Perché Mussolini rovinò l'Italia
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Perché Mussolini rovinò l'Italia

(e come Draghi la sta risanando)

  1. 468 pagine
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Perché Mussolini rovinò l'Italia

(e come Draghi la sta risanando)

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Dal buio alla luce. Dal buio della guerra voluta da un Mussolini che non ha saputo né voluto fermarsi in tempo alla luce di un'alba sorta sull'Italia dopo l'interminabile notte della pandemia. Come di consueto, Bruno Vespa si muove su due piani, lo storico e il cronistico, mettendo a confronto i due momenti più drammatici della nostra storia.

Dopo la conquista dell'impero (1936), la popolarità di Mussolini era altissima, mentre Hitler era detestato dagli italiani e dallo stesso capo del fascismo. Ma la rottura con le democrazie occidentali per le sanzioni inflitte all'Italia durante la guerra d'Etiopia avvicinò sempre più il Duce al Führer, che avviò un'abilissima e fortunata opera di seduzione. Il primo risultato furono le leggi razziali del 1938, qui raccontate in pagine struggenti: la macchia più ignobile per un dittatore che, fino a poco prima, si era erto a difensore degli ebrei dalle persecuzioni naziste. Il nostro paese non era pronto alla guerra, ma l'occupazione tedesca di mezza Europa, tra l'autunno 1939 e la primavera 1940, convinse Mussolini a entrare in un conflitto che doveva durare qualche settimana e si protrasse, invece, per cinque atroci anni. I disastri iniziali in Francia e in Grecia furono il prologo delle disfatte in Africa e in Russia, qui narrate in dettaglio, dall'epopea della Folgore a El Alamein allo sterminio dei soldati italiani nella ritirata del Don. L'esito finale fu la congiura di militari, gerarchi e monarchia che portò alla caduta e all'arresto del Duce (25 luglio 1943), con una trama da thriller.

Vespa descrive queste vicende come un cronista al fronte e, con lo stesso spirito, affronta la tragedia della pandemia. E ritrae un paese con oltre 130.000 morti, dissestato nell'economia e negli equilibri sociali, che si sta risanando più in fretta delle altre nazioni d'Europa grazie alla poderosa campagna vaccinale e agli stimoli finanziari europei gestiti da Mario Draghi, l'italiano più accreditato al mondo, e da una maggioranza di unità nazionale formata da partiti divisi su quasi tutto, ma costretti a stare insieme dall'emergenza.

Pagina dopo pagina, si dispiegano i retroscena della caduta di Giuseppe Conte e la nascita del governo Draghi, le incessanti fibrillazioni del Movimento 5 Stelle (su cui Grillo non rinuncia a regnare), la nuova vita del Pd (con Letta che, forte della vittoria nelle amministrative d'ottobre, punta a palazzo Chigi), la ritrovata unità del centrodestra (dove un Berlusconi ritemprato dall'ennesima assoluzione cerca di mettere pace tra Salvini e la Meloni, feriti dalle sconfitte elettorali e dalle vicende Morisi e Fidanza - qui ricostruite con particolari inediti - ma determinati a vincere insieme le elezioni ed essere decisivi nella scelta del nuovo presidente della Repubblica).

E per finire, scienziati famosi ci spiegano come dovremo convivere con il Covid-19 che, a colpi di vaccini, sarà presto ridotto alla stregua di un comune virus del raffreddore.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
ISBN
9788835713968
Argomento
History
VIII

Colpo di Stato, tra generali e Corona

L’inizio della fine

«Nel tardo pomeriggio del Capodanno 1943 Mussolini andò in incognito a visitare la sua amica Angela Curti, che abitava in via Porpora, nella zona dei Parioli. In abito civile, col bavero del pastrano rialzato e il cappello floscio calato sul volto, sfuggì al controllo del portinaio. Rimase a conversare con l’amica per un’ora, allo scopo dichiarato di distendere i nervi. Non nascose le sue preoccupazioni per le vicende militari, ma si disse fiducioso nella potenza degli eserciti tedeschi. Dichiarò che, nel momento in cui la situazione era sfavorevole, non si sentiva di scaricarsi delle responsabilità, lasciandole ai generali. Sarebbe stata una viltà, una fuga. Egli cercava un momento di quiete presso la donna che, a differenza di Claretta, viveva ritirata e non suscitava clamori o clientele intorno a sé. Naturalmente, Claretta aveva intuito la presenza di questa rivale e manifestava una disperata gelosia.» Così Giorgio Pini e Duilio Susmel in Dall’Impero alla Repubblica, ultimo volume della loro corposa biografia del Duce.
Angela era l’amante più fedele e discreta di Mussolini. («Tu sei il mio riposo» le diceva Benito.) Figlia di un socialista della prima ora, amò il Duce prima che lo diventasse e, proprio nell’anno della marcia su Roma, nel 1922, gli diede probabilmente una figlia, Elena, che lo avrebbe seguito fino a Salò.
Non sappiamo quanto Mussolini s’illudesse sulle sorti della guerra. Certamente non immaginava che il 25 luglio era già programmato.
Il 1° giugno 1944, a cose ormai avvenute da tempo, Vittorio Emanuele III scrisse al ministro della Real Casa, il duca Pietro Acquarone: «Fin dal gennaio del 1943 io concretai definitivamente la decisione di porre fine al Regime fascista e di revocare il Capo del Governo, Mussolini … L’attuazione di questo provvedimento, resa più difficile dallo stato di guerra, doveva essere minutamente preparata e condotta nel più assoluto segreto, che venne da me mantenuto anche con le poche persone che vennero a parlarmi del malcontento del paese». Il re vergò queste righe quando Roma stava per essere liberata dagli americani e lui era ormai costretto a cedere al figlio Umberto II la luogotenenza. La data, dunque, è assai sospetta e c’è la sensazione che il re abbia voluto difendersi a futura memoria. Agli atti ci sono le molte visite e le molte lagnanze ricevute da Vittorio Emanuele, ma nessun passo che facesse intuire la sua decisione di sostituire Mussolini. Lo fece, infatti, solo dopo che il capo del governo fu sfiduciato dal massimo organo costituzionale del regime, il Gran Consiglio del fascismo.
Il fascismo era una dittatura sui generis, e si capisce perché Hitler non si capacitava che Mussolini dovesse rispondere al re. Come ricorda l’accademico e partigiano Gianfranco Bianchi in 25 luglio. Crollo di un regime, il capo del governo era ministro del re, nelle cui mani aveva giurato. Anche dopo le leggi «fascistissime», «spettava alla Corona il controllo politico sull’attività del Capo del Governo in rapporto alle esigenze del Paese (e non viceversa); non poteva il Capo del Governo restare in carica, ove si dissociasse il proprio indirizzo politico da quello della Corona». Insomma, il fatto che Vittorio Emanuele si fosse accucciato per vent’anni ai piedi di Mussolini non scalfiva le sue prerogative costituzionali. E il Duce, come dimostrò dopo la notte sul 25 luglio, ne era perfettamente consapevole.
Mussolini, anche se mai lo ammise con altri, capì di aver perso la guerra nell’autunno del 1942, dopo i rovesci russi e africani e l’intensificarsi dei bombardamenti sulle città italiane. E già a settembre di quell’anno gli americani stavano verificando l’atteggiamento di alcuni ambienti italiani meno favorevoli al fascismo, in vista di un cambio di regime. Myron Taylor, rappresentante personale di Roosevelt presso Pio XII, si recò a Roma per dire al papa – attraverso il direttore del­l’«Osservatore Romano», Giuseppe Dalla Torre – che gli Alleati erano certi di vincere la guerra. Meglio, dunque, per il pontefice evitare inutili mediazioni. Sarebbe stato gradito, al contrario, qualche intervento perché l’Italia rompesse «in modo ragionevolmente sicuro» le relazioni con la Germania. Ipotesi, evidentemente, poco realistica. E infatti Taylor non venne avvicinato da nessun membro della famiglia reale (a parte un’iniziativa personale di Maria José) per sondare la possibilità di far uscire l’Italia dal conflitto, la qualcosa lo amareggiò.
In quel periodo Mussolini stava malissimo (la famosa ulcera, e non solo) e si assentava frequentemente da Roma per riposare alla Rocca delle Caminate. «Il volto grigio, cinereo» scrive Bottai nel suo diario il 7 ottobre 1942. «Le guance tirate, la bocca atteggiata a un senso di amarezza, accusano chiaramente il male che correva voce l’avesse ripreso. La vecchia ulcera! O l’ameba?» In realtà, spiega Renzo De Felice nell’introduzione al libro di Dino Grandi 25 luglio quarant’anni dopo, cause cliniche della malattia erano una gastrite atrofica, nemmeno troppo grave, e una modesta infezione amebica, contratta durante il suo soggiorno in Africa. «Ma ad aggravarle concorrevano però massicciamente le sue condizioni psicologiche.»

La prudenza del re e il ruolo di Maria José

Se collochiamo Mussolini al centro di un bersaglio, gli aspiranti tiratori provenivano da tre mondi: monarchico, militare, politico.
La parte monarchica vede muoversi nella tarda estate del 1942 Aimone d’Aosta. Racconta De Felice in Mussolini l’alleato, sulla base di documentazione angloamericana dei primi decenni del dopoguerra, che in Svizzera il duca fece sapere agli inglesi di essere pronto a mettersi alla testa di un’azione militare per abbattere il fascismo (cercando di coinvolgere anche il principe Umberto), a condizione che gli Alleati s’impegnassero a sostenerla con un appoggio aereo e con uno sbarco di truppe, a non richiedere la consegna della flotta e a mantenere la monarchia. Vittorio Emanuele non ne sapeva nulla, e nulla sapeva dell’iniziativa di Maria José, moglie di Umberto, che contattò a sua volta Taylor invitandolo a trattare la pace non con i voltagabbana fascisti, ma con gente nuova. Le sarebbe piaciuta una mediazione ecclesiastica, ma il re aveva già fatto capire che non voleva il Vaticano tra i piedi.
Vittorio Emanuele di Savoia, figlio di Umberto e di Maria José, si è detto dispiaciuto del fatto che in Perché l’Italia amò Mussolini abbiamo riportato un brano del diario di Claretta Petacci che riferiva di presunte, maliziose avance della principessa al Duce nella tenuta reale di Castelporziano. Vittorio Emanuele smentisce che sia avvenuto quanto scritto dalla Petacci e ricorda l’impegno antifascista della madre. Ora, se il cronista non può ignorare le pagine, anche comprensibilmente sgradevoli, di un diario d’autore, dà qui atto senza difficoltà di un atteggiamento antifascista di primissima caratura dell’allora principessa, riconosciuto anche dagli studi più recenti, da La regina incompresa di Luciano Regolo a Le signore del fascismo di Marco Innocenti, dopo quelli dello stesso De Felice, di Gianfranco Bianchi e di altri.
Fin dal 1942 Maria José prese contatto con illustri esponenti dell’antifascismo come Ivanoe Bonomi, Alcide De Gasperi, Luigi Einaudi, Adriano Olivetti, Raffaele Mattioli. (Se si può aprire una parentesi sulla differenza tra il fascismo e le altre dittature novecentesche, gli antifascisti che abbiamo citato erano liberi di muoversi e anche di cospirare, sia pure con la necessaria prudenza, e l’Ovra non era così cieca da non saperlo.) Secondo Bonomi (Diario di un anno), Maria José fece addirittura da catalizzatore dei vari gruppi antifascisti: aristocrazia senatoria e intellettuale, ambienti economici e militari, politici del primo Comitato delle forze antifasciste, fino al Vaticano, dove teneva i contatti con monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, che era il più stretto e illuminato collaboratore di Pio XII.
Nell’estate del 1942 la principessa aveva visto in Piemonte Luigi Einaudi e aveva sondato Pietro Badoglio, riscontrando nel maresciallo prudenza e freddezza. Nell’aprile 1943 (e siamo a tre mesi dalla caduta del regime) organizzò un incontro tra il generale Enrico Caviglia e Badoglio, ma il primo odiava il secondo senza remissione. Non solo il colloquio fallì, ma Caviglia rifiutò di partecipare a una sorta di pronunciamento dei cavalieri della Santissima Annunziata, legati in qualche modo all’opposizione (Badoglio, Bonomi, Caviglia, Vittorio Emanuele Orlando, il grand’ammiraglio Thaon di Revel e il marchese Guglielmo Imperiali), perché non voleva avere nulla a che fare con Badoglio. Il quale era già di suo un pezzo di ghiaccio: quando nella primavera del 1943 lo incontrò Giuseppe Spataro, uno dei cattolici democratici più in vista, gli disse che senza un ordine del re non avrebbe mosso un passo. E poiché il re aveva paura dei fascisti e, soprattutto, dei tedeschi…
Il militare che nei mesi decisivi De Felice considera più serio e affidabile è Vittorio Ambrosio, dal 31 gennaio 1943 capo di Stato maggiore generale. Già nell’autunno precedente, quando era capo di Stato maggiore dell’esercito, Ambrosio capì che si sarebbe dovuta trovare una soluzione drastica. Un suo appunto del 4 dicembre 1942 recita: «Visto Bonomi; proposta Badoglio; abdicazione SM; il principe; armi; Cavallero». Le cose non sono necessariamente collegate. Il generale Ugo Cavallero sarebbe stato sostituito da Ambrosio all’inizio dell’anno successivo. Le armi erano quelle che si progettava di togliere alla Gioventù italiana del littorio. Di abdicazione di Vittorio Emanuele non si sarebbe parlato per un pezzo. E Badoglio era il solito Badoglio: seduto a tavola, aspettava che qualcuno gli servisse il pranzo.
Ricevuto dal re il 27 febbraio 1943, Badoglio gli disse in sostanza che una guerra è persa quando viene fatta per chiudersi in poche settimane e, poi, dura molto a lungo. «Inoltre, quando il Paese è contro la guerra, la guerra è perduta. Ogni mese noi scendiamo un gradino verso la disfatta.» «Anch’io sono della sua opinione» gli rispose Vittorio Emanuele, guardandosi però bene dal parlargli di rimedi.
Nel suo libro, il più documentato sul 25 luglio, Bianchi rivela che Pio XII, anche su pressione del potentissimo arcivescovo di New York, Francis Spellman, in visita a Roma, avrebbe incontrato in segreto Mussolini «per fornirgli informazioni che lui, come belligerante e per la posizione ideologica dell’Asse, non poteva aver avuto da altra fonte. Non se ne fece nulla».
Il 6 marzo 1943 Acquarone disse al Duce che il re era «deciso a cambiar rotta», mentre il generale Puntoni, aiutante di campo del sovrano, annota nelle sue memorie al 13 marzo, dopo un’udienza di Ambrosio al Quirinale: «Ambrosio dice che sarebbe opportuno costringere il Duce a ritirarsi per lasciare il posto a uomini nuovi e per lui l’uomo nuovo è Badoglio. “Mussolini” dice Ambrosio “è ormai nelle mani di Hitler e per lui quel che conta è salvare il fascismo”».
Naturalmente, la polizia sapeva tutto. Ed era al corrente di chi entrava al Quirinale e chi ne usciva. Sia Ambrosio sia Badoglio avevano tutti i titoli per riferire al re, ma nemmeno l’infittirsi del «rumor di sciabole» sembrò insospettire più di tanto palazzo Venezia.

Mussolini non ottiene nulla da Hitler

Alla fine del gennaio 1943 il Duce sostituì Cavallero perché lo considerava ormai troppo legato ai tedeschi e agli elementi più oltranzisti del regime, come Roberto Farinacci. Lo stesso Enno von Rintelen, addetto militare tedesco a Roma, nelle sue memorie riconosce che gli ambienti militari italiani gli serbavano rancore per la sua arrendevolezza nei confronti dell’OKW (Oberkommando der Wehrmacht), il Comando supremo tedesco. E per aver disperso tutte le unità italiane sui vari teatri di guerra, l’Africa, i Balcani, la Francia e la Russia, cosicché per la difesa della madrepatria non rimanevano che poche e male armate divisioni.
Mussolini riteneva, inoltre, che Cavallero gli addolcisse le pillole più amare. Meglio uno come Ambrosio, che almeno raccontava le cose come stavano, anche se molto sgradevoli. «Non è un fulmine di guerra» diceva di lui Ciano «ma poiché nelle condizioni attuali nemmeno un Bonaparte potrebbe fare miracoli, conta che alla testa delle Forze Armate ci sia un italiano, un patriota che vede con occhi sinceri la realtà.» E la realtà per Ambrosio era questa: occorreva richiamare in Italia le truppe sparse per l’Europa e concentrarle nella difesa di Roma, in vista di uno sganciamento dalla Germania. Naturalmente, la cosa andava fatta gradualmente, per non insospettire l’alleato.
Il cambio ai vertici delle forze armate faceva parte di un ampio rimpasto di governo al quale il Duce era stato da tempo sollecitato. Non fu un rimpasto autoritario, se si pensa che al posto di Dino Grandi come ministro della Giustizia andò un giurista autorevole e moderato come Alfredo De Marsico («Andai da Mussolini e gli presentai il mio programma di ministro in tre righe. Nessun favore ai fascisti, nessuna persecuzione agli antifascisti. Sarò il Ministro dello Stato e non del Regime» raccontò, come riporta Bianchi nel suo libro). Giuseppe Bottai fu sostituito all’Educazione nazionale da Carlo Alberto Biggini, docente di Diritto costituzionale e rettore dell’università di Pisa, che avrebbe seguito Mussolini a Salò con lo stesso ruolo, proteggendo il rettore comunista di Padova Concetto Marchesi, non richiedendo ai professori il giuramento di fedeltà alla Repubblica sociale e tutelando parecchi antifascisti.
La sostituzione più clamorosa fu quella di Ciano agli Esteri, il cui portafoglio fu ripreso da Mussolini. Il Duce ricevette il genero nel pomeriggio del 5 febbraio 1943, gli annunciò il licenziamento e gli disse di scegliere fra tre opzioni: viceré d’Albania, ambasciatore a Berlino (lui, che detestava i tedeschi) o ambasciatore presso la Santa Sede. Ciano era sconvolto, ma si affrettò immediatamente a procurarsi le credenziali vaticane.
Nell’ultima pagina del suo diario – 8 febbraio 1943 – parla della visita di congedo da Mussolini. «L’avvenire tuo è nelle mie mani» gli disse il Duce «e per questo ti puoi considerare tranquillo.» E aggiunse: «Se ci avessero lasciato tre anni di tempo, avremmo potuto fare la guerra in condizioni ben differenti o forse non sarebbe stato necessario farla». E alla sua richiesta se avesse tutti i documenti degli Esteri in ordine, Ciano rispose: «Sì, li ho tutti in ordine e ricordatevi, quando verranno le ore dure perché è ormai certo che le ore dure verranno, che io posso documentare uno dopo l’altro tutti i tradimenti perpetrati dai tedeschi ai nostri danni, dalla preparazione del conflitto alla guerra alla Russia, comunicataci quando le truppe avevano già varcato il confine. Se ne avrete bisogno, vi darò io gli elementi o meglio ancora preparerò in ventiquattr’ore quel discorso che da tre anni ho nel gozzo e che se non lo pronuncio scoppio. Mi ha ascoltato in silenzio e quasi d’accordo». Meno di sei mesi dopo, Ciano lo avrebbe tradito e il Duce l’avrebbe fatto fucilare.
Il 7 aprile Hitler e Mussolini s’incontrarono a Klessheim, nel castello dei principi vescovi di Salisburgo. Il Duce stava malissimo e trascorse nel suo appartamento, assistito dal medico personale Arnaldo Pozzi, tutto il tempo disponibile tra un colloquio e l’altro. Fallì i tre obiettivi che si era proposto: pace separata con la Russia, rinuncia a nuove operazioni sul fronte orientale, rassicurazione ai paesi minori – corteggiati dagli angloamericani – sul loro futuro in caso di vittoria dell’Asse. «Vincere contro la Russia mi sembra impossibile» disse Mussolini. «È perciò meglio concludere una pace di compromesso in Oriente, per avere mano libera contro l’Occidente.» (Scrisse nel suo diario Joseph Goebbels, ormai numero due del regime nazista: «Sembra malato e debole, dà l’impressione di essere stanco e disfatto. Il Führer non può che averne compassione. Il suo esercito lo sta imbrogliando dove può ed egli non ha nessuno su cui poter contare sinceramente».)
Rintelen, presente all’incontro, aggiunge una nota sottile sulle difficoltà del Duce con Hitler: «In conversazioni a quattr’occhi – senza testimoni e senza interprete – Mussolini si trovava in condizioni di svantaggio, non essendo perfettamente padrone della lingua tedesca. Io stesso ho sempre parlato in italiano con lui, per essere certo di una completa comprensione». I pericoli della vanità.
A metà maggio, quando Tunisi fu occupata dagli anglo-­americani, gli italiani sapevano che quella era l’ouverture di un’opera che avrebbe portato gli Alleati in Italia. Lo sapevano anche i tedeschi, al punto che, secondo Rintelen, lo stesso Hitler temette allora l’abbandono dell’alleanza da parte nostra, prendendosela con la Corona e con i generali italiani «ai quali [il Führer] voleva ancora meno bene che ai generali tedeschi». Scrisse, dunque, una lettera durissima a Mussolini, in cui accusava apertamente gli alti gradi italiani di intelligenza con il nemico. Rintelen chiese se davvero doveva portare al Duce una reprimenda così pesante e, quando vi fu costretto, racconta di una dignitosa risposta in cui Mussolini si assumeva ogni responsabilità di quanto accadeva in campo militare. «Alle Forze armate italiane» scrive l’addetto militare tedesco «era stata spezzata la spina dorsale. L’esercito agonizzava. Le migliori divisioni erano state perdute in Tunisia, sotto i colpi dell’annientamento e della disfatta in Russia. La madrepatria era pressoché sguarnita di truppe. Quarantasei deboli divisioni stavano nei Balcani e nella Francia meridionale, inadeguatamente armate e mal rifornite. In Sicilia si trovavano quattro divisioni, in Sardegna e in Corsica altre quattro. Nella penisola altre dodici divisioni di riserva. Il ritorno in efficienza dei reparti venuti giù dalla Russia era ancora prevedibilmente lontano. Solo la divisione corazzata M della Milizia, che secondo il consiglio di Himmler doveva servire in prima linea alla difesa del regime fascista, venne ricostituita e riarmata a nord di Roma con l’aiuto delle SS
Heinrich Himmler era il capo delle SS e l’organizzatore della «soluzione finale» contro gli ebrei. Sapendo quanto montasse il risentimento degli italiani nei confronti del Duce, suggerì e in parte finanziò il rafforzamento di un reparto pretoriano a tutela della sua persona. Mario Roatta, capo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Dalla luce al buio. Due guerre e un dopoguerra
  4. Perché Mussolini rovinò l'Italia
  5. I. Come Hitler sedusse Mussolini
  6. II. Hitler re di Roma, Mussolini vincitore a Monaco
  7. III. La lucida follia delle leggi razziali
  8. IV. E il Duce s’impiccò al «patto d’acciaio»
  9. V. «Popolo italiano, corri a combattere!»
  10. VI. Africa, tragica illusione
  11. VII. Italiani: eroi in Russia, pavidi in Sicilia
  12. VIII. Colpo di Stato, tra generali e Corona
  13. IX. Quando Renzi vinse la scommessa mai fatta
  14. X. Mario Draghi, un banchiere per l’Italia
  15. XI. Salvini e la Lega di lotta e di governo
  16. XII. Meloni, i vantaggi dell’opposizione Berlusconi, Cavaliere superstar
  17. XIII. La nuova vita del Pd, le sofferenze dei 5 Stelle
  18. XIV. 130.000 morti. Poi l’alba alla fine della notte
  19. Post scriptum. E al Quirinale?
  20. Appendice
  21. Volumi citati
  22. Copyright