a città. I costi dello stadio sono però cresciuti percentualmente meno rispetto all’aumento complessivo dei fatturati dei club. Oggi i biglietti d’ingresso non sono certo la principale entrata delle società calcistiche che si reggono, o provano a reggersi, sui diritti TV. Ma il botteghino costituisce comunque un importante flusso di cassa, come ripeteva prima dell’inizio della stagione in corso il presidente della Lega Serie A, Paolo Dal Pino, chiedendo la totale riapertura degli impianti dopo la serrata causa Covid.
A sostegno della sua richiesta, Dal Pino ha fatto presente al governo che le società di calcio professionistiche non hanno ricevuto ristori, come invece successo in altri ambiti penalizzati dal Covid. «I club vivono una situazione di mancati introiti causati dalla pandemia senza precedenti. Eppure il nostro settore non ha ricevuto alcun ammortizzatore» sottolinea il presidente della Serie A. «Ricordiamoci che per ogni euro investito dal governo italiano nel calcio il sistema Paese ha ottenuto un ritorno in termini fiscali e previdenziali pari a 17,3 euro, con evidenti benefici sul PIL, tanto che fra tasse e contributi il calcio professionistico degli ultimi 13 anni ha versato 14 miliardi di euro. Se il calcio non produce lo Stato stesso risentirà di minori introiti.» Da tempo la Serie A chiede deroghe sulle scadenze fiscali. Finora invano. E mentre spera di intercettare aiuti pubblici, non riesce a far fruttare il patrimonio che già ha. A partire proprio dagli stadi: vecchi, spesso fatiscenti, non progettati per il calcio e di proprietà dei Comuni.