Il mondo moderno, come lo intendiamo noi, si è venuto a formare in queste tre date. Sono tre eventi chiave essenziali per capire gli sviluppi successivi, e anche per distinguere «quanto sia nuovo il nuovo»: se oggi la nostra Età del Caos è figlia di una rottura epocale rispetto alla modernità, o se si inserisce nella continuità e fa parte dei frequenti corsi e ricorsi della storia.
Johannes Gutenberg, con la sua tecnologia tipografica, consente il salto nell’era della stampa, dell’alfabetizzazione, della riproduzione dei libri; agevola quella Riforma protestante dalle enormi conseguenze politiche sull’Occidente; sia il Rinascimento sia l’Illuminismo si nutrono di libri, che nel Medioevo erano delle rarità custodite nei monasteri. L’impatto della stampa sulla Riforma è talmente immediato che spesso Gutenberg e Martin Lutero vengono studiati insieme. Non è un caso se il grande sociologo tedesco Max Weber associa il capitalismo all’etica calvinista e puritana: sono di ceppo protestante i due imperi capitalisti che si alternano negli ultimi secoli, l’inglese e l’americano.
L’impresa di Cristoforo Colombo (poi di altri esploratori-conquistatori) è resa possibile anch’essa da Gutenberg, vista l’importanza dei libri di geografia stampati a quell’epoca. A sua volta, la cosiddetta «scoperta» dell’America ha diramazioni verso la globalizzazione non solo mercantile ma anche biologica, l’unificazione dell’ecosfera, con conseguenze molto più vaste e sorprendenti di quanto si creda, per esempio con nuove epidemie o lo stravolgimento delle nostre abitudini alimentari millenarie. Considerare il Rinascimento dal punto di vista dell’impatto di Gutenberg-Colombo impone di ricordare che anche quella fu un’Età del Caos, con le stesse insicurezze che viviamo oggi e una risposta simile: il populismo. Segue una lunga instabilità, le guerre tra i fondamentalismi religiosi (perlopiù cristiani). Qualcuno accosta i populisti come Trump e Grillo a frate Savonarola (vedremo chi, e perché).
A quel Caos, il Trattato di Vestfalia cerca di porre fine nel 1648. E la Pace di Vestfalia – fragile – ci lascia in eredità un «formato», lo Stato-nazione come attore delle relazioni internazionali, dentro il quale torniamo a cercare protezione e rifugio nel nostro turbolento presente.
Quanto siamo ancora «figli» di quell’epoca, condizionati da quelle mappe della storia? E quanto invece abbiamo vissuto una rottura, l’ingresso in un’era nuova, che ci trasporta verso orizzonti sconosciuti? È giusto, per esempio, teorizzare che Internet e i social media hanno creato un universo completamente inedito? L’intelligenza artificiale applicata alle comunicazioni di massa, da Google a Facebook, segna una rottura, un passaggio di civiltà, con lo stesso potenziale dirompente che ebbe la stampa di Gutenberg cinque secoli prima?
E ancora: quanto il nostro corpo, la nostra salute e la nostra longevità, la flora e la fauna dell’ambiente in cui viviamo sono condizionati dalla globalizzazione agroalimentare e batteriologica scatenata inconsapevolmente dalle grandi scoperte di Cristoforo Colombo & C.? Quanto invece siamo entrati in un’epoca di manipolazione genetica senza precedenti nella storia umana?
È ingenuo o presuntuoso supporre di conoscere già la risposta. Intanto bisogna partire da una conoscenza delle mappe della nostra storia passata, prima di poter decifrare il presente o immaginare il futuro.
Non fu lui a «inventare la stampa». Come sempre, il nostro eurocentrismo ci ha tramandato una storia parziale e incompleta, dove quasi tutto ha inizio in Occidente, e Gutenberg viene spacciato per un pioniere assoluto. Invece, anche in questo campo ci hanno battuto i cinesi, e non di poco: un millennio circa. È nel 600 d.C. che in Cina appare la prima tecnica di stampa, con blocchi di legno che imprimono caratteri a inchiostro sulla carta. Pochi secoli dopo gli stessi cinesi inventano i caratteri mobili, sostituibili, un sistema simile a quello che in Europa sarebbe nato solo a metà del XV secolo. Anche in Corea viene usata una stampa con caratteri metallici, derivata da quella cinese, nella stessa epoca. Però, a volte non basta inventare. Se la tecnologia innovativa viene usata in un contesto inadatto, può non dispiegare tutti i suoi effetti. La Cina fa tantissime cose prima di noi, ma non sempre riesce a estrarre i benefici potenziali delle sue invenzioni (o i malefici, vedi la polvere da sparo che loro usarono per i fuochi d’artificio, noi per i moschetti e i cannoni). Nel caso della stampa il suo problema forse è banale ma insormontabile: con diecimila ideogrammi «di base», il mandarino ha una complessità che ostacola l’uso della tipografia quale verrà fatto in Europa, cioè con una produzione relativamente veloce e una diffusione di massa dei libri e dei giornali.
Per intendere il significato di quel «relativamente»: prima di Gutenberg ci vogliono tre anni per produrre una Bibbia, visto che la tecnologia disponibile è la copiatura a mano. Invece delle tipografie ci sono gli amanuensi, spesso monaci, che ci hanno tramandato pregevoli opere d’arte come gli incunaboli, ma in edizioni talmente limitate che se le contendono i musei. Nel corso della sua vita Gutenberg stampa duecento Bibbie, un numero che oggi è da collezionisti ma per l’epoca era ragguardevole. Presto molti lo imitarono e senza pagargli un centesimo di copyright: purtroppo per lui, l’invenzione della stampa precede quella del brevetto industriale.
Il tedesco Johannes Gensfleisch zur Laden zum Gutenberg nasce verso il 1400. È un artigiano poliedrico e creativo. Fabbro e orefice di formazione, intorno al 1440 fa i suoi primi esperimenti con i caratteri mobili per la stampa e l’uso dell’inchiostro oleoso, mentre vive a Strasburgo. Comincia a usare la sua tipografia regolarmente nel 1450 a Magonza. Nel 1455 stampa la sua prima Bibbia. È l’inizio – molto in sordina e su scala minuscola – di quella che sarà una vera rivoluzione culturale. Della quale lui non può neppure immaginare gli sviluppi futuri. Anche perché gran parte di quegli sviluppi avvengono dopo la sua morte nel 1468. Da vivo l’invenzione non lo arricchisce di certo: il mercato del libro (che all’inizio è quasi uno solo, la Bibbia) non è florido da subito. Gutenberg finisce nei guai per una lite con un socio e fa bancarotta. Solo pochi anni prima della sua morte gli viene assegnato un piccolo riconoscimento, l’arcivescovo di Magonza Adolf von Nassau lo nomina Hofmann (gentiluomo di corte), titolo altisonante ma non importante: dà diritto a una modesta pensione pubblica e al privilegio di «comprare fino a duemila litri di vino all’anno esentasse». Solo nel 1504, sei anni dopo la morte, per la prima volta uno studioso cita Gutenberg come l’inventore della stampa. Nel frattempo la sua tecnologia – scopiazzata gratis – è migrata in altre parti d’Europa, soprattutto in Italia, dove Venezia diventa il principale centro di produzione di libri, con editori come Aldo Manuzio. L’Italia dei Comuni e delle città-Stato, con una borghesia mercantile fiorente e dallo spiccato spirito d’indipendenza, è un mercato ideale per il nuovo supporto o piattaforma tecnologica che diffonde conoscenze, idee. Il social media della carta stampata si candida a sostituire (lentamente) il social media più antico: la trasmissione orale di leggende, miti, credenze religiose.
Ma il libro è anzitutto il Libro. Il fatto che Gutenberg abbia stampato prevalentemente delle Bibbie è quanto di più normale, vista la centralità della religione nella cultura di quel tempo. E tuttavia è anche gravido di conseguenze, proprio nella Germania di Gutenberg. Che a quell’epoca non è certo una nazione, bensì come l’Italia di allora è un’espressione geografica e soprattutto un’area linguistico-culturale. Proprio al pari dell’Italia, anche la Germania non ha nel Medioevo una lingua nazionale e l’élite parla latino; l’unificazione linguistica comincia dai testi religiosi. Nel nostro caso Francesco d’Assisi e Dante Alighieri, cioè una letteratura d’ispirazione religiosa. Nel caso tedesco è la Bibbia stessa a «creare» la lingua nazionale.
Il 31 ottobre 1517 il prete sassone e professore di teologia Martin Lutero affigge in pubblico a Wittenberg le sue 95 Tesi, il cui nucleo è la protesta contro un malcostume imperante allora nella Chiesa: la vendita delle indulgenze. Il clero offriva «sconti di pena» e scorciatoie dal Purgatorio al Paradiso per chi poteva pagare. Lo storico medievalista Jacques Le Goff ha spiegato come il Purgatorio sia stato letteralmente inventato per offrire una prospettiva interessante alla nascente classe mercantile, e quelle transazioni pecuniarie sul destino delle anime accompagnano le prime forme di capitalismo europeo nel tardo Medioevo. Il moralista Lutero è l’interprete di una diffusa indignazione tra i fedeli. Ma nelle Tesi, oltre a fustigare la gerarchia ecclesiale avida e corrotta, afferma anche dei concetti nuovi, davvero rivoluzionari. Tra questi c’è sola Scriptura, che è considerato il principio fondante del futuro protestantesimo. Sola Scriptura sta a significare che il Libro divino, la Bibbia, è l’unica autorità ed è autosufficiente, non richiede l’interpretazione del papa e dei sacerdoti. Il fedele deve leggerla e può capirla da solo, Dio l’ha dettata per lui. Questo principio, che avrà enormi conseguenze, lega immediatamente Lutero a Gutenberg. Vista l’importanza della Scrittura, è davvero una fortuna che qualcuno in quegli anni abbia inventato il modo per riprodurla velocemente.
Nel 1518 le 95 Tesi, originariamente scritte in latino, vengono tradotte in tedesco. Diventano uno dei primi testi stampati con la nuova macchina di Gutenberg. Poi Lutero si decide a tradurre la stessa Bibbia in tedesco. Molti lo considerano per questo il vero padre della lingua e poi della coscienza nazionale della Germania. Il teologo sassone è uno dei primi a intuire la potenzialità del nuovo social media. La tipografia gli consente direttamente l’accesso al popolo, aggirando gli intermediari che controllavano il Verbo fino a quel momento, cioè i preti (così come oggi Beppe Grillo può evitare la tv e parlare in Rete con i suoi seguaci; Donald Trump può aggirare i giornalisti e lanciare via Twitter i messaggi agli americani). Già nel 1519 Lutero è l’autore più pubblicato d’Europa. Il suo genio mediatico è confermato dalla scelta dell’illustratore Lucas Cranach per i suoi libri.
La Bibbia scritta nella lingua del popolo, strumento della Riforma protestante, apre l’era moderna in tanti sensi. È un potente strumento di emancipazione: mettendo in comunicazione diretta il fedele e Dio attraverso la lettura individuale del Verbo, fa vacillare paurosamente in mezza Europa il «potere forte» per eccellenza che è la Chiesa, titolare fino a quel momento di una prerogativa esclusiva: al popolo incolto da secoli solo i preti potevano spiegare il Nuovo e il Vecchio Testamento; la loro messa in latino suonava come un rito composto di formule magiche, incomprensibili alla massa. La Bibbia tradotta e stampata è anche un formidabile incentivo all’alfabetizzazione, promuove l’accesso individuale alla cultura. La visione moderna del mondo, in Occidente, si forma in quel periodo, quando al centro viene messo l’individuo. Rinascimento e Illuminismo sono possibili solo attraverso la diffusione del sapere e la creatività individuale. I progressi della scienza saranno favoriti dalla possibilità di tramandare le scoperte nei libri, confrontare le conoscenze, dimostrare empiricamente, dibattere. In embrione possiamo vedere nel duo Gutenberg-Lutero e nella Riforma, con quell’emancipazione dell’individuo-lettore, una delle premesse alla futura nascita della democrazia (che sarà però partorita da una filosofia laico-atea, l’Illuminismo). Qualche traccia di quel formidabile impulso alla lettura della Bibbia possiamo ritrovarlo ancora oggi nei dati sulle vendite di libri e giornali, che sono molto superiori nei paesi di estrazione protestante rispetto alle nazioni cattoliche.
Naturalmente, un mondo dove la conoscenza è alla portata delle masse – all’inizio masse ben delimitate, in realtà un’élite di adulti maschi benestanti concentrati nell’aristocrazia e nella borghesia urbana – è anche un mondo più difficile da governare. Tanti lettori, tante teste pensanti si lasciano dominare meno dal papa o dal sovrano, rispetto a una plebe ignorante e credulona. Gutenberg più Lutero fanno fare un balzo in avanti prodigioso alla conoscenza umana, ma creano anche le premesse di una Età del Caos.
Lo scrittore francese Victor Hugo, nel romanzo Notre-Dame de Paris, scriverà tre secoli dopo: «Il XVI secolo distrusse l’unità religiosa. Prima dell’invenzione della stampa la Riforma sarebbe stata solo uno scisma. La stampa ne fece una rivoluzione. Senza la stampa, l’eresia sarebbe stata indebolita. Per destino o volontà della provvidenza, Gutenberg fu il precursore di Lutero».
All’inizio Lutero ha una strada tutta in salita. Molti principi locali, nella galassia germanocentrica che è il Sacro Romano Impero, restano fedeli alla Chiesa di Roma e rispettano l’autorità papale. Lutero, come i social media del nostro tempo, ha dalla sua «la forza del mercato». In due sensi: la classe emergente (i mercanti) si sente attratta da questa religione antiautoritaria; e Lutero stesso è un autore di successo, ha fiuto per i gusti del suo pubblico, ha una lunghezza d’anticipo sui suoi avversari fermi a un’epoca tecnologica precedente.
Il tema del Caos, però, non si può sottovalutare. Ogni rivoluzione nelle tecnologie della comunicazione è destinata ad avere l’impatto che ebbero Gutenberg-Lutero? Ossia le persecuzioni di minoranze eretiche, le guerre di religione, un lungo periodo d’instabilità, il crollo delle autorità costituite, l’insicurezza diffusa? Sarà questo – è già questo – il vero e profondo impatto dei social media del nostro tempo, basati su Internet?
Allora come oggi: una rivoluzione mediatica, valoriale e politica (Gutenberg-Lutero cinque secoli prima di Internet) incrocia l’apertura di nuovi mercati, l’abbattimento di frontiere, ed è quindi anche rivoluzione economica, nascita di un nuovo tipo di capitalismo. Più aggressivo, più cosmopolita, con ambizioni di dominio planetarie. Ma scatena forze che non è in grado di controllare, con esiti sorprendenti e imprevedibili. Fino a sconvolgere l’ecosfera, gli equilibri ambientali.
Anno 1492. La presunta «scoperta» dell’America. Cioè l’arrivo di uno di noi. Il navigatore genovese Cristoforo Colombo ci approda per sbaglio. In realtà voleva scoprire una rotta nuova, più corta e più economica, per trasportare merci dall’Europa all’India e viceversa. Anzi, alle Indie orientali, come si diceva a quell’epoca: una definizione che includeva India, Indonesia, Giappone. Già a quei tempi noi europei compravamo tanto dai cinesi e dagli indiani, per esempio spezie e tessuti pregiati. I cinesi da noi volevano quasi una cosa sola: l’argento. Per arrivare fino a casa loro usando le navi, bisognava circumnavigare tutta l’Africa come fece il portoghese Bartolomeu Dias nel 1488 superando il Capo di Buona Speranza. Era un viaggio lungo, pericoloso, costoso. Né era facile il viaggio più antico via terra: tanti deserti, montagne, banditi che assalivano le carovane dei mercanti.
Colombo – grazie ai libri! – era convinto che la terra fosse rotonda (cosa già abbastanza assodata, ma non tutti avevano capito). La credeva molto più piccola. Per la verità aveva letto anche dei libri sbagliati (fake news?) e s’immaginava un globo a forma di pera… Il genovese s’illudeva che partire dall’Europa puntando a Occidente lo avrebbe portato in India più velocemente. Non immaginava che in mezzo ci fosse un altro continente. Né immaginava l’ampiezza dell’oceano Atlantico; tantomeno l’esistenza di un altro oceano, il Pacifico, ancora più grande. Partì con tre caravelle, il nome dei piccoli velieri che si usavano a quei tempi: la Niña, la Pinta, la Santa María. Si fece finanziare il viaggio dal re e dalla regina di Spagna, Ferdinando e Isabella, forse i monarchi più ricchi di quei tempi, se escludiamo i soliti cinesi.
Fu un viaggio difficile, a un certo punto i suoi marinai si ribellarono perché era molto più lungo del previsto e volevano tornarsene a casa. Quando avvistarono una terra, non era quella che oggi intendiamo quando usiamo la parola America (spesso ci riferiamo agli Stati Uniti). Erano approdati nelle isole dei Caraibi, in un mare che sta fra gli Stati Uniti, il Messico e il Venezuela. Le prime isole toccate da Colombo oggi si chiamano Bahamas. Poi sbarcò a Hispaniola (oggi l’isola divisa tra Haiti e Repubblica Dominicana). In viaggi successivi arrivò in Guadalupa e su altre isole delle Antille. I primi abitanti che incontrò erano perlopiù dell’etnia Taino, ma li chiamò indiani perché convinto di essere nelle Indie. (Fino alla sua morte Colombo non capì di essere arrivato su un altro continente.) A volte, per evitare la confusione con l’India, oggi usiamo il termine di «nativi americani». Ma tutti questi appellativi glieli abbiamo dati noi. «America» viene dal nome di un altro navigatore italiano, Amerigo Vespucci, che fece viaggi in quella zona poco dopo Colombo. Quelli che già abitavano là, chi erano? Quali conseguenze hanno subìto per l’arrivo degli esploratori dall’Europa?
Le rotte dei primi quattro viaggi di Cristoforo Colombo.
L’America, evidentemente, l’avevano «scoperta» altri, visto che era abitata. Abbiamo il vizio di considerarci il centro del mondo, pensiamo che la storia cominci quando vi appare un europeo. Invece la storia è più antica, ha avuto altri protagonisti. Un poeta dialettale romanesco, Cesare Pascarella, scrisse una poesia comica che prende in giro questo nostro vizio di credere che abbiamo scoperto tutto noi. Alcuni versi descrivono in modo immaginario il primo incontro di Cristoforo Colombo e dei suoi marinai con gli indigeni che già abitavano in quelle isole. Il dialetto aggiunge un tocco di levità all’ironia verso i pregiudizi degli europei.
Veddero un fregno buffo co’ la testa
Dipinta come fosse un giocarello,
Vestito mezzo ignudo, co’ ‘na cresta
Tutta formata de penne d’ucello.
Se fermorno. Se fecero coraggio:
– Ah quell’omo! – je fecero, – chi sete? –
– Eh, – fece, – chi ho da esse? So’ un servaggio.
E voiantri quaggiù chi ve ce manna? –
– Ah, – je dissero, – voi lo saperete
Quanno vedremo er re che ve commanna. –
E quello, allora, je fece er piacere
De portalli dar re, ch’era un surtano,
Vestito tutto d’oro, co’ ‘n cimiere
De penne che pareva un musurmano.
E quelli allora, co’ bone maniere,
Dice: – Sa? Noi venimo da lontano,
Per cui, dice, vorressimo sapere
Si lei siete o nun siete americano. –
– Che dite? – fece lui, – de dove semo?
Semo de qui; ma come so’ chiamati
‘sti posti, – fece, – noi nu’ lo sapemo. –
Ma v...