Roma, 540 a.C.
Primavera
Avevano sperato di sfuggire alla confusione che imperava nel palazzo di Servio, immerso nei preparativi per il doppio banchetto nuziale, ma evidentemente avevano sbagliato i conti: anche vista da lontano, la domus dei Tarquini sembrava ancora più affollata e sottosopra di quella da cui provenivano.
«E tanti cari saluti alla tua tranquillità» commentò allegro Lucio, rivolto al fratello al suo fianco.
Arunte gemette, fermandosi in mezzo alla strada.
«Speravo che almeno qui avessero già finito» brontolò mogio.
«Coraggio: nel peggiore dei casi ci toccherà trascorrere la prima notte di nozze su una coperta stesa per terra. Abbiamo fatto di peggio, se ricordi.»
«Quanto sei spiritoso» borbottò Arunte senza alcuna allegria. «Tu almeno avrai una bella moglie in carne su cui riposare: la mia è tanto esile che il pavimento sarebbe più morbido.»
Lucio strinse le labbra in una smorfia, ma si sforzò di non commentare. L’immagine tentatrice della cugina minore, avvolta in impalpabili vesti di lino profumato, gli aveva tenuto compagnia in molte notti solitarie della sua adolescenza, e il pensiero che quel corpo esile e sensuale presto sarebbe stato stretto dalle braccia di Arunte gli provocava una fitta di gelosia. Deglutì a vuoto e cercò di essere felice per il fratello, per quanto quello sciocco sembrasse incapace di apprezzare la propria fortuna.
«Dài, forza!» lo incitò, battendogli una mano sulla spalla per rimetterlo in marcia. «Ormai siamo qui, almeno vediamo a che punto sono i lavori.»
La grande casa abbarbicata alle mura romulee, l’unica con il tetto in tegole di tutto il vicinato, sembrava brulicare di attività, e l’eco dei colpi di martello e delle voci che si inseguivano all’interno la faceva assomigliare più al Foro che a un’abitazione.
Servi carichi di ceste all’apparenza destinate alla cucina si mescolavano ad altri schiavi intenti a trasportare arredi e scampoli di tessuti ai loro padroni al lavoro nelle camere; i tonfi dei martelli dei falegnami rimbalzavano da un lato all’altro del patio centrale, e decine di ancelle in abiti da lavoro intrecciavano un’allegra coreografia nei corridoi, scansando gli artigiani e i loro assistenti mentre svolgevano le loro misteriose consegne.
Appena varcata la soglia e salutato l’altare dei Lari familiari, Lucio fece valere il proprio diritto di anzianità e si diresse alla stanza che dal giorno successivo avrebbe diviso con la sua nuova sposa. Il letto, o per lo meno la sua intelaiatura di legno, era al proprio posto; ma lo stesso non si poteva dire del resto del mobilio. Imbarazzato, il falegname scattò in piedi appena li vide sulla soglia e iniziò a torcersi le mani, a disagio.
«Sembra peggio di com’è realmente,» si scusò «ma entro domani sarà tutto finito, credetemi» garantì, e a Lucio non restò che annuire scettico, facendogli cenno di proseguire nel proprio lavoro senza perdere altro tempo.
La stanza adiacente, destinata a Tullia e Arunte, era invece praticamente completata. Lucio fece scorrere lo sguardo sulle cassapanche finemente intarsiate, alcune delle quali già straripanti di tuniche e indumenti femminili, e si soffermò sul letto destinato agli sposi, addobbato di nastri coi colori matrimoniali. Strinse i denti per trattenere l’ennesimo sospiro di invidia e si sforzò di sorridere al fratello.
«Visto?» gli fece notare, dandogli di gomito. «Tu ti preoccupavi di dover dormire su Tullia, invece avrai un morbido materasso su cui sfogare tutta la tua virilità. Non sei contento?»
Il suo goffo tentativo di sdrammatizzare si rivelò subito un fiasco: Arunte si fece cupo, e anziché rispondergli per le rime, come suo solito, si limitò ad abbassare le spalle e chinare la testa; un momento dopo gli fece cenno di seguirlo nella stanza e tirò la tenda dietro di loro.
«Senti, Lucio,» esordì sottovoce, a occhi bassi «mi spiace per come è andata, va bene? Lo so cosa provavi da ragazzo per Tullia, e ti giuro, avrei dato la mia palla sinistra perché voi...»
Ma Lucio sollevò subito una mano per interromperlo.
«Non è colpa tua» lo rassicurò in fretta.
Arunte prese fiato come per obiettare, ma esitò e alla fine strinse le labbra in una smorfia e tacque.
«Davvero, fratellino» insistette Lucio in tono più convinto. «Non c’è nulla per cui tu debba sentirti in colpa.»
Arunte sembrò rilassarsi.
«Lo so,» ammise infine «ma non posso farci niente: tutte le volte che parli di Tullia io mi sento in colpa. Se può consolarti, sappi che non sei il solo a dispiacerti per questa...» Sospirò, gesticolando con la mano come alla ricerca di una parola poco compromettente. «Questa... situazione, insomma.»
Lucio si morse le labbra, sforzandosi di apparire felice.
«Fratellino!» lo chiamò, posandogli una mano sulla spalla con fare protettivo. «Non c’è alcuna “situazione”, come la chiami tu. Ti assicuro, sono contento per voi! E sono contento che continueremo ad abitare tutti insieme sotto lo stesso tetto, come quando eravamo piccoli.»
Si era sforzato di sembrare convincente, ma qualcosa doveva essere andato storto, perché Arunte scosse la testa.
«Perché non proviamo a essere sinceri, almeno tra noi? Credi che io non veda la luce che c’è nel tuo sguardo quando parli di Tullia, e quella che c’è quando invece parli di sua sorella? Lo capisco quanto stai male, perché è lo stesso dolore che provo anch’io: siamo o non siamo fratelli? Credi che non avrei preferito restare scapolo a vita, pur di non darti un dispiacere?»
Si interruppe e sollevò lo sguardo per incontrare il suo. Nei suoi occhi, adesso lucidi, c’era una luce supplicante.
«Non è colpa mia» ripeté per l’ennesima volta. «È andata così, ecco tutto.»
Lucio trattenne il fiato, irritato. Se la prima parte del discorso l’aveva quasi commosso, quell’ultima precisazione gli fece stringere i pugni.
«No, Arunte» sibilò tetro. «Non è “andata così”: qualcuno l’ha fatta andare così. La colpa non è tua, ma sappiamo bene entrambi di chi, e faremmo bene a ricordarlo.»
Arunte lo fissò con un’espressione allarmata.
«Il re...» mormorò.
«Esatto, il re» confermò Lucio a denti stretti. «E zia Tarquinia prima di lui. Sono loro che hanno voluto punirci, non dimenticarlo.»
«Punirci? Dandoci in spose le loro figlie?»
«Calpestando i nostri sentimenti, sì. Appioppando a me quella... capra, così da legarmi alla greppia con lei, e allo stesso tempo unendo te e Tullia, pur sapendo che non sarete mai davvero felici assieme; anzi, che nessuno di noi quattro lo sarà mai davvero.»
Arunte lo fissò con la bocca spalancata e un’espressione scandalizzata nello sguardo. Un momento dopo scosse la testa, come per respingere l’idea, e gli puntò l’indice contro il petto.
«Ti sbagli» obiettò. «Se Servio ti ha destinato la mano della sua primogenita è stato solo per ribadire la sua promessa di farti re dopo di lui. Non ci sono capre, legami o greppie, qui: solo la garanzia della successione. Dovresti essergli grato, fratello, invece di accusarlo.»
A quelle parole Lucio si sentì salire il sangue alla testa.
«Grato?» esplose. «E per che cosa? Per avere usurpato con l’inganno il titolo del nonno? Per avere fatto uccidere nostro padre e averne anzi voluto cancellare perfino il ricordo? Grato per cosa, eh? Per la “promessa” che ci avrebbe restituito il titolo, prima o poi? Sveglia, fratellino: quello ci ha tenuti in vita finora solo per legittimare il proprio regno, non per restituirci quello che si è arrogato senza diritto! Avesse avuto anche un solo figlio maschio avresti visto dove saremmo finiti, a quest’ora: giù dalla Rupe Tarpea, altro che restituzione!»
Sempre più allarmato, Arunte gli fece cenno di abbassare la voce, indicando la tenda dietro di sé. Dall’altro lato si sentivano distintamente le voci degli uomini intenti al lavoro. Lucio fece spallucce, ma abbassò lo stesso un po’ il tono.
«Le cose non “vanno così”, Arunte» riprese con più calma. «Se vuoi ottenere dei risultati nella vita, le cose devi imparare a farle andare come vuoi tu, non come fa comodo agli altri.»
«Ottenere dei risultati?» ripeté Arunte ridendo e guardandosi attorno con le palme rivolte al soffitto a indicare tutto ciò che li circondava. «E cosa vuoi ottenere più di quello che già abbiamo? Siamo giovani, siamo tra le persone più ricche di Roma, stiamo per sposare le figlie del re! Che altro vuoi dalla vita?» Lucio provò a ribattere, ma Arunte continuò: «Va bene, va bene: avresti preferito sposare la piccola e lasciare a me la capra, come la chiami tu... e dovresti vergognartene, fratello, lasciatelo dire» fece, ghignando e piantandogli di nuovo l’indice sul petto. «Ma ti sembra che per una donna, per di più una tutta ossa e muscoli, tanto che pare più un’atleta etrusca che una sana matrona romana, devi fare tutta questa scena? Suvvia, dài!»
Lucio, che alle prime parole del fratello stava per esplodere indignato, si sentì invece sgonfiare: l’apatia e la mancanza di carattere di Arunte lo lasciavano ogni volta senza parole. E sì che avrebbe dovuto imparare ad accettarne i limiti, ormai. Invece c’erano momenti, come quello, in cui si chiedeva se davvero fossero entrambi figli degli stessi genitori... cosa della quale ormai non c’era più modo di accertarsi, grazie alla scelleratezza di zio Servio e alla sua smania di cancellare le ascendenze altrui.
Scansò con un gesto infastidito la mano del fratello e uscì nel patio, lasciando Arunte a rimirare la propria camera.
Appoggiato a una delle colonne esterne, si fermò per qualche istante a contemplare il proprio orto, da poco ripopolato. Come al solito la vista lo rinfrancò: si lasciò alle spalle la confusione dei preparativi per la cerimonia e si inoltrò tra le piante già fiorite, chinandosi ogni tanto a sfiorarne i germogli con la mano.
Si rammaricò di ricordare così poco dei propri veri genitori. Per quanto fosse molto piccolo al momento della loro scomparsa, sentiva che sarebbe stato suo dovere rammentare almeno un volto, un sorriso, un’espressione. Invece tutto ciò che ricordava erano due sentimenti: la sicurezza che l’abbraccio di sua madre riusciva a infondergli e lo smarrimento che era seguito alla sua scomparsa. A volte pensava che per poter riottenere, anche solo per pochi istanti, quello stesso senso di sicurezza e protezione avrebbe dato qualunque cosa: soldi, case, terreni e armenti. Perfino la rinuncia alla piccola Tullia sarebbe stata un prezzo onesto, per quanto doloroso, in cambio della sicurezza che Servio gli aveva sottratto da fanciullo.
Cosa che avrebbe pagato cara, prima o poi.
Dietro la tenda d’ingresso, il cuore di Tullia batteva così forte da farle temere che i Tarquini, all’interno, potessero sentirla.
Dimenticando all’istante ciò che era venuta a fare nella nuova abitazione, si portò una mano al seno...