Servio Tullio - Nato dal fuoco
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Servio Tullio - Nato dal fuoco

Il sesto re

  1. 420 pagine
  2. Italian
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Servio Tullio - Nato dal fuoco

Il sesto re

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Porta nel nome le sue umili origini, Servio Tullio, nello sguardo il destino di grandezza che gli dei hanno decretato per lui. Figlio della serva Ocresia, già moglie di Tullio, signore di Corniculum conquistata dai romani, nasce e cresce sotto il segno del fuoco: quello che ha devastato la sua città, quello del prodigio che ne ha svelato la sorte eccezionale, quello che gli arde nel petto e ne accende l'ambizione.

Allevato alla corte di Tarquinio Prisco, sotto i saggi insegnamenti dell'augure Azio Nevio, impara presto che non è la discendenza a determinare il valore di un uomo. E che a volte il coraggio del lupo non basta, occorre anche l'astuzia della volpe.

Servio li possiede entrambi. In più ha l'amore di Tarquinia, la primogenita del re, e la protezione della dea Fortuna. È così che, alla morte di Tarquinio, riesce a sedersi sul trono di Roma. Ma Servio ha anche molti nemici, a cominciare dai figli di Anco Marzio e dai senatori che non tollerano un sovrano nato schiavo e le sue leggi liberali. Presto Servio si troverà a doversi guardare le spalle da chiunque, persino da coloro che credeva più vicini. Roma, però, è con lui, e alla grandezza dell'Urbe il sesto re dedicherà la vita. Preparandola a diventare la Città Eterna.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
ISBN
9788835714200
CAPITOLO SETTIMO

I doveri di un re

1

Roma, 553 a.C.
Dodici anni dopo

Servio camminò avanti e indietro sulla spianata polverosa del Campo Marzio finché non ebbe sbollito la rabbia.
Tullia stava esagerando e l’ennesima lite di quella mattina non aveva fatto altro che ribadirglielo. Non riusciva più a sopportare la sua sfrontatezza, né l’arroganza con cui gli si rivolgeva: quella ragazzina non aveva nemmeno tredici anni ma credeva di sapere tutto della vita, osava addirittura criticarlo per come amministrava il regno.
Sbuffò irritato, riprendendo a marciare sotto il pallido sole primaverile. Con Lucrezia era tutto più facile, rifletté. Tullia, invece, diventava sempre più ingestibile: odiava ammetterlo, ma quella ragazzina stava prendendo così tanto le distanze da lui che a volte si chiedeva com’era possibile che fosse cresciuta sotto il suo tetto.
Udì uno scalpiccio alle proprie spalle e si volse in direzione della città: una piccola nube di polvere avanzava stagliandosi contro il profilo degli edifici, preceduta dalle sagome di tre cavalieri.
Servio si fermò nel mezzo del Campo Marzio ad aspettarli, guardandoli prendere forma a mano a mano che si avvicinavano. Bastò l’espressione di Marco Camillo, al centro del terzetto, per rammentargli le cattive notizie giunte a Roma con la primavera, che preannunciavano nuove alleanze pronte a minacciare il fragile equilibrio su cui si reggeva la pace. A fianco del magister equitum cavalcavano Lucio e Arunte Tarquinio.
I tre si arrestarono di fronte a lui e smontarono con aria truce, rimanendo in silenzio per un po’.
«È arrivato un messaggero da Vulci» esordì infine Marco, parandoglisi davanti.
“Aulo Vibenna” dedusse Servio: era da tempo che non aveva sue notizie. Insieme avevano combattuto le ultime battaglie contro le città etrusche, come si erano promessi di fare dopo la riconquista del trono e la morte di Celio, ma da allora Aulo aveva inviato un messaggero a Roma solo una volta, per avvisarlo che gli dei avevano reclamato Azio Nevio.
«Va’ avanti» esortò.
«A quanto pare le informazioni che avevamo ricevuto sono vere: gli etruschi e i sabini hanno dato vita a un’alleanza e formato un esercito per marciare contro di noi.»
Servio contemplò le colline che abbracciavano l’Urbe e le coltivazioni che si stendevano fra le vallate, e non poté trattenersi dal pensare che vent’anni di guerre non erano bastati a ristabilire la pace: tutto ciò che aveva ottenuto era stato una breve tregua, e ora era già tempo di richiamare gli uomini dalle campagne e dalle botteghe per condurli sul campo di battaglia.
Ricordò quanto era stata dura riconquistare la fascia di territorio lungo il fiume occupata dagli etruschi in seguito all’accordo stipulato da Gneo, e d’istinto spostò l’attenzione su Lucio Tarquinio, che nell’aspetto somigliava al padre molto più di quanto avrebbe voluto.
«C’è dell’altro» riprese Marco. «Le armate nemiche hanno stretto d’assedio Vulci: Aulo Vibenna chiede il tuo intervento.»
Servio continuò a osservare Lucio, che sosteneva il suo sguardo senza cedere di un palmo. Lui e Arunte erano stati a Tarquinia fino all’autunno precedente, su suo ordine, per addestrarsi nelle tecniche di combattimento etrusche. Al rientro a Roma Lucio aveva raggiunto l’età adulta, pertanto era uscito legalmente dalla sua tutela, assumendo il ruolo di pater familias ed ereditando i beni del padre, inclusa la vecchia reggia del nonno in cui si era trasferito insieme al fratello minore.
«Tu che cosa ne pensi?» lo interpellò.
«Penso che dovremmo rispondere: Vulci ha combattuto per anni al nostro fianco, se la lasciassimo sola in questo momento anche le città latine metterebbero in discussione l’alleanza.»
Un’analisi tanto lucida quanto distaccata dal rapporto d’amicizia che li legava ad Aulo Vibenna.
In fin dei conti, il timore che diventasse troppo simile a Gneo si stava dimostrando infondato.
Ancora una volta la dea Fortuna aveva dato prova di essere dalla sua parte, persino nelle questioni personali: dal momento che Tarquinia non aveva saputo dargli un figlio maschio, era stata lei stessa a provvedere, offrendogliene addirittura due. E poco importava se Lucio e Arunte non erano sangue del suo sangue: li aveva cresciuti lui, e questo gli bastava.
Si voltò a scrutare l’orizzonte, riflettendo su cosa significasse intraprendere una nuova guerra.
Erano passati dodici anni dal tradimento di Gneo, eppure Roma non era mai stata tanto fragile: il Senato era spaccato in una miriade di fazioni contrapposte, mentre il popolo subiva le conseguenze di due estati di raccolti troppo scarsi.
Con la guerra alle porte, ancora una volta sarebbe stato tutto più difficile.
«Raduna l’esercito, Marco» ordinò. «Risponderemo alla chiamata di Vulci.»
I tre rimontarono a cavallo e se ne andarono, lasciandolo solo nella desolazione del Campo Marzio.
Mentre li guardava allontanarsi, Servio pensò che non si era mai sentito tanto stanco in vita sua, come se ogni giorno in più sul trono di Roma gli aggiungesse un po’ di peso sulle spalle.
La gente credeva che essere re significasse prendere decisioni e godere dei frutti del lavoro altrui, ma si sbagliava: essere re significava farsi carico delle paure, dei sogni e dei conflitti di tutta la città, una responsabilità enorme per un uomo solo.

2

Dalle labbra dello schiavo sfuggì un lamento.
Publio Furio gli rivolse un’occhiata infastidita: non capiva come, nonostante la museruola di cuoio che gli aveva infilato tra i denti, quel mugolio di dolore fosse riuscito a rompere il silenzio.
Il sannita stava appeso a un albero, le lunghe braccia congiunte e legate sopra la testa, le punte dei piedi che a stento sfioravano il suolo. Una posizione già di per sé dolorosa: sarebbe bastato lasciarlo lì per qualche ora per vincere tutta la sua voglia di ribellarsi. Ma per Publio non era sufficiente: le sue punizioni dovevano essere così esemplari da demolire ogni istinto di ribellione sia in chi le subiva sia in tutti gli altri schiavi che servivano nella sua tenuta e coltivavano le sue terre, perché erano così tanti che, se fosse scoppiata una rivolta, sarebbe stato quasi impossibile per lui e le sue guardie sedarla. Quindi, a ogni minimo accenno di insubordinazione, il castigo scattava puntuale e inappellabile.
Se gli schiavi erano così indisciplinati, meditò con disappunto, era colpa dell’uomo che sedeva sul trono di Roma da venticinque anni. Era risaputo che gli schiavi migliori erano quelli che vendevano la propria libertà per pagare i debiti: erano romani, parlavano la sua stessa lingua, comprendevano gli ordini al volo e, cosa più importante, conoscevano il loro posto nell’ordine naturale delle cose. Gli schiavi stranieri, invece, avevano una certa tendenza a disobbedire.
In ogni caso, il sannita doveva essere punito severamente, in modo tale che a nessuno venisse in mente di ribellarsi. Publio aveva compreso che quell’uomo aveva carisma e che, se non gli avesse spezzato la schiena, avrebbe potuto scatenare una sollevazione che sarebbe costata la vita a molti dei suoi servi; non che gli importasse di loro, ma uno schiavo sano e abile costava diverse libbre di bronzo e sarebbe stato un peccato sprecare un simile patrimonio per non aver saputo applicare un po’ di disciplina.
Ergendosi a torso nudo, luccicante di sudore, alzò per l’ennesima volta la frusta di cuoio e l’abbatté sulla schiena della vittima. Brandelli di carne volarono in aria fra gli schizzi di sangue, e l’uomo si contorse in preda a uno spasmo.
Furio sentì l’attendente posargli una mano sul braccio. «Fermati, padrone,» gli sussurrò in un orecchio «un altro colpo e potresti ucciderlo.»
«È quello che merita per la sua insolenza» ribatté lui freddamente.
Continuò a sferzare il sannita finché non lo vide perdere i sensi; solo allora si fermò, lasciò cadere a terra la frusta e diede ordine di non slegarlo fino al tramonto.
Mandò uno degli stallieri a prendere il suo cavallo mentre l’attendente gli asciugava con una pezza il sudore dalla schiena, dal petto e dalle braccia, per poi aiutarlo a indossare la tunica. La folla di schiavi assiepata intorno si aprì e lui l’attraversò, quindi balzò a cavallo e si diresse a spron battuto verso le mura dell’Urbe.
Entrò a Roma dalla Porta Collina, mentre i soldati a guardia dell’ingresso si facevano da parte con un cenno deferente del capo.
Era giorno di mercato: la strada verso il Foro era percorsa da carri stracolmi di merci e da uomini e schiavi a piedi e a cavallo. Publio diminuì l’andatura per mettersi al passo: voleva che tutti lo vedessero e si chinassero al suo passaggio, soprattutto quei patres che, dopo la morte di Gneo Tarquinio e di sua nipote Gegania, si erano rintanati nell’ombra, terrorizzati all’idea che il re potesse mettere in atto qualche ritorsione nei loro confronti.
Non era stato facile, per lui e per l’intero Senato, convincere il sovrano che suo cognato avesse agito in totale autonomia, e in ogni caso da allora i rapporti con Servio Tullio erano diventati più tesi che mai. Publio era consapevole che il monarca nutriva qualche sospetto su di lui, a causa dello stretto rapporto d’amicizia che lo legava a Gneo, ma sapeva anche che non era riuscito a trovare prove a suo carico, e incarcerare un senatore così influente senza poterne dimostrare la colpevolezza sarebbe stata una mossa politica disastrosa.
Alla fine dei conti, Servio si era dimostrato più clemente del previsto: aveva ordinato l’arresto di alcuni senatori che lo avevano accusato di aver provocato una guerra civile per risolvere una diatriba familiare, ma non aveva compiuto la strage che Publio si aspettava. Avrebbe potuto uccidere i figlioletti di Gneo e Gegania, ma aveva scelto la via della pietà: i suoi estimatori lo chiamavano “il re buono”, e un re buono non uccideva i bambini, specialmente se gli dei non avevano voluto benedirlo con un figlio maschio.
Tra i patrizi si era ormai consolidata la voce che il matrimonio del re fosse maledetto. Non era più un segreto: Servio era il bastardo di Lucio Tarquinio e aveva sposato la sua stessa sorella, un’unione che chiunque avrebbe aborrito. Certo, Tarquinio non aveva mai riconosciuto quel figlio nato da una serva, ma più il re invecchiava, più la somiglianza con il predecessore si acuiva, al punto che nessuno poteva più fingere di ignorarla.
Mentre Publio si avvicinava al Foro, molti alleati gli andarono incontro. Nessuno avrebbe potuto immaginare, dai brevi cenni di saluto che si scambiarono, che dodici anni prima avevano cospirato insieme per spodestare un sovrano illegittimo e mettere al suo posto un uomo di sangue reale, ma imbelle, dedito al vino e facile da manipolare.
La sconfitta di Gneo era stata una sventura, per lui e per il Senato: se quel dannato ragazzo fosse stato più accorto, Servio sarebbe morto a Vulci e, al termine dei mesi di interregno, le Curie lo avrebbero nominato re. Purtroppo, però, Gneo si era fatto tentare dalla vendetta, e così il bastardo era sopravvissuto, era tornato in città e le conseguenze erano sotto gli occhi di tutti: guerra, carestia e rancore.
Servio Tullio si era ripreso il trono, ma niente era stato più come prima: sembrava che da quel giorno l’amata Fortuna avesse deciso di voltargli le spalle e, di conseguenza, abbandonare anche l’Urbe.
Roma non era più tornata a essere la città invincibile di sempre, e i nemici lo sapevano.
Servio, poi, non era mai stato tanto vulnerabile: persino quelli che lo avevano sempre sostenuto, compreso suo cugino Egerio, iniziavano a prendere le distan...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Servio Tullio
  4. Personaggi principali
  5. Antefatto
  6. Capitolo primo. Mastarna
  7. Capitolo secondo. Considera chi sei
  8. Capitolo terzo. L’uomo degno al comando
  9. Capitolo quarto. Marte chiama
  10. Capitolo quinto. Baciato dalla Fortuna
  11. Capitolo sesto. Roma eterna
  12. Capitolo settimo. I doveri di un re
  13. Capitolo ottavo. La congiura dei folli
  14. Capitolo nono. Oscuri presagi
  15. Epilogo
  16. Ringraziamenti
  17. Copyright