Una profezia per l'Italia
eBook - ePub

Una profezia per l'Italia

Ritorno al Sud

  1. 204 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Una profezia per l'Italia

Ritorno al Sud

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Da quanto tempo non si sente più parlare di «questione meridionale»? Del Sud con i suoi problemi antichi e nuovi, del suo eterno contenzioso con l'Italia unita? Ma da quanto tempo anche tutto il Paese non parla più del suo futuro? E non s'interroga su cosa vuole diventare, sui suoi interessi nel concerto europeo, sulla propria identità geopolitica?

È un duplice silenzio che dura almeno dalla fine del secolo scorso.

È il silenzio del declino italiano.

Questo libro si propone di romperlo riportando al centro della discussione entrambi i temi - il Sud e l'Italia - ma ripensati come due aspetti di una medesima e inedita prospettiva di rinascita che oggi, grazie a una felice e inaspettata congiuntura politico finanziaria, seguita alla crisi della pandemia, non appare impossibile.

Ritornare al Sud vuol dire indicare una nuova strada per l'unità del Paese, fondata sulla consapevolezza del suo carattere mediterraneo e su un ruolo nuovo del Mezzogiorno, finalmente chiamato a fare da sé, libero dai lamenti del vecchio meridionalismo e dalla corruzione degli aiuti di Stato così come dai guasti del regionalismo e del malgoverno.

Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone firmano un libro polemico e appassionato tra storia e politica, costruito attraverso l'esperienza e gli incontri di un viaggio, di una ricognizione sui luoghi di un'Italia oggi ai margini, ma nella quale forse è scritto il nostro comune destino.

«Oggi non si tratta più di trovare le vie per integrare il Meridione nel resto della Penisola. Si tratta di rifare per intero il Paese, cogliendo un'occasione irripetibile. È l'Italia nel suo insieme, il suo modo di essere Paese e Stato, che vanno ripensati. Per dare vita a questa nuova storia c'è più che mai bisogno del Mezzogiorno.»

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Una profezia per l'Italia di Ernesto Galli della Loggia, Aldo Schiavone in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a History e Italian History. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
ISBN
9788835714026
Argomento
History
III

Il Sud in silenzio. Napoli e non solo

I

«Il popolo italiano divien sempre maggior di sé stesso nei momenti straordinarii; ma non persiste poi sempre, quando ritorna nelle condizioni ordinarie della vita. Ora son tutti convinti che qualche cosa bisogna fare, e sembrano decisi a ricominciare. Ma quando sarà passato il pericolo imminente, e si cercherà di affrontare le enormi difficoltà, che pur troppo vi sono, non è impossibile che avremo una sosta, e che il Governo troverà nella stessa pubblica opinione, la quale ora lo sospinge, ostacoli non facilmente superabili in un paese libero.»
È ancora Pasquale Villari a scriverlo, nella prefazione alla seconda edizione di quelle Lettere meridionali che abbiamo già ricordato, e sono parole che inchiodano, allora come oggi: il fermo immagine di una reticenza e di un’immobilità che ben conosciamo, e che ora rischia di riproporsi, proprio quando meno ne avremmo bisogno.
Siamo nell’ottobre 1884, e quei pensieri erano formulati a proposito delle condizioni di Napoli, dove imperversava una devastante epidemia di colera, diffusa soprattutto nei quartieri più poveri del centro storico, lasciati in un abbandono che andava oltre l’immaginabile: una delle molte disgraziate eredità che la monarchia borbonica aveva trasmesso alla nuova Italia – altro che le fantasticherie su un Meridione preunitario alla vigilia di un miracolo economico!
Alla luce dell’analisi di Villari, la crisi sanitaria si trasformava nella «questione di Napoli», come presto si disse; l’occasione di una ricognizione e di una denuncia sullo stato miserevole della città e, con essa, dell’intero Mezzogiorno.
Da quei giorni, è passato quasi un secolo e mezzo, un tempo lunghissimo, se misurato sulle velocità del nostro presente; ma pure, le situazioni si ripropongono incredibilmente somiglianti, in una coazione a ripetere che ogni volta si rivela come un’autentica dannazione italiana. Sotto i nostri occhi sono sempre le medesime sequenze a scorrere, tristemente familiari, quando si parla di Sud – e anche quando si parla di Napoli – esattamente eguali a quelle descritte nella pagina appena ricordata. Prima l’onda emotiva sollevata dall’emergenza – colera, Covid, terrificanti incendi estivi o quant’altro poco importa – in cui sembrerebbe venir fuori il meglio di cui siamo capaci e tutto appare possibile, anche le rotture più drastiche e le correzioni più radicali: «Da adesso, niente sarà più come prima» suona come un unanime coro.
Ma poi, in modo immancabile, quello stato di grazia indotto dalla gravità del momento evapora quasi all’improvviso, con la stessa rapidità con cui si era formato, mentre al suo posto riaffiorano, insormontabili, le dissipazioni, le incurie, le connivenze, le inerzie, i defilamenti e i distinguo di sempre, spesso accettati e coperti proprio da quelle medesime correnti d’opinione che appena innanzi erano apparse come le più determinate ad agire per il cambiamento – per non dire della corruzione sempre in agguato, o delle continue infiltrazioni criminali.
E sono esattamente questo sottrarsi, queste complicità, questo sfuggire ai propri doveri, che oggi andrebbero anzitutto identificati e sconfitti, se si vuol cogliere l’occasione che ci siamo guadagnati in Europa, e permettere che si formi il consenso necessario a realizzare le riforme indispensabili per approfittarne.
Ma come? In che maniera impedire che si riproducano lo stallo, la palude, una volta dimenticata la morsa della pandemia, quando si tratta, come già adesso, di creare le condizioni per rendere effettivi i progetti di ricostruzione? Si può far sì che quei pezzi di Mezzogiorno che non hanno retto alla prova e hanno mostrato di nuovo – per colpa o per dolo, e sia pure non da soli – la loro usura, la loro distorsione, la loro incapacità a reggere il peso della modernità, e a mettere in campo una politica e un’amministrazione all’altezza dei tempi, escano per sempre di scena?
Si può evitare che il Paese si spezzi ancor più in due tronconi? E fare in modo che l’esperienza recente del caos e della miopia – qualcosa tra il feudale, l’anarchico e il ciecamente corporativo – con cui i governi regionali, non solo nel Sud a dire il vero, ma certo lì con particolare pervicacia, hanno affrontato le conseguenze del Covid non resti senza conseguenze? Che le diseguaglianze inammissibili che si sono determinate tra i cittadini delle diverse parti del Paese facciano emergere con la forza necessaria l’urgenza di un nuovo ordine e di un nuovo equilibrio di poteri nella compagine del nostro Stato, e di una società civile finalmente capace di assumersi le proprie responsabilità?
Ed è possibile che tutto questo cominci proprio dal Meridione, dove il cambiamento sarebbe più indispensabile e l’occasione che si sta presentando ancora più preziosa?
Sappiamo bene che non occorreva certo aspettare la pandemia per rendersi conto, per esempio, dell’abisso che separa i servizi sociali delle regioni meridionali da quelli del resto del Paese e di quasi tutta l’Europa occidentale, fino a creare per milioni di italiani una specie di «cittadinanza differenziata», che diventa in molti casi un’autentica e intollerabile «cittadinanza limitata».
A giudizio unanime degli studiosi, il nostro welfare è infatti tra i meno omogenei d’Europa. In realtà ne esistono venti modelli distinti: uno per ogni regione, con squilibri enormi, che si riflettono direttamente sul benessere delle diverse collettività. Torneremo presto sulla sanità. Potremmo per ora dire dei livelli di disoccupazione, della sicurezza, delle condizioni di accesso viario ai principali nodi urbani. Ci limitiamo, per brevità, all’esempio dei servizi per la prima infanzia, una prestazione da tutti riconosciuta essenziale, che tocca la vita delle famiglie, specie delle donne, e si riflette sulla demografia dei territori, dunque su una componente cruciale del futuro del Paese.
Ebbene, nelle regioni del Centro-Nord il tasso di copertura da parte dell’offerta pubblica rispetto alla popolazione complessiva rientrante nella fascia della prima infanzia (da 0 a 36 mesi) oscillava nel 2018 tra il 44,4 per cento dell’Umbria, e il 30 per cento del Lazio: percentuali accettabili, più o meno in linea con le medie europee. In Calabria, invece, era del 2 per cento, con un minimo storico dell’1,2 per il 2014; in Campania del 3 per cento, in Sicilia del 4,8, in Basilicata del 6,3, in Puglia del 6,4: le percentuali di una disfatta.
Mentre in questi stessi anni, sempre in Calabria, un’inchiesta della Ragioneria generale dello Stato segnalava che la Regione stipendiava 1184 dipendenti di troppo, pari quasi alla metà (al 45,9 per cento, per la precisione) di tutto il personale: nel quale figura anche quell’impiegato che, regolarmente retribuito, per quindici anni non ha mai messo piede sul posto di lavoro, come ha appena accertato un’indagine della polizia giudiziaria promossa dalla magistratura, di cui hanno riferito stampa e tv. Per non dire dei molti assunti nella stessa Regione in modo che è poi risultato illegittimo (97 nel 2008; 127 nel 2009; 395 nel 2010), sempre stando alla medesima inchiesta, peraltro mai smentita. Un quadro desolante, l’ennesimo, che sembra riflettere una condizione senza speranza.
Eppure, tutto questo degrado e queste diseguaglianze non hanno prodotto finora alcun movimento d’opinione capace di tradursi in azione politica e di invertire una tendenza purtroppo consolidata. Anzi, quest’ultima è sembrata in tante occasioni come autoalimentata da una spinta irresistibile, che moltiplicava adesioni e consenso: anche se non crediamo siano in molti, nel Mezzogiorno, a essere convinti che il regionalismo realizzato nei loro territori – e in particolare quello praticato dopo la modifica del titolo V della Costituzione – abbia contribuito in alcun modo a sviluppare la vita democratica delle comunità cui appartengono. E tuttavia, se non si riesce a spezzare questo circuito fra degrado e acquiescenza, e a capovolgerne gli esiti, come si può pensare di evitare un altro disastro, una dissipazione senza eguali di progettualità, di energie e di risorse?
Nel 1984, esattamente cent’anni dopo le parole di Villari che abbiamo prima riportato, Giuseppe Galasso – storico di vaglia e uno dei protagonisti della vita politica e culturale napoletana negli ultimi decenni del secolo scorso – descrivendo quella che chiamava «la fase meridionalistica attuale», indicava nella «ricomposizione di un tessuto sociale» da lungo tempo devastato il primo degli obiettivi di «un impegno per il Mezzogiorno». «La disgregazione» scriveva, è «un «fenomeno in cui si esprime la persistente carenza di maturazione di sufficienti energie sociali nuove e moderne. […] A uno sviluppo immaturo e precario corrisponde una società immatura e precaria, una struttura sociale con pochi e insufficienti centri di coagulazione e di direzione. […] La disgregazione tradizionale consisteva, in effetti, in un limite assai forte di socialità, di livelli collettivi della vita associata. Consisteva, cioè, in un’atomizzazione del rapporto sociale (e, quindi, politico) in microrapporti personali. La prassi spicciola del clientelismo era solo l’aspetto più vistoso di un carattere più strutturale. Questa prevalenza del microrapporto, senza affatto venir meno, si esprime ora piuttosto come istanza corporativa di piccoli gruppi, sottocategorie, frazioni, associazioni in cui la base sociale è venuta ad articolarsi.»
Non importa adesso sottolineare i tratti che rendono per certi versi datata questa analisi, ancora ispirata a una prospettiva che diremmo genericamente industrialista. Quello che appare sorprendente – e per certi versi persino drammatico – è che, a distanza di un secolo, Villari e Galasso giravano entrambi intorno allo stesso problema, sembravano scoprire lo stesso vuoto, che si rivelava dietro la volatilità d’intenti denunciata dal primo, e la «disgregazione» sottolineata dal secondo.
La questione adombrata non era altro che la frantumazione e la mancanza di adeguati legami sociali del popolo meridionale e delle sue classi dirigenti. Non l’inesistenza di queste ultime, bensì la loro mancanza di coesione e di connessioni intellettuali e sociali, la loro incapacità di aggregarsi intorno a un disegno e a un progetto di salvezza – e dunque la crisi permanente del loro rapporto con la politica e con la possibilità di darsi una rappresentanza capace di farsi carico del destino della propria gente e di condurla verso il riscatto.
Adesso sono passati altri quarant’anni dallo scritto di Galasso e la situazione è solo peggiorata: quell’assenza di nerbo politico si sta rivelando sempre più micidiale, aggravata e resa ormai insostenibile dalla dissoluzione del vecchio sistema dei partiti, che in una certa misura agiva da argine e da difesa rispetto a quel vuoto.
Negli ultimi mesi, nel Meridione ancor più che altrove, l’attenzione e le critiche si sono fissate in modo quasi esclusivo sui presidenti di Regione – che molto spesso hanno cercato in ogni modo di rubare la scena per guadagnare visibilità e prestigio – e tutt’al più su alcuni dei loro assessori. Ma in realtà è ben oltre questi discutibili (e discussi) personaggi che bisogna guardare. Perché le inefficienze del regionalismo italiano, in particolare di quello del Mezzogiorno, chiamano direttamente in causa, accanto alle deficienze dei quadri normativi e del tessuto istituzionale, le responsabilità di un ceto politico nel suo insieme: della sua selezione, delle sue capacità, delle sue pratiche di governo.
Quella che si è creata è stata, in altri termini, una convergenza perversa. Da un lato l’avventatezza dell’impianto legislativo, che ha prodotto il pasticcio di una specie di sconsiderato federalismo «all’italiana».
Dall’altro l’irresponsabilità – o quantomeno la complice passività – dei gruppi di potere alla guida delle diverse regioni, che hanno usato nel modo peggiore l’autonomia di cui inopinatamente si erano trovati a godere, interpretandola (o almeno cercando di farlo) come una specie di concessione irreversibile di una vera e propria sovranità, svincolata da ogni controllo: barattando così potere in cambio di disunione. Atteggiamento presto tradottosi in una vera e propria ondata localistica, che nel momento più critico è sembrata sul punto di travolgere la figura e il ruolo stesso dello Stato. E questo specie nel Mezzogiorno, dove abbiamo assistito al ritorno in grande stile di un particolarismo territoriale che ha radici lontane – e purtroppo non dimenticate – nella nostra storia (ha ragione Isaia Sales, quando parla della diffusione di un vero e proprio «populismo territoriale» come cifra comune della politica meridionale degli ultimi anni).
Il risultato è stato il collasso complessivo di un modo di governare e del personale politico che gli si era costruito intorno: quello stesso di cui ci parlavano nei nostri incontri Crapis e Speranza, e, a suo modo, anche Pippo Callipo. Di gruppi e di ambienti che non hanno avuto altra concezione della politica se non come arroccamento a difesa dei mille particulari dei luoghi oppure delle corporazioni (o di entrambi), perché avevano smarrito, se mai lo avevano posseduto, il più elementare senso dello Stato. E così ridotti, non riuscivano a far proprio il punto di vista non diciamo degli interessi generali del Paese, ma nemmeno di quello dei cittadini meridionali nel loro insieme, visti e rappresentati invece solo nella frantumazione dei clan, delle consorterie o al più delle singole categorie professionali. Non a caso si è arrivati a parlare, per descrivere questi comportamenti, di «eversione costituzionale».
Certo, il problema non riguarda solo il Sud, e sono le classi dirigenti dell’intero Paese e la politica che esse sono state capaci di esprimere, ad aver rivelato, nel momento del pericolo e dell’emergenza, la loro disastrosa debolezza – ed è anche perciò che ci troviamo dove siamo.
Ma è nel Mezzogiorno che il collasso si sta manifestando in tutta la sua capacità di far male, pur se anche di questo pubblicamente si preferisce non parlare, per evitare ogni tema che possa toccare suscettibilità radicate o evocare discriminazioni. Con il risultato che, mentre si tace, il Sud continua ad affondare in silenzio.
E anzi, proprio nell’ultimo decennio, quando la situazione diventava sempre più grave, il Mezzogiorno è stato tutt’altro che una frontiera della nostra unità presidiata e difesa. È stato invece uno spazio abbandonato e lasciato a se stesso. Abbiamo già ricordato che, tra il 2008 e il 2018, la spesa dello Stato per gli investimenti nel Sud si è più che dimezzata, mentre il 70 per cento delle opere pubbliche non completate in Italia si trova nel Meridione. Nello stesso periodo, il divario di produttività per persona fra Nord e Sud è aumentato di dieci punti rispetto a quello degli anni Settanta, mentre le regioni meridionali hanno perduto cinque milioni di residenti, tra crollo della natalità e ripresa dei flussi migratori, con medie superiori ai 160.000 individui l’anno che hanno abbandonato il Mezzogiorno. Una condizione insostenibile.
Del vicolo cieco in cui è finito il Sud dell’Italia, e dell’impossibilità di uscirne senza un grande impegno che coinvolga l’intero Paese e l’assetto complessivo del nostro Stato, niente come la condizione di Napoli è oggi specchio più realistico e fedele. Anche se ha ormai perduto da tempo il suo antico ruolo di capitale del Mezzogiorno, e non è nemmeno più un punto di riferimento obbligato per questa parte del Paese, la città rimane un osservatorio indispensabile per capire da vicino cosa sono diventate le classi dirigenti meridionali.
La sua decadenza riflette la loro decadenza, l’inquietante trasformazione che ne sta corrodendo la fibra. Ancora verso la fine del secolo scorso esistevano a Napoli insediamenti industriali di rilievo e un forte nucleo di classe operaia, negozi di antica eleganza, librerie famose e case editrici importanti, luoghi di discussione, licei prestigiosi, una solida borghesia di grandi professionisti. Con i suoi nomi noti in tutto il Paese, poi, la vita politica e culturale anche della sinistra viveva a ridosso della città borghese e ne alimentava le idee; mentre per i vecchi quartieri di Porto, di Mercato, dell’Avvocata, ancora si aggirava, a ricordare il peso della storia, un mai spento retaggio di sanfedismo plebeo. Insomma, Napoli era una città varia e vivissima, agitata dal pensiero e dalle lotte civili.
A mettere tutto in crisi è sopraggiunto una specie di tracollo all’apparenza inesorabile. Il succedersi delle crisi industriali come dappertutto, le conseguenze del terremoto, la decadenza dei commerci locali, l’affievolirsi di ogni energia e di ogni tradizione. Finché su Napoli ha cominciato a chiudersi la tenaglia della delinquenza. Muovendo da nord, dall’Agro nolano-casertano, e da sud, dai paesi dell’area vesuviana, una criminalità nuova e feroce ha preso a stringere d’assedio la città, finendo per impadronirsene e costituirne di fatto la principale attività economica.
E così oggi quella gran parte di Napoli che non vive a spese del bilancio dello Stato o in genere dell’impiego pubblico si trova in larga misura a vivere, direttamente o indirettamente, dei flussi di denaro originati dalle imprese della camorra. Detentrice di capitali enormi, questa criminalità non solo tiene direttamente a libro paga migliaia di persone, ma agisce incontrastata nelle attività commerciali, domina l’edilizia e i grandi affari immobiliari, penetra nel settore turistico, ricorrendo per le sue mille necessità a stuoli di notai, commercialisti, avvocati, medici, i quali, sia pure inconsapevolmente (ma spesso è l’inconsapevolezza di chi preferisce chiudere gli occhi), vengono a trovarsi di fatto se non al suo servizio, almeno a stretto contatto con essa. «Oggi è impossibile svolgere un’attività professionale di un certo livello, in qualunque campo» ci ha detto un importante avvocato napoletano, «senza impattare prima o poi, sia pure in modo mediato e indiretto, con le strutture della criminalità organizzata.»
Si è arrivati così a una vero e proprio virtuale inquinamento camorristico di una parte significativa di quel che restava del vecchio professionismo borghese: ceti i cui eredi, se vogliono cambiare aria, decidono in sempre maggior numero di abbandonare la città già all’inizio degli studi universitari. E si tratta, nove volte su dieci, di una partenza senza ritorno, di un abbandono definitivo.
«Il tema della città è il tema centrale su cui si decide il futuro del Mezzogiorno» ci ha detto Gianfranco Viesti, professore di economia che incontriamo in un caldo pomeriggio di settembre nel suo dipartimento, all’università di Bari, nel centro della città. «Nel mondo di oggi lo sviluppo avrà sempre di più un carattere urbano, dal momento che nelle città è molto più facile organizzare la mobilità e il telelavoro, che in futuro saranno i due assi portanti dello sviluppo. Ed è probabile peraltro che proprio all’interno dei contesti urbani siano destinati a crescere i divari tra i gruppi sociali.»
A Napoli, dove tali differenze sono state sempre assai forti, non solo questa forbice si sta allargando, ma sta succedendo qualcosa di ancora più grave: si sta logorando pericolosamente l’identità della comunità cittadina. Oppresso da mostruose periferie, nuove e già cadenti, con il lungomare ridotto a una chiassosa pizzeria all’aperto e il centro antico a uno sbrindellato luogo turistico mordi e fuggi, la Villa comunale una specie di immondezzaio, gli stessi nuovi quartieri per ricchi, prodotto della speculazione edilizia degli anni Cinquanta – via Petrarca, via Manzoni, via Orazio – già slabbrati...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Premessa
  4. Una profezia per l’Italia
  5. I. La storia, per cominciare
  6. II. «Perché gli piace così»
  7. III. Il Sud in silenzio. Napoli e non solo
  8. IV. Una catastrofe italiana
  9. V. Un nuovo popolo
  10. VI. Esercizi di profezia
  11. Riferimenti bibliografici
  12. Copyright