La battaglia contro l'Alzheimer
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La battaglia contro l'Alzheimer

Il lungo viaggio alla ricerca della memoria

  1. 320 pagine
  2. Italian
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La battaglia contro l'Alzheimer

Il lungo viaggio alla ricerca della memoria

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A Tubinga, il 3 novembre 1906, il medico poco più che quarantenne Alois Alzheimer presentò di fronte alla comunità degli psichiatri tedeschi il caso di Auguste Deter, una paziente che aveva sofferto di demenza ma il cui quadro clinico «non si poteva inserire in nessuna delle malattie conosciute». Osservando al microscopio il tessuto cerebrale della donna, Alzheimer aveva notato che negli spazi fra le cellule nervose si annidava una sostanza scura e ignota, mentre i residui delle cellule già morte traboccavano di una materia diversa, più filamentosa. Si trattava di una rivelazione senza precedenti: i disturbi mentali avevano un'origine biologica.

A più di un secolo da quella scoperta, però, molti aspetti che regolano il funzionamento cerebrale continuano a essere un enigma, e i ricercatori non hanno mai smesso di studiare quelle macchie nere che possono nascondersi nel cervello. La comparsa di placche e grovigli, infatti, si accompagna al naturale processo di invecchiamento: com'è possibile, quindi, che un fenomeno fisiologico possa innescare lo sviluppo di una qualche forma di demenza e, più nello specifico, del morbo di Alzheimer?

Joseph Jebelli, che dedica la sua carriera di giovane scienziato allo studio delle malattie neurodegenerative, prova a rispondere a questa domanda mettendo in ordine il passato, il presente e il futuro della ricerca sull'Alzheimer. Le numerose interviste da lui condotte gettano luce sulle ipotesi, i fallimenti, gli esperimenti e i traguardi raggiunti da biologi, genetisti, psichiatri, biochimici e neurologi di tutto il mondo in una chiara e decisamente fruibile ricostruzione della lunga lotta contro una patologia aggressiva e sempre più diffusa. Quasi tutti possono dire, infatti, di conoscere qualcuno che ne è stato colpito e questo l'autore lo sa bene: da bambino ha dovuto assistere alla lenta discesa di suo nonno verso l'abisso della demenza, in cui si sono persi anche i ricordi e i vissuti degli autentici protagonisti del libro, i pazienti. Sono le loro testimonianze, intime e personali, a raccontare da vicino e da un punto di vista umano una malattia sfuggente e senza ritorno, che trascina con sé anche i familiari e le persone care.

La battaglia contro l'Alzheimer è un viaggio emotivo e coinvolgente alla ricerca della memoria, dei suoi meccanismi e dei suoi significati, un viaggio animato dalla speranza che la dote più preziosa di cui disponiamo non rimanga così impenetrabile ancora a lungo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2018
ISBN
9788852089251
Parte seconda

RICERCA

IV

DIAGNOSI

Un amico leale vale diecimila parenti.
ATTRIBUITA A EURIPIDE
Una mattina, verso la fine del 2014, Arnold Levi, un regista sudafricano di ottantadue anni ormai in pensione, entrò nello studio londinese del suo medico con Danie, il figlio del suo migliore amico. Si conoscevano da più di trent’anni: il padre di Danie era cresciuto in un collegio alla periferia di Johannesburg, dove Arnold era stato mandato all’età di cinque anni. I due erano subito diventati amici. «Mio padre era uno di tre fratelli» mi disse Danie. «Penso che Arnold gli volesse bene perché lo proteggevano a scuola. Lo trattavano come uno di famiglia.»
Da quasi un anno Arnold aveva qualcosa che non andava. Nel dicembre 2013 Danie aveva notato alcune alterazioni inquietanti nel suo comportamento. Arnold, intelligente, indipendente e sveglio, non aveva mai avuto problemi a orientarsi nella metropolitana di Londra: a intervalli di qualche mese la prendeva da casa sua, nella zona ovest, per andare a cena nella City con Danie.
Le cose, però, cominciarono a cambiare. Danie ricordò che quel viaggio sembrava dare sempre più angoscia ad Arnold. Un giorno, quando si incontrarono davanti alla stazione, lo trovò «confuso, agitato, di cattivo umore, e non era da lui» disse Danie.
A vent’anni Arnold si era trasferito a Londra per inseguire il sogno di fare l’attore. Interpretò particine in diversi film, ma ben presto cambiò obiettivo quando un collega gli aveva chiesto aiuto per insegnare recitazione ai cantanti. Arnold accettò, e da allora si costruì una buona carriera come regista. Non si era mai sposato e non aveva avuto figli, ma era sempre rimasto in contatto con gli amici d’infanzia a Johannesburg. Vent’anni dopo, Danie si era trasferito a Londra per lavorare come operatore di borsa. «Quando arrivai qui, vivevo non lontano da Arnold, e lui ha sempre vegliato su di me. “Se mai ti servisse un posto dove stare” mi diceva “puoi sempre venire a casa mia.” E io mi sono sempre sentito protetto.» Quando Arnold cominciò a invecchiare, Danie ricambiò prendendosi cura del vecchio amico del padre.
Nei mesi precedenti quel giorno in metropolitana, Danie si accorse che Arnold aveva qualche problema di memoria. All’inizio sembrò poca cosa: aveva dimenticato il passaporto per un viaggio a New York, oppure aveva scordato che Danie era in vacanza. Insomma, distrazioni tipiche, eppure qualcosa nella loro frequenza e nella loro natura non era normale. A posteriori, l’esperienza di Arnold non deve sorprenderci. Nella fase incipiente è di fatto impossibile capire se queste dimenticanze sono un indice della malattia. «Io dimentico tutto» mi disse Danie. «Non ricordo che cosa ho fatto nel weekend, è come se non avessi abbastanza spazio nella memoria. Quindi, quando succede a un’altra persona non ne sono sorpreso. Ma c’erano quelle situazioni banali che… stonavano. Non erano normali, non erano giuste.»
Per l’appuntamento successivo, Danie mandò una macchina privata a prendere Arnold. Quando arrivò da lui, però, Arnold non c’era. L’autista telefonò a Danie, che a sua volta chiamò Arnold. Nessuna risposta. Danie ricordò che qualche giorno prima, quando si erano messi d’accordo per il pranzo, Arnold continuava a capire male le indicazioni e pensava di doverlo incontrare nel suo ufficio, nella zona nord di Londra. «Io gli ho detto: “No, no, ti verrà a prendere un autista, non devi muoverti, ok?”. Ma lui ha continuato, e io mi sono chiesto che diavolo gli stesse succedendo. “Resta a casa! Non devi fare nulla, ti porteranno qui. Che c’è che non va?”» Un’ora dopo provò a richiamare e ancora nessuna risposta. Stava cominciando a preoccuparsi e telefonò in ufficio: Arnold era lì.
Scoprì che Arnold non ricordava di aver parlato con lui di una macchina privata. Danie gli rispose di non preoccuparsi e chiese se ce la faceva a prendere un taxi per raggiungerlo al ristorante. Lui accettò, e Danie, sollevato, cercò di attribuire quel contrattempo a un’altra, innocua, «dimenticanza senile».
Ma il suo sollievo non durò a lungo: Arnold non arrivò. Due ore dopo telefonò a Danie da casa. «Mi ha chiamato dicendomi: “Senti, mi dispiace, non so cosa sia successo… Penso di avere avuto un disorientamento… non sapevo dove mi trovavo… Ma ho visto una stazione della metropolitana e sono venuto a casa”.» In seguito Danie scoprì che Arnold, uscito dall’ufficio, aveva dimenticato cosa dovesse fare e, confuso, aveva vagato senza meta. A quel punto il giovane capì che doveva portarlo da un medico.
Mentre camminavano lungo i corridoi del Richford Gate – un centro medico in un grande edificio di arenaria di tre piani, in una tranquilla strada residenziale nella zona ovest di Londra – un medico tedesco, Jens Foell, li salutò. Inaspettatamente, Arnold presentò Danie come «Mathew», il nome del suo vicino. Ne risero e si accomodarono nello studio di Foell. Sospettando che qualcosa non andasse, Foell chiese come poteva aiutarli.
Al che Arnold rispose: «Be’, è Mathew…».
«No, Arnold» lo interruppe Danie. «Sono io, sono Danie.»
Arnold proseguì: «Sa, ha qualche problema».
Ci fu un istante di silenzio. Poi Foell, senza capire chi dei due fosse il paziente, guardò Danie.
«Arnold» disse Danie. «Siamo qui per te.»
«Davvero?» rispose Arnold. «Non ne avevo idea.»
Nell’agosto 2015 presi la metropolitana per andare a casa di Arnold a Notting Hill con una borsa piena di uva fresca e una scatola di cioccolatini svizzeri. Era un pomeriggio caldo e nuvoloso, le strade erano piene di gente che pranzava all’aperto nella speranza di veder spuntare il sole. Avevo saputo di Arnold qualche mese prima grazie a un collega medico. Gli avevo chiesto se conoscesse pazienti diagnosticati di recente, disponibili a condividere la loro storia. Volevo un caso classico – all’epoca non mi rendevo ancora conto dell’inutilità della definizione «classico» – e lui mi aveva risposto dandomi il numero di Danie. Quando lo chiamai, si dimostrò impaziente di parlarmi e disse che si sentiva solo.
Prima di entrare in casa, Danie mi informò che aveva spiegato ad Arnold chi ero e perché gli facevo visita, ma ammise che le probabilità che lo ricordasse erano minime.
Suonammo il campanello. Per un momento, dall’interno non giunse alcun rumore e, visto che era un fine settimana festivo, Danie temette che Arnold fosse uscito da solo. Un attimo dopo, però, la porta si aprì e fui presentato ad Arnold. Aveva i capelli bianchi e ricci, occhi color ghiaccio e un sorriso aperto e privo di imbarazzo che metteva subito a proprio agio. Era magro e sottile, vestito casual ma con buon gusto, una camicia viola scuro, pantaloni a quadretti e scarpe di cuoio a punta. Mi offrì da bere ma rifiutai educatamente, e ci sedemmo tutti e tre nel soggiorno accanto alla cucina.
Finestre a tutta parete inondavano la stanza di luce naturale, il pavimento era coperto di tappeti orientali, statuette antiche troneggiavano su vecchi cassettoni e le pareti erano tappezzate di quadri del Settecento. Le librerie erano cariche di opere su Mozart, Michelangelo e Wagner, oltre che di volumi di Henty e Dickens. Lì, pensai, viveva un uomo dedito all’apprendimento. Che crudeltà sapere che ben presto tutto questo gli sarebbe stato sottratto. L’amore per i libri e per la conoscenza rendeva ancor più dolorosa la perdita della memoria. Accanto a me erano disposte sulla scrivania le cornici con le foto in bianco e nero dei suoi genitori e del padre di Danie a Johannesburg. Sembrava di entrare in una capsula del tempo dove era rimasto un piccolo simulacro di chi l’aveva abitata.
Cominciammo a chiacchierare. Lui parlava lentamente, con voce bassa e sonora e un accento inglese lontano anni luce da quello sudafricano del giovane, secco e nasale. Gli chiesi della sua vita, dell’amicizia con Danie e suo padre, della sua carriera e delle storie di alcuni splendidi oggetti che ci circondavano. Le sue risposte furono eloquenti e illuminate: chiaramente era un uomo molto intelligente. Se avessimo proseguito la conversazione su questo tono, non mi sarei neppure accorto che c’era qualcosa di strano. Poi cominciai a chiedergli del presente. Com’erano i suoi vicini? Aveva amici che vivevano nel quartiere? E qui la situazione cominciò a degenerare.
«Buffo che me lo chieda» rispose Arnold. «Perché è successo durante la guerra… ma non mi va di parlarne.»
Cambiai argomento, chiedendogli come gli piaceva trascorrere le giornate adesso che era in pensione.
«Dovevo occuparmi di mia madre e di mia sorella… naturalmente è stato durante la guerra… ma non è un argomento molto adatto.»
Danie si intromise: «Arnold, credo che Joseph ti abbia chiesto che cosa ti piace fare oggi».
«Oh, certo, mi scusi. Be’ avevo voglia di vivere per conto mio. Non vedevo l’ora di andarmene [dal Sudafrica] e non dimentichi che era appena finita la guerra… Le offrirei qualcosa da bere, ma non credo che lo farò.»
«Perché no?» chiese Danie.
«Be’… a dire il vero non lo so.»
Il contrasto fra la sua consapevolezza del passato, dei ricordi lontani nel tempo e nello spazio, e l’incapacità di capire il presente era sconcertante. Più volte Danie insistette perché rispondesse con maggiore precisione ad alcune mie domande, aiutandolo con gentilezza. Ma la memoria di Arnold si stava appannando. La malattia aveva fatto la sua prima vittima, il paraippocampo, una zona del cervello vicina all’ippocampo. È qui che vengono immagazzinati e ripresi i ricordi recenti. Ecco perché il primo sintomo dell’Alzheimer è la perdita della memoria a breve termine. Il paraippocampo è una sorta di sosta ai box della memoria, che qui elabora i ricordi ed eventualmente li trasferisce alla corteccia frontale perché siano immagazzinati a lungo termine. Non sappiamo il motivo per cui questa zona è la prima a essere colpita. Le placche e i grovigli alla fine invaderanno altre parti del cervello di Arnold, compresa la corteccia frontale, ma per il momento il resto sembra misericordiosamente intatto.
«Vuole vedere la casa?» mi chiese Arnold. Parlavamo da circa mezz’ora in salotto e avevo già notato il suo senso dell’umorismo, allegro e ironico. Spesso aveva scherzosamente rimproverato Danie per non essersi ricordato qualcosa, oppure quando sospettava che facesse il furbo alle sue spalle lo ammoniva: «Ragazzo, non fare questi giochetti con me!».
Arnold ci portò a vedere la mansarda. Secondo Danie, era lì che passava gran parte del tempo. Somigliava molto al salotto, ma c’erano più libri e i quadri erano più grandi. Quel giorno Danie voleva salire in mansarda per valutare i danni provocati dalle recenti infiltrazioni di acqua dal tetto: le macchie di umidità erano avanzate lungo il soffitto inclinato, facendolo imbarcare sopra i cassettoni carichi di foto. Nel bagno vicino, una parte del soffitto era del tutto crollata.
«Arnold! Devo cercare di nuovo il muratore!» gridò Danie dal bagno. «Dobbiamo risolvere questo problema.»
Gli assistenti del servizio sanitario nazionale facevano visita ad Arnold ogni settimana, e gli chiesi cosa pensava di loro.
«Assistenti?» chiese perplesso. «Oh, no… non ne so niente.»
«Che mi dici di Tom?» gli ricordò Danie mentre esaminava i cornicioni. «Sai, quello che viene qui.»
«Tom? Tom… Oh, sì… persona gradevole… Ma avrà almeno vent’anni meno di me.»
Mentre Danie continuava a esaminare il soffitto, Arnold e io uscimmo su un balconcino che si affacciava su una serie di giardinetti quadrati a lato della strada. Il cielo era ancora coperto. Lui mi indicò un alto frassino. «Ecco l’albero che preferisco in questa strada» disse. «È bellissimo. Vede che in realtà sono due alberi?» Uno, più scuro, cresceva accanto al primo. Poi, con gli occhi ancora fissi sul frassino, mi disse una frase inaspettata: «Ho molti ricordi che per me significano tanto… Sono preoccupato… Ma cosa posso farci?». Mi guardò scrollando le spalle rassegnato e aggiunse: «Non molto».
Mi chiesi come interpretare quel commento. Fino a quel momento ero riuscito a parlare della malattia soltanto con amici e badanti, mentre il nonno aveva già perso la consapevolezza dei suoi problemi di memoria quando era tornato a farci visita dall’Iran. Forse l’ironia più crudele dell’Alzheimer, soprattutto per la famiglia, è che più avanza, meno il paziente è consapevole della propria condizione. Quell’istante di chiarezza di Arnold era quindi importantissimo, e una parte di me avrebbe voluto insistere per capirne di più.
Ma, mentre tornavamo al piano di sotto, Arnold dimenticò ciò che aveva detto e mi chiese di ricordargli chi fossi. Risposi che ero un amico di Danie e che stavo scrivendo un libro sulla memoria.
«Meraviglioso!» esclamò. «Ma… devo dirle che non penso che Danie le sarà di grande aiuto.»
Durante la nostra conversazione nel suo studio, il dottor Foell mi disse che Arnold era nella prima fase, blanda, della malattia. Foell è un medico eccentrico che ama parlare chiaro. È arrivato in Inghilterra poco dopo il crollo del muro di Berlino, e negli ultimi tredici anni ha fatto il medico generico. Alto poco meno di un metro e ottanta, è un uomo davvero in forma che, durante le visite, siede su un pallone gonfiabile da palestra e adotta un approccio molto pratico, quasi predatorio, per risolvere i problemi dei pazienti. Mi piacque subito.
Erano passate alcune settimane dalla mia visita ad Arnold, e volevo capire come viene formulata una diagnosi di Alzheimer.
«Bella domanda» ammise Foell. «Spesso dico che il modo migliore per capirlo sarebbe uccidere il paziente ed esaminare il cervello alla ricerca di placche e grovigli. Ma questo non lo aiuterebbe affatto!» In realtà, mi spiegò, la diagnosi non è un fatto singolo, ma un processo.
In primo luogo si deve escludere che Arnold abbia altre patologie che provocano una perdita della memoria, come depressione, infezioni, infarto o cancro. E lo si fa esaminando l’anamnesi, visitandolo e prescrivendo gli esami del sangue. Poi ci si deve accertare che il paziente sia al sicuro, che nulla gli possa accadere prima della visita successiva. «Gli si fanno domande come: Dove è stato? Che cosa ha fatto? Come si prende cura di se stesso? Potrebbe descrivere una sua giornata tipo? Le è mai capitato di chiudersi fuori di casa? Dimentica acceso il gas in cucina?
«Ho trovato molto preoccupante il fatto che Arnold vivesse da solo» mi confessò solennemente Foell. «Senza il figlio del suo amico, garantire la sua sicurezza sarebbe stato impossibile.»
A livello globale c’è una nuova diagnosi di Alzheimer ogni quattro secondi, ed è una stima prudenziale.1 In Inghilterra, per esempio, si ritiene che solo il 48 per cento dei casi di demenza sia diagnosticato nel modo corretto.2 Il restante 52 per cento può essere composto da soggetti i cui sintomi vengono scambiati per altro – stress, effetti collaterali di un farmaco, normale invecchiamento –, o anziani che vivono soli. I pazienti isolati possono restare senza diagnosi per anni perché nessuno si rende conto che hanno un problema. Quanti malati rest...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LA BATTAGLIA CONTRO L’ALZHEIMER
  4. Nota dell’autore
  5. Prefazione. Una malattia particolare
  6. Parte prima. LE ORIGINI
  7. Parte seconda. RICERCA
  8. Parte terza. PREVENZIONE
  9. Parte quarta. SPERIMENTAZIONE
  10. Parte quinta. SCOPERTA
  11. Coda
  12. Risorse
  13. Note
  14. Bibliografia
  15. Ringraziamenti
  16. Copyright