Nati dall'abisso (Urania)
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Nati dall'abisso (Urania)

  1. 208 pagine
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Nati dall'abisso (Urania)

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NATI DALL'ABISSO (1973) In una società in cui il Consiglio che governa la Commissione per l'Energia impone uno stretto razionamento delle fonti energetiche, l'unica frontiera è costituita dall'oceano. Ma proprio nell'ocea­no si crea una falla di quella preziosa energia e questo genera un allarme planetario. Eppure, è nelle profondità degli abissi che ci potrebbe essere il futuro dell'umanità...

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
ISBN
9788835714354
Argomento
Letteratura
Categoria
Fantascienza

1

Non ho mai avuto bisogno di rivolgermi a uno psichiatra e non ci tengo affatto, però avrei voluto che ce ne fosse uno in giro, per parlare con lui. Non che mi sentissi sull’orlo della pazzia: ma quando hai qualcosa di profondo da dire, vuoi che qualcuno possa valutarlo; e ci sarebbe voluto davvero un professionista per valutare l’osservazione che desideravo fare in quel momento.
Esiste una definizione per coloro che non sopportano di trovarsi allo scoperto, con la folla tutt’intorno che li guarda, e ne esiste un’altra per quelli che danno giù di testa se si trovano chiusi in poco spazio. Sono disturbi abbastanza comuni, ma sarei disposto a scommettere che nessuno, prima, aveva mai sofferto contemporaneamente di agorafobia e di claustrofobia.
Con un nome come il mio, naturalmente, non ho mai cercato di mettermi molto in vista, e di solito resisto anche alla tentazione di fare lo spiritoso quando mi trovo in compagnia. Ma in quel momento avrei voluto che ci fosse qualcuno, lì, ad ascoltare la diagnosi delle mie sensazioni.
O forse, avrei voluto semplicemente che ci fosse qualcuno.
Non udivo più la tempesta. La Pugnose era affondata quasi esattamente dove doveva. Aveva incontrato il maltempo dove aveva previsto l’ufficio meteorologico, e il carburante si era esaurito dopo cinque minuti… questo avrei potuto predirlo anch’io; era logico che quelli del consiglio di amministrazione facessero in modo che non andasse a fondo, con l’imbarcazione, una quantità di energia superiore al minimo indispensabile. Comunque, di energia ne era rimasta un po’ negli accumulatori, e io avevo continuato a mantenere un certo controllo fino al momento in cui si era avvicinata al massimo al Punto X. Era arrivata all’incirca a mezzo miglio. Quandomi ero accorto che avrei dopo poco superato il punto chiave, avevo fatto saltare i fuochi d’artificio, e così la povera, piccola Pugnose aveva cominciato a squarciarsi a metà.
Non era stata mai destinata ad altri scopi, e io non mi ero innamorato di lei, come avrebbe potuto fare qualcun altro, ma lo spettacolo, comunque, non mi piaceva. Mi sembrava uno spreco. Comunque, non ci rimuginai troppo sopra. Mi infilai nella capsula, la sigillai, e lasciai fare alla natura. Ormai, se c’era da credere ai segnalatori della pressione statica, la capsula e io eravamo a una profondità di duecentocinquanta metri.
C’era un grande, grande silenzio. Sapevo che l’acqua mi turbinava accanto perché la profondità cresceva di circa mezzo metro al secondo, ma non la udivo. I pezzi staccati della Pugnose se ne erano andati già da un po’: quelli galleggianti si erano sparsi sul Pacifico, e quelli pesanti mi avevano preceduto verso il fondo. Mi sarei sentito turbato, oltre che sorpreso, se avessi sentito qualcosa di solido sbattere contro il mio relitto. Il silenzio era una buona notizia, ma mi metteva egualmente a disagio.
Ero stato una volta nello spazio – per un’indagine sulle scorie in una delle stazioni di ricerca sulla fusione – e c’era la stessa, totale assenza di suono. Allora non mi era piaciuto: mi aveva dato l’impressione che l’universo mi snobbasse di proposito, in attesa dell’istante in cui avrebbe potuto spazzar via i miei resti. E non mi piaceva neppure ora, sebbene la sensazione fosse diversa… stavolta era come se qualcuno mi stesse osservando attentamente per scoprire cosa intendevo fare, e cercasse di decidere i provvedimenti da adottare. Uno psichiatra non avrebbe potuto rimediare a questa idea, naturalmente, perché era abbastanza probabile che fosse vero.
Bert Whelstrahl era scomparso un anno prima, nelle stesse acque. Joey Elfven, l’ingegnere e sommergibilista più esperto che si potesse trovare sulla Terra, era sparito senza lasciare tracce dieci mesi dopo, nella stessa zona. Entrambi erano miei amici, e la loro sparizione mi turbava.
Sei settimane prima, Marie Wladerzki aveva seguito gli altri due. E questo era stato molto peggio, dal mio punto di vista. Lei non era stata mandata per investigare, naturalmente: il Consiglio di Amministrazione, impersonato dall’attuale presidente, di cui ometto il nome dal mio racconto, ritiene che le donne non siano abbastanza obiettive. Ma questo non significava che Marie non potesse essere curiosa. Per giunta, le stava a cuore Joey, come lei stava a cuore a me. Poiché era Marie, non aveva veramente violato la lettera dei regolamenti, quando aveva preso un sommergibile del Consiglio a Papeete: ma senza dubbio aveva superato i limiti dello spirito di quelle disposizioni. Non aveva detto dove andava, e l’ultima volta che aveva dato notizie di sé era stato tra Pitcairn e Oiejo, a mille miglia dal punto in cui io stavo affondando ora con i resti della Pugnose: ma quelli che la conoscevano sapevano benissimo dove andarla a cercare.
Il presidente era stato così umano da scegliermi come volontario per la ricerca. Il mio istinto sarebbe stato proprio quello… prendere un sommergibile e andare a vedere cos’era successo: ma la ragione aveva avuto la meglio. La scomparsa di Bert poteva essere stata un incidente, sebbene vi fossero già motivi di sospetto, per quanto riguardava la zona dell’Isola di Pasqua. La sparizione di Joey a circa sei miglia dallo stesso punto poteva anche essere una coincidenza, qualche volta il mare è capace di giocare all’uomo tiri del genere. Ma, dopo la scomparsa di Marie, solo uno stupido si sarebbe precipitato alla cieca in quella zona, in modo più sfacciato del necessario.
Perciò, adesso io ero a circa trecento metri sotto la superficie del Pacifico, e a una quota molto più alta rispetto al fondale, camuffato da relitto di una imbarcazione naufragata.
Non sapevo esattamente quanta acqua ci fosse ancora sotto di me; sebbene i miei ultimi controlli alla superficie fossero stati efficienti, e avessi acquisito una buona conoscenza del profilo dei fondali a nord di Rapa Nui, non potevo essere sicuro di scendere in verticale. Le correnti nei pressi dell’isola non sono tranquille e regolari come fanno pensare le freccette che figurano sulle carte del Pacifico a scala ridotta.
Naturalmente, avrei potuto provare con l’ecometro, ma per evitare quella tentazione, nella capsula non avevo strumenti di emissione, a parte i riflettori; e non avevo intenzione di usare neppure quelli, fino a che avessi in qualche modo la certezza di essere solo. La cosa migliore era vedere senza essere visto. La certezza sarebbe venuta, caso mai, molto più tardi, dopo che avessi raggiunto il fondo e avessi passato parecchio tempo in ascolto.
Per il momento stavo tenendo d’occhio l’indicatore di pressione, che mi diceva che l’acqua si accumulava sopra di me, e i sensori, che mi avrebbero fatto sapere se qualcun altro stava usando apparecchi sonar nei dintorni. Non sapevo bene se desideravo o no vederli reagire. Se avessero reagito, sarebbe stato un progresso: avrei saputo che laggiù c’era qualcuno che non avrebbe dovuto esserci… ma poteva anche essere un progresso dello stesso tipo fatto dagli altri tre. Forse non era il caso di preoccuparmi troppo, perché cinque o sei metri di scafo sfondato sarebbero apparsi a una sonda sonar per ciò che erano, e la capsula interna non sarebbe stata presumibilmente scoperta. Naturalmente, però, certi addetti ai sonar non si lasciano ingannare tanto facilmente.
Potevo guardare fuori, sicuro. La capsula era munita di oblò, e due di essi si trovavano sul lato dove prima c’era la poppa della Pugnose. Talvolta, riuscivo persino a vedere qualcosa. C’erano scintille fosforescenti che salivano, e scie luminose, non abbastanza vivaci da permettermi di identificarne il colore, che talvolta mi sfrecciavano accanto e svanivano nelle tenebre, e talora, invece, fluttuavano per interi minuti davanti a un oblò, come se indicassero la posizione di qualcosa che cercava di guardare dentro, incuriosito. Un paio di volte provai la tentazione, anche se non troppo forte, di accendere i riflettori per vedere di cosa si trattava.
Il relitto scendeva lentamente, roteando. Mi avevano assicurato che questo non sarebbe successo, che il peso era distribuito in modo che la prua aguzza avrebbe sempre puntato verso il basso, lasciando la capsula in alto al momento dell’impatto… ma non c’era nessuno con cui potessi protestare. Sembrava che fosse impossibile rimediare, e cominciavo a domandarmi cosa avrei potuto fare, se la capsula fosse finita nella fanghiglia del fondo, con il relitto sopra. La manovrabilità era molto scarsa. Con tutto quel peso in eccesso, forse non sarebbe bastato liberarmi della zavorra per poter risalire verso la superficie.
Non potevo spostare il mio peso in misura sufficiente per modificare la rotazione. Il diametro interno della sfera era inferiore ai due metri, e gran parte di quel volume era occupato da apparecchiature fisse.
Alcuni miei amici hanno la tendenza a risolvere i problemi non facendo niente fino all’ultimo momento. Io sono sopravvissuto a parecchi di loro. Quando notai la rotazione, impiegai cinque secondi a esaminare tutte le azioni possibili. Avrei potuto sganciarmi immediatamente dal relitto, rivelando la forma quasi sferica della capsula a chiunque mi stesse spiando con un buon sonar… sebbene fino a quel momento nessuno l’avesse fatto. Avrei potuto accendere le luci per vedere il fondo prima di andarvi a urtare, e magari separarmi in tempo dal relitto, se fosse stato necessario; ma anche quello non si adeguava all’idea della protezione mimetica. Potevo starmene buono e sperare di toccare fondo nell’assetto giusto, nonostante la rotazione… cioè, starmene lì senza far niente. E questo poteva significare che forse avrei dovuto vedermela con le leggi della natura, che sono più difficili da convincere della maggioranza degli avversari umani.
Le due prime possibilità significavano… be’, forse Bert e Joey e Marie erano ancora vivi. Tesi la mano verso l’interruttore dei riflettori.
Non lo toccai, però. All’improvviso, potei vedere egualmente il fondo.
O almeno, sembrava che fosse il fondo. Era nella direzione giusta (riuscivo ancora a distinguere l’alto e il basso), e sembrava piatto. Ed era visibile.

2

Non ci credetti, naturalmente. Io sono un tipo tradizionalista, e persino nella narrativa amo il realismo: e quello era veramente troppo. Non avevo mai finito di leggere L’abisso di Maracot, da ragazzo, perché descriveva un fondale oceanico luminoso. So che Conan Doyle non era mai stato laggiù, e la luce gli serviva per sviluppare la trama, che del resto non brillava per coerenza: ma la cosa mi dava fastidio. Sapevo che lo scrittore si sbagliava, lo sapevano tutti… il fondo dell’oceano non è luminoso.
Però lo era.
Il relitto roteante mi stava facendo oscillare verso l’alto, lontano dalla luce, e io ebbi il tempo di decidere se dovevo credere o no ai miei occhi. Riuscivo ancora a leggere gli strumenti. Il quadrante della pressione indicava una profondità di millequattrocentoquaranta metri; con una rapida correzione mentale, basata sulla registrazione del termometro, aggiunsi un’altra sessantina di metri. Dovevo essere certamente vicino al fondo, da qualche parte, sulle pendici settentrionali della montagna il cui picco costituisce Rapa Nui.
Oscillai dolcemente, roteando verso l’alto, e poi ridiscesi dall’altra parte, e la mia visuale si orientò di nuovo verso il basso. Indipendentemente dal fatto che volessi credere o no ai miei occhi, questi insistevano nel dirmi che c’era luce, in quella direzione. Era una fioca luminescenza verdegialla… esattamente quella che si usa negli effetti d’illuminazione per dare l’impressione d’una scena sottomarina. Dapprima mi parve uniforme: poi dopo qualche altra giravolta, circa sessanta metri più in basso, distinsi uno schema. Era formato di riquadri, con gli angoli un po’ più luminosi del resto. Non copriva interamente il fondale: l’orlo era quasi sotto di me, e si estendeva verso nord, mi pareva, sebbene la mia bussola non reagisse troppo bene alle giravolte. Nell’altra direzione c’era la tenebra normale, consolante e spaventosa… quella era abbastanza reale.
Accaddero due cose, quasi nello stesso istante. Divenne evidente che avrei toccato fondo molto vicino all’area illuminata, e divenne altrettanto ovvia la natura di quell’area. Quella seconda rivelazione mi colpì. Per tre o quattro secondi, rimasi così infuriato e disgustato da non riuscire a ideare un piano, e di conseguenza per poco non ci lasciai la pelle.
La luce era artificiale. Credetelo, se potete.
Mi rendo conto che per una persona normale è difficile. È già una brutta faccenda sprecare energia per illuminare uno spazio all’aperto, ma talvolta è una triste necessità. Ma consumarla per illuminare il fondo marino… ecco, come dico, per qualche istante fui troppo furioso per pensare con chiarezza. Il mio lavoro mi ha portato a contatto con gente poco preoccupata per l’energia, con gente che la rubava, e persino con gente che l’usava male: ma quella era una prospettiva del tutto nuova! Adesso ero sceso ancora di più, e vedevo ettari ed ettari di luce che si estendevano verso nord, est e ovest, fino a perdita d’occhio. Ettari ed ettari illuminati da cose sospese a pochi metri dal fondo piatto, cose visibili soltanto come punti neri al centro di aree leggermente più vivide. Se non altro, chi era responsabile di quella prodezza un po’ di senso dell’economia ce l’aveva: si serviva di riflettori.
Poi controllai l’indignazione: o fu la paura a farlo. Mi resi conto all’improvviso di trovarmi una dozzina di metri soltanto al di sopra delle luci. Non sarei sceso in mezzo a esse, ma un poco più a sud. Non potevo dire “a sud, al sicuro”. Non potevo dire “al sicuro”, perché la combinazione formata dalla prua della Pugnose e dalla mia capsula girava abbastanza lentamente da consentirmi di prevedere l’assetto in cui avrebbe toccato il fondo, ed era certo che l’estremità aperta dello scafo sarebbe finita in basso.
A parte il fatto che, stando sotto il relitto, non avrei potuto vedere nulla, era molto probabile che non avrei potuto neppure fare nient’altro… per esempio, risalire alla superficie. Questa volta afferrai i comandi.
Poiché il problema della mimetizzazione era fondamentale, i separatori utilizzavano molle, anziché cariche esplosive. Attesi che la rotazione portasse lo scafo tra me e la luce, e premetti il pulsante. La spinta fu così leggera da indurmi a chiedermi, per qualche secondo, se non mi sarei cacciato in un guaio anche peggiore. Poi la luce cominciò a filtrare dagli oblò che prima erano coperti dallo scafo, e quella preoccupazione finì. Le molle avevano allontanato la capsula dalla regione illuminata, e così potevo vedere la prua della Pugnose profilata contro la luminescenza. La separazione aveva rallentato leggermente la mia caduta, mentre il relitto era un po’ più veloce di me, adesso. Qualcosa, se non altro, andava secondo i piani: il relitto avrebbe toccato fondo per primo, e non avrei corso il rischio di restarci intrappolato sotto.
Naturalmente, non avevo previsto di vederlo toccare il fondale. E certo non mi sarei mai aspettato di vedere ciò che accadde quando lo toccò.
In generale, le distese pianeggianti del fondo marino tendono a essere piuttosto viscide. Lo chiamano fango a globigerine o fango a radiolari, ma comunque è fango. Potete trovare coralli e sabbia e altra roba compatta nelle acque poco profonde, e talvolta oneste rocce sui pendii, ma dove il fondale è pianeggiante, dovete aspettarvi un incrocio tra una normale fanghiglia e lo strato superiore di uno stagno. Quando vi cade qualcosa di duro e pesante, anche se scende dolcemente, non potete aspettarvi che il fondo lo regga bene. Qualche volta potete avere delle sorprese, ma non potete mai aspettarvi che qualcosa rimbalzi sul fondo marino.
La Pugnose non rimbalzò, questo devo ammetterlo, ma di certo non si comportò come doveva. Urtò la superficie illuminata a trenta o quaranta metri dal bordo, e a una distanza circa doppia da me. Potei vedere bene. Toccò il fondale, come avevo previsto, e affondò, come avevo pr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. NATI DALL’ABISSO
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. L’AUTORE. HAL CLEMENT. Creatore di mondi
  30. I RACCONTI DI URANIA
  31. PARTENOGENESI. di Alessandro Montoro
  32. 70 ANNI. DI URANIA (1952-2022). LA STORIA DEL. PREMIO URANIA
  33. Copyright