Come foglie al vento
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Come foglie al vento

  1. 324 pagine
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Come foglie al vento

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Lo struggente racconto di un nonno ai nipotini è l'occasione per ripercorrere i giorni drammatici delle persecuzioni contro gli ebrei veneziani, in una testimonianza in cui il ricordo personale si alterna ai documenti e agli avvenimenti pubblici dell'epoca, e che restituisce non solo la storia di quegli anni, ma anche il senso di straniamento e incredulità delle vittime della Shoah.

Proprio come le foglie al vento, anche le donne e gli uomini evocati nel racconto sono travolti da una forza superiore, violenta, incomprensibile, e da un orrore inimmaginabile. Molte cose, infatti, fino alla fine della Seconda guerra mondiale, non si sono sapute, e anche quello che si sapeva era troppo terribile per essere creduto, e chi ha vissuto in quegli anni ha preso coscienza di quella tragica realtà a poco a poco, tra incertezze e contraddizioni.

Riccardo Calimani, uno dei massimi studiosi ed esperti di Venezia e della storia degli ebrei italiani, fonde in questo libro la dimensione privata con quella storica, e dà vita così a una affascinante memoria famigliare e nello stesso tempo a una ricostruzione rigorosa e densa degli anni più terribili del Ventesimo secolo.

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Informazioni

Parte prima

A VENEZIA

1

La pietra di inciampo

«Nonno» mi chiede Caterina, undici anni, «perché nella nostra calle, davanti a quel portone tutto rovinato, hanno messo lì per terra, tra le pietre, quella piccola placca che sembra d’oro?»
«È una lunga storia. Se hai pazienza, te la racconto tutta.»
«Non ho pazienza, io» dice Alessandro, otto anni. «Ma se è breve, raccontala anche a me.»
«Quella pietra, che sembra d’oro, è una pietra che viene chiamata “d’inciampo”. Serve a far inciampare i nostri pensieri, ad attirare la nostra attenzione, a costringerci a ricordare. Posso cominciare dall’inizio?»
«Tutte le storie devono cominciare dall’inizio» fa notare Alessandro, con la solita impazienza e con un sorrisetto di saccente ironia.
«Prima di continuare, permettetemi di mettere in evidenza una questione importante.
Negli anni dal 1938 al 1945 non eravamo a conoscenza di tutto ciò che sappiamo adesso a proposito della guerra, delle persecuzioni, dello sterminio. Quello che è realmente accaduto, oggi lo conosciamo bene, ma a quel tempo superava la nostra capacità di immaginazione.
Anche chi ha vissuto in quegli anni ha preso coscienza di quella tragica realtà a poco a poco, tra incertezze e contraddizioni.
Con il senno di poi sarebbe facile esprimere giudizi, ma a quel tempo non solo si sapeva poco o nulla, ma neanche si poteva immaginare lo scenario che, dopo la fine della guerra, si sarebbe rivelato in tutta la sua tragicità.»
2

Nati nel ghetto

«Voi avete due genitori, quattro nonni e ben otto bisnonni.»
«Così tanti i bisnonni?» domanda Alessandro, stupito.
«Ogni nonno ha due genitori. I genitori dei genitori raddoppiano il numero complessivo degli antenati, e i genitori dei bisnonni sono il numero doppio dei bisnonni: una catena sempre più numerosa. Vi rendete conto che, per arrivare a voi, nel corso di secoli, la strada è stata lunga, lunghissima? Adesso vi racconto una storia che ha come protagonisti due vostri bisnonni. Spero che anche gli altri tre nonni, seguendo il mio esempio, vi raccontino altre storie, non meno interessanti, sulla vostra famiglia.
Angelo, il mio papà, è nato nel 1915. Fausta, la mia mamma, è nata nel 1919. Sono passati più di cento anni. Il papà è morto nel 2012, a novantasette anni, e la mamma nel 2014, a novantacinque. Hanno avuto una vita lunga e, dopo la Seconda guerra mondiale, abbastanza serena. Sono stati genitori eccellenti e io li ho amati molto. Il loro ricordo sia per me, e per voi, una benedizione.
Quando il fascismo conquistò il potere in Italia, il papà aveva sette anni e la mamma tre. Questo per dirvi che hanno passato la loro giovinezza quando già i fascisti dominavano la scena politica con prepotenza e violenze quotidiane. Per loro vivere, anzi sopravvivere – erano molto poveri, in quel tragico momento politico, e soprattutto negli anni successivi – fu molto difficile.»
«Che cos’è il fascismo?» vuole sapere Caterina.
«Per dirla in poche parole: il fascismo è stato un movimento politico che si impose, nel 1922, con metodi violenti contro gli oppositori. Distrusse la democrazia e i partiti politici in Italia usando la violenza contro chi cercava di resistere. Oggi, guardando i filmati di quegli anni, i fascisti sembrano dei veri pagliacci, ma in realtà, al di là del ridicolo che suscitano, non bisogna dimenticare che provocarono tante tragedie in Italia e in molti altri luoghi dove portarono guerra e distruzione, persino nella lontana Africa.
Il fascista Benito Amilcare Andrea Mussolini, dall’eloquenza roboante, quasi comica, se non fosse stata delinquenziale, finì per allearsi con Hitler, il dittatore nazista, e portò l’Italia in guerra e alla rovina. E prima di questa scelta, già gravissima, si imbarcò in avventure coloniali tragiche e sanguinose in Africa contro popolazioni indigene in molti casi quasi indifese. Voleva un impero e si macchiò di orribili delitti. Uomini, donne e bambini furono sterminati da armi letali, dall’uso di gas tossici, e tutto a causa di una mania di grandezza criminale. Non dobbiamo dimenticarlo. Mai.»
«E il nazismo?» chiede Caterina.
«È stato un movimento politico nato in Germania in un periodo di grande crisi economica che creò una sanguinaria e spietata dittatura e portò morte e distruzione nell’intera Europa. Milioni di persone soffrirono a causa di un’aggressiva politica di sopraffazione e molti, ebrei e non ebrei, cittadini di diversi Paesi europei, persero la vita durante la Seconda guerra mondiale.»
«I tuoi genitori erano fascisti, da giovani?» domanda Caterina.
«No. Il mio papà non è mai stato fascista, neanche da ragazzo. Eppure avrebbe dovuto partecipare alle manifestazioni di propaganda organizzate dal regime e dedicate ai giovani. Era un obbligo. Tutti gli adolescenti dovevano frequentare scuole dove il regime faceva propaganda e cercava di educare anche i più piccoli a obbedire, credere, combattere: queste erano le parole d’ordine più usate. Lui però si rifiutò sempre di partecipare alle manifestazioni organizzate dalle scuole e faceva disperare Eugenio, il suo papà, perché non solo non voleva studiare, ma voleva un tavolo da lavoro da falegname. Gli piaceva costruire con le mani e non voleva mai obbedire a nessuno, neanche ai fascisti. Era una ribellione, la sua, frutto dell’istinto piuttosto che di una decisione politica meditata.
«Anch’io non voglio mai obbedire» interviene Alessandro. «Non credo a nessuno e sono pronto a combattere. Vuoi giocare? Facciamo la lotta?»
«Non posso fare la lotta adesso e raccontarti, nello stesso tempo, una storia vera e importante. La lotta la faremo in un altro momento.»
«E poi?» Caterina è impaziente.
«Il mio papà rimase orfano a quindici anni. Purtroppo suo padre era un fumatore accanito: accendeva una sigaretta dopo l’altra senza interruzione. Quando morì, Angelo aveva quindici anni, e la famiglia – i tre figli (Angelo, Emilio ed Emilia) e la vedova – si ritrovò a darsi da fare per sopravvivere.
Eugenio era stato hazan, un cantore di sinagoga, molto apprezzato; aveva una bella voce e cantava le preghiere ebraiche con grande solennità. Come sapete, noi Calimani abbiamo una bella voce. Era anche un maestro di scuola. Io non l’ho mai conosciuto, ma mi hanno raccontato che durante le funzioni in sinagoga era capace di chiudere bruscamente il libro di preghiere e restare immobile se qualche partecipante alle cerimonie parlava con un tono di voce troppo alto. Dopo aver ottenuto il silenzio completo, ricominciava a pregare. Nel dialetto ebraico veneziano questi scoppi d’ira improvvisi, ma ben motivati, hanno un nome: calimanada, perché considerati tipici della famiglia Calimani.»
«Le preghiere sono noiose, anche quelle cantate in ebraico» afferma Alessandro con tono sicuro, e Caterina annuisce convinta.
«Sono d’accordo con voi. Nelle preghiere vengono ripetute le stesse formule, ma, recitate in lingua ebraica, o anche in latino nel mondo cristiano, con una cantilena particolare, si trasformano in una misteriosa melodia e diventano una consuetudine che molti giudicano piacevole. Possono accarezzare l’anima.
Mia nonna paterna si chiamava Giuseppina Foà, detta da tutti Amelia, e aveva cinque sorelle. La ricordo piccola, fragile, con una pelle bianchissima e i capelli sempre pettinati con eleganza. Quando ero bambino abitava in casa con noi; poi, negli ultimi anni, si ritirò in una casa di riposo ebraica nel Ghetto Novo, che era ben tenuta, ma dove l’ambiente, pur confortevole, non era proprio allegro. Quando andavo a farle visita ne ricavavo un’impressione triste.
Il mio nonno materno si chiamava Giacomo Brandes. Era un venditore ambulante che partiva con un treno ogni mattina presto verso i paesetti del Veneto con due valigie piene di biancheria da vendere nelle campagne.
Ancora agli inizi del Novecento, gli ebrei più poveri abitavano in ghetto, in condizioni di continua difficoltà economica. Vivevano in quelli che venivano chiamati i “grattacieli del ghetto”, e che arrivavano in qualche caso anche a nove, dieci piani, una vera singolarità per Venezia; vi erano anche case molto spaziose. Dopo l’apertura dei cancelli alla fine della Repubblica, nel 1797, solo una minoranza di ebrei aveva lasciato il quartiere di Cannaregio e aveva trovato casa a Rialto e a San Marco, in quartieri più eleganti. Gli ebrei veneziani si dividevano, tradizionalmente, in due categorie: quelli di “su”, che abitavano lontano dal quartiere ebraico, e quello di “giù”, che vivevano nell’antico quartiere ebraico. I gnassirim (i ricchi) abitavano in zona Rialto e San Marco.»
«Cosa vuol dire gnassirim?» domanda Alessandro.
«È una parola mista di ebraico e veneziano. Mio papà e mia mamma parlavano anche questo dialetto tipico degli ebrei veneziani: se volete un giorno vi darò qualche esempio. Io non lo parlo più, ma lo capisco.
Tutti i miei nonni hanno sempre abitato nel ghetto.
Il primo della mia famiglia nato fuori dal ghetto, dopo cinque secoli, tre di segregazione e due a porte aperte, sono stato io. Mi considero un figlio della Liberazione, se pensate che ho visto la luce nove mesi dopo il 25 aprile 1945: il 20 gennaio 1946.
Fortunato? Molto.
Mio nonno Brandes era magro, di bassa statura. Durante gli anni della Prima guerra mondiale, poiché era apolide, lo mandarono al confino in Sardegna.»
«Apolide? Cosa vuol dire?» chiede Caterina.
«Non aveva la cittadinanza italiana, era senza patria. Suo nonno Mendel Moses Leib Hirsch era arrivato in Veneto nel 1870, probabilmente con le truppe austriache: risulta che fosse un artigliere appartenente al tredicesimo Comando. Qui Mendel Moses si sposò e non tornò più nel villaggio da dove proveniva, che si chiamava Brandes, vicino a Brody, una cittadina della Galizia austriaca. Abbandonò il nome Hirsch e tenne Brandes. Suo figlio Riccardo era il papà di mio nonno Giacomo. A Giacomo fu offerta la cittadinanza italiana se fosse andato a combattere contro gli austriaci. Il nonno accettò, lasciò la Sardegna e andò in prima linea. Tornato dal fronte alla fine della guerra sposò Alba Todesco, figlia di una Ottolenghi, un’ebrea del ghetto, ed ebbe quattro figli. Fausta, la più piccola, è la vostra bisnonna. Tutti askenaziti.»
«Nonno» chiede Alessandro, «che cosa vuole dire askenaziti?»
«Provo a darti una risposta. Askenaziti significa che erano tutti provenienti dal centro dell’Europa. Brandes, Todesco, Ottolenghi (cognome che deriva da un paesetto austriaco, Ottlinghen, anche se non so se sia la grafia giusta).»
«Da dove vengono i cognomi delle famiglie?»
«Molti vengono da lontano e hanno una lunga storia. Altri sono piuttosto recenti e legati al lavoro svolto da qualche antenato. Nel caso degli ebrei, molto spesso indicano la provenienza geografica degli antenati, che magari venivano da Paesi lontani.
In Austria, alla fine del Settecento, l’imperatore austroungarico volle che tutti, anche i suoi sudditi ebrei, avessero un cognome. Se erano poveri si chiamavano Roth, Weiss, Schwarz, cioè Rosso, Bianco, Nero, o simili. Se avevano qualche soldo comperavano un cognome quasi da nobili, si fa per dire: Wiesenthal, valle dei prati; Apfelbaum, albero di mele; Birnbaum, albero di pere; Goldberg, montagna d’oro, e così via. Si distinguevano dagli altri proprio per i loro cognomi, spesso troppo pomposi. Arthur Schnitzler, il famoso scrittore viennese, ebreo, li prese in giro, con il suo consueto garbo, in un bel libro dal titolo Verso la libertà.
In Italia, il cognome di molti ebrei è il nome di una città: Ravenna, Ferrara, Voghera, Perugia, Guastalla, Conegliano, o di un piccolo paese dell’Italia soprattutto centrale o del Lazio.»
«E il nostro cognome Calimani sai da dove viene?»
«Lo so. Vuoi che ti racconti anche la storia, almeno in breve?»
«Sì.»
«A Venezia, nei primi anni del Cinquecento, è arrivato da Treviso un uomo di nome Calimano che scappava da Treviso, definito in un documento “homo bono et honesto”.
I Calimani sono stati tra i primi a entrare nel ghetto di Venezia, che nel 1516 le autorità della Serenissima Repubblica avevano deciso di istituire. Per quasi cinque secoli hanno vissuto nei tre ghetti, il Ghetto Novo il primo, il Ghetto Vecchio il secondo, il Ghetto Novissimo il terzo.»
«Perché era scappato da Treviso?»
«In quegli anni il Veneto venne invaso da eserciti nemici che attaccarono la Repubblica di Venezia. Francesi, austriaci e uomini del Papa di Roma si erano tutti alleati contro Venezia. Allora molti profughi si rifugiarono nella città lagunare per sfuggire agli eserciti nemici e, tra questi, il Calimano, la cui famiglia, cacciata dalla valle del Reno intorno al 1350, dopo la famosa epidemia causata dalla peste nera, arrivò prima a Bassano del Grappa e poi a Treviso.»
«E prima?»
«Kalonymos è un nome greco e vuole dire “Buon nome”, dall’ebraico Shem Tov; poi da nome diventò un cognome. Il figlio di Calimanus divenne Calimani.
A Mainz, cioè a Magonza, Spira e in altre località della valle del Reno, prima dell’espulsione i Kalonymos diedero vita a un movimento culturale e religioso molto famoso detto Hassidei Ashkenaz. In questa famiglia molti erano rabbini e scrittori e si distinsero per cultura e fede. Alcuni studiosi li collegano con i Kalonimos, arrivati forse dalla Provenza. Altri studiosi hanno accettato la tradizionale idea che fosse stato Carlo Magno a favorire il loro arrivo da Lucca nella Valle del Reno, dove vissero per quattro-cinque secoli. Un altro ramo della famiglia si spostò ad Arles, in Provenza. Quelli che arrivarono in Italia, invece, furono cacciati, come vi ho detto, a causa della terribile pandemia della peste nera scoppiata in tutta Europa, e in particolare in Germania, di cui furono considerati colpevoli. Un terzo della popolazione europea perse la vita a causa di questo terribile morbo.
Vennero in Italia dalla valle del Reno intorno alla metà del XIV secolo. Il Kalonymos provenzale scrisse Massekhet Purin (Trattato di Purim); quello renano, Judah Kalonymus, scrisse il Sefer Hassidim (Il Libro dei Pii).
Nel Talmud Avod Zarà 11, un testo che risale ai primi secoli, si parla di Onkelos ben Kalonimos, che in epoca romana si sarebbe convertito al giudaismo; sarebbe stato figlio della sorella di un imperatore romano. Altri però sostengono che il primo che si ricorda della famiglia fu Aronne da Baghdad. Arrivato da terre lontane nell’Italia meridionale e poi, come vi ho detto, arrivato a Lucca. Potrei continuare...»
«Voglio conoscere questa storia con più particolari, ma adesso ho sonno» mi ferma Caterina.
«Io non ho mai sonno» esclamò Alessandro. «Però adesso voglio dormire.»
«Buona notte...»
3

Angelo e Fausta, i bisnonni

«Il bisnonno Angelo, a quind...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. COME FOGLIE AL VENTO
  4. Parte prima. A VENEZIA
  5. Parte seconda. IN MONTAGNA
  6. Parte terza. AL TERMINE DELLA NOTTE
  7. Parte quarta. TESTIMONIANZE E DOCUMENTI
  8. Documenti
  9. Note
  10. Bibliografia
  11. Copyright