Psicoanalisi e buddhismo zen
eBook - ePub

Psicoanalisi e buddhismo zen

  1. 98 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Psicoanalisi e buddhismo zen

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Nel 1957, in Messico, un gruppo di psicoanalisti di origine e formazione occidentale, tra cui il celebre Erich Fromm, si sono riuniti per ascoltare dal dottor Suzuki alcune lezioni sugli insegnamenti fondamentali del buddhismo zen, arricchendo così la loro visione dell'uomo e ricevendo notevoli spunti per considerare i concetti chiave della psicoanalisi, quali il subconscio e l'inconscio, con un'ottica nuova. Sul testo delle lezioni tenute durante quel seminario da Fromm, ampiamente rielaborato dall'autore in vista della pubblicazione, è basato questo volume: una lettura stimolante per riflettere sulle verità più profonde che riguardano tutti noi.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Psicoanalisi e buddhismo zen di Erich Fromm, Emanuela Alverà in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Philosophy e Philosophy History & Theory. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2018
ISBN
9788852090882
VI

De-rimozione e illuminazione

Che cosa emerge dalla nostra discussione sulla psicoanalisi1 e sullo Zen, e sulla relazione tra i due?
Il lettore dev’essere rimasto colpito dal fatto che l’asserita incompatibilità tra buddhismo zen e psicoanalisi risulta soltanto da una visione superficiale di entrambi, ma immagino che rimarrà ancor più colpito dalle affinità esistenti tra i due. Questo capitolo esamina appunto nei dettagli tali affinità.
Cominciamo con le già citate affermazioni di Suzuki in merito agli ideali cui aspira lo Zen. «Lo Zen, nella sua essenza, è l’arte di vedere nella natura dell’essere di un individuo, ed esso indica la strada che conduce dalla schiavitù alla libertà […] Si può dire che lo Zen liberi tutte le energie propriamente e naturalmente stipate in ognuno di noi, che in circostanze comuni sono compresse e distorte al punto da non trovare uno sbocco adeguato alla loro manifestazione… È compito dello Zen, dunque, salvarci dalla follia o dalla menomazione. Questo è ciò che io intendo per libertà: dare libero sfogo a tutti gli impulsi creativi e benefici insiti nei nostri cuori. In generale, noi siamo ciechi al fatto di possedere tutte le facoltà necessarie a renderci felici e ad amarci l’un l’altro.»
Così espressi, gli ideali dello Zen sembrano coincidere con i fini della psicoanalisi: l’introspezione profonda nella natura di ciascuno, la conquista della libertà, della felicità e dell’amore, la liberazione delle energie, la guarigione dalla follia o dalla menomazione.
Quest’ultima affermazione, e cioè che l’uomo è posto di fronte all’alternativa tra illuminazione e follia, può forse suonare sorprendente, ma a mio avviso nasce dall’osservazione dei fatti. Benché la psichiatria si sforzi di capire perché alcune persone si ammalano, il vero problema è capire perché la maggior parte della gente non si ammala. Se consideriamo la posizione dell’uomo nel mondo, il suo isolamento, la sua solitudine, la sua impotenza, e la consapevolezza che egli ha di tutto ciò, potremmo pensare che il peso di un tale fardello sia così superiore alla sua capacità di sopportazione da farlo letteralmente “a pezzi” per lo sforzo. In realtà, la maggior parte della gente sfugge a questo pericolo grazie ad alcuni meccanismi di compensazione quali la resa alla routine dell’esistenza, l’adeguamento al branco, la ricerca del potere, del prestigio e del denaro, la dipendenza dagli idoli – condivisa con altri nei culti religiosi – l’autosacrificio masochistico e il dilatamento del proprio io, in breve grazie a qualche forma di menomazione. Ammesso che funzionino, tutte queste forme di compensazione possono, entro certi limiti, permetterci di conservare la sanità. Tuttavia, l’unica soluzione che ci metta realmente nelle condizioni di trionfare sulla malattia potenziale è la piena, proficua risposta al mondo che nella sua forma più elevata è costituita dall’illuminazione.
Prima di affrontare il nodo centrale della connessione tra psicoanalisi e Zen, desidero fare alcune considerazioni su altre affinità marginali e, anzitutto, sull’orientamento etico comune allo Zen e alla psicoanalisi. Una delle condizioni per raggiungere il fine dello Zen è il superamento dell’avidità, sia essa avidità di possesso, di gloria o qualsiasi altra forma di brama (“brama” nel senso dell’Antico Testamento). Ebbene, questo è precisamente lo scopo della psicoanalisi. Nella sua teoria dell’evoluzione della libido dalla fase orale recettiva alla fase orale sadica e da lì alla fase anale e genitale, Freud affermava implicitamente che il carattere sano si sviluppa da un orientamento avido, crudele, gretto che giunge a essere attivo e autonomo. All’interno della mia terminologia, derivata dalle osservazioni cliniche di Freud, ho reso questo elemento più esplicito, parlando di evoluzione da un orientamento ricettivo che diviene produttivo dopo essere passato attraverso le fasi intermedie di orientamento utilitaristico, accumulatore e mercantile.2 Qualunque terminologia si decida di usare, il punto essenziale è che, nella concezione psicoanalitica, l’avidità è un fenomeno patologico: esiste in quelle persone che non hanno saputo sviluppare le proprie facoltà attive e produttive. Ciò nonostante, né la psicoanalisi né lo Zen sono sistemi primariamente etici. Il fine dello Zen, così come quello della psicoanalisi, trascende l’ideale di un comportamento etico. Semmai si può dire che entrambi i sistemi si fondano sulla premessa che il conseguimento della loro meta comporta una trasformazione etica, vale a dire il superamento dell’avidità e lo sviluppo dell’attitudine ad amare e provare compassione. Non intendono costringere l’uomo a condurre una vita virtuosa mediante la soppressione del desiderio “malvagio”, ma si aspettano che il desiderio malvagio si dissolva e scompaia sotto la luce e il calore di una coscienza più evoluta. Ma qualunque sia il nesso causale tra illuminazione e trasformazione etica, sarebbe un errore estremamente grave credere che il fine dello Zen possa essere disgiunto dall’aspirazione a vincere l’avidità, la vanità e la follia, o che il satori sia raggiungibile senza prima aver acquisito umiltà, amore e compassione. Analogamente, sarebbe un errore ritenere che lo scopo della psicoanalisi si possa conseguire senza che nel carattere dell’individuo sia intervenuta una trasformazione. La persona che ha raggiunto lo stadio produttivo non è avida e al tempo stesso ha superato le proprie manie di grandezza e le finzioni dell’onniscienza e dell’onnipotenza: è umile e si vede così com’è. Tanto lo Zen quanto la psicoanalisi mirano a qualcosa che supera l’etica, benché il fine che essi perseguono non possa essere raggiunto senza una trasformazione etica.
Un altro elemento che accomuna i due sistemi è l’insistenza sull’autonomia da qualunque genere di autorità. Questo è il motivo principale della critica freudiana alla ragione. Egli vedeva l’essenza della religione come l’illusione di poter sostituire con la dipendenza da Dio la dipendenza originaria da un padre che soccorre e punisce. Nella fede in Dio l’uomo, secondo Freud, perpetua la sua dipendenza infantile anziché maturare, ovvero fare affidamento esclusivamente sulle proprie forze. Che cosa avrebbe detto Freud di una “religione” che afferma: «Tergi la tua bocca quando pronunci la parola Buddha»? Che cosa avrebbe detto di una religione in cui non vi è alcun Dio, alcun tipo di autorità irrazionale, il cui sommo ideale è proprio quello di liberare l’uomo da ogni forma di dipendenza, di renderlo attivo, di mostrargli che lui, e nessun altro, è interamente responsabile del proprio destino?
Ma, ci si potrebbe chiedere, questo atteggiamento antiautoritario non è in contraddizione con il significato che la figura del maestro ha nello Zen e con la figura dell’analista nella psicoanalisi? Ebbene, questa domanda rinvia a un altro elemento nel quale è riscontrabile una profonda connessione tra lo Zen e la psicoanalisi. Entrambi i sistemi riconoscono la necessità di una guida, di qualcuno che abbia già vissuto l’esperienza che il paziente (o il discepolo) si accinge a fare sotto le sue cure. Questo significa forse che il discepolo diventi dipendente dal maestro (o dallo psicoanalista), che le parole di quest’ultimo costituiscano per lui la verità? Senza dubbio, gli psicoanalisti si confrontano con il fatto di una tale dipendenza (transfert) e riconoscono il forte condizionamento che essa può operare. Tuttavia, lo scopo della psicoanalisi è comprendere e infine recidere questo legame, anzi portare il paziente a quello stadio di totale libertà dall’analista che gli viene dall’aver fatto personalmente l’esperienza di ciò che prima era inconscio e dall’averlo reintegrato nella propria coscienza. Il maestro zen, e lo stesso può dirsi dello psicoanalista, conosce più cose e quindi può essere certo del proprio giudizio, ma ciò non implica affatto che egli imponga il proprio giudizio al discepolo. Non è stato lui a cercare il discepolo, né gli impedisce di andarsene. Se questi viene volontariamente a lui e cerca volontariamente la sua guida per percorrere l’impervio cammino che conduce all’illuminazione, il maestro è disponibile a guidarlo, ma soltanto a una condizione: che il discepolo comprenda che, per quanto il maestro sia disposto ad aiutarlo, sarà lui a dover badare a se stesso. Nessuno di noi può salvare l’anima di un altro. Ciascuno può salvare soltanto la propria. Tutto ciò che il maestro può fare è agire come una levatrice, o una guida di montagna. Come disse un maestro: «Io non ho davvero nulla da rivelarti e se mai ho cercato di rivelarti qualcosa, avresti avuto ragione di mettermi in ridicolo. Inoltre, qualunque cosa io possa dirti è mia e mai potrà essere tua».
Un’immagine concreta e assai eloquente dell’atteggiamento del maestro zen si ritrova nel libro di Herrigel sull’arte del tiro con l’arco.3 Il maestro zen insiste sulla propria autorità razionale, ossia sul fatto che egli sa bene come acquisire l’arte del tiro con l’arco e deve privilegiare un certo metodo di apprendimento, ma non vuole alcuna autorità irrazionale, alcun potere sul discepolo, alcuna dipendenza protratta nel tempo del discepolo da lui. Al contrario, una volta che il discepolo sia diventato a sua volta maestro, egli lo lascia andare per la sua strada e tutto ciò che si attende da lui è ogni tanto un resoconto che lo tenga al corrente di come questi se la stia cavando. In altre parole, il maestro zen ama veramente i propri discepoli. Il suo è un amore realistico e maturo, interamente teso ad aiutare il discepolo a raggiungere la propria meta, pur sapendo che nulla di ciò che egli può fare riuscirà a risolvere il problema del discepolo, o a realizzare in vece sua le sue aspirazioni. Quello del maestro zen è un amore non sentimentale ma realistico, un amore che accetta la realtà del destino umano per cui nessuno di noi può salvare l’altro, e per cui tuttavia non dobbiamo mai cessare di compiere ogni sforzo per aiutare un altro a salvare se stesso. Qualunque genere di amore che non conosca tale limitazione, e si proclami in grado di “salvare” un’altra anima, è un amore che non si è liberato dalla mania di grandezza e dall’ambizione.
Non sembra necessario addurre ulteriori prove del fatto che ciò che si è detto del maestro zen in linea di principio è valido (o dovrebbe essere valido) anche per lo psicoanalista. Freud pensava che il modo migliore di garantire l’indipendenza del paziente dall’analista fosse l’adozione da parte di quest’ultimo di un atteggiamento impersonale, speculare. Ma anche analisti come Ferenczi, Sullivan e altri, i quali fanno della relazione che si instaura tra analista e paziente la condizione indispensabile per giungere alla comprensione, concorderebbero pienamente sul fatto che tale relazione debba essere libera da ogni sentimentalismo, da ogni distorsione non realistica e soprattutto da ogni interferenza – anche la più sottile e indiretta – dell’analista nella vita del paziente, persino da quella dettata dall’esigenza che il paziente guarisca. Se questi desidera guarire e cambiare, l’analista deve essere pronto ad aiutarlo. Se invece la sua resistenza a cambiare è troppo forte, non è compito dell’analista vincerla. Tutta la sua responsabilità sta nel mettere a disposizione del paziente il meglio del proprio sapere e tutto il suo impegno affinché si possa realizzare il fine per il quale, appunto, il paziente si è rivolto a lui.
Connessa all’atteggiamento dell’analista vi è un’altra affinità tra il buddhismo zen e la psicoanalisi. Il metodo di “insegnamento” dello Zen consiste nel mettere, per così dire, il discepolo alle strette. Il koan pone il discepolo nell’impossibilità di cercare rifugio nel pensiero intellettuale: è come una barriera che rende impossibile ogni altra fuga. L’analista fa, o dovrebbe fare, qualcosa di simile. Non deve incorrere nell’errore di imbottire il paziente di interpretazioni e spiegazioni che hanno il solo effetto di impedire a quest’ultimo di compiere il salto dal pensiero all’esperienza. Al contrario, deve annullare nel paziente le razionalizzazioni, gli appigli d’ogni genere, finché questi non abbia più via di scampo e, aprendosi un varco attraverso le finzioni che gli intasano la mente, sperimenti la realtà, divenga cioè conscio di qualcosa che prima gli era ignoto. Tale processo suscita spesso un’ansia profonda e talora essa può precludere l’apertura del varco, se non fosse per la presenza rassicurante dell’analista. Ma il conforto è tutto nello “stare lì”, non in parole che tendono a impedire al paziente di sperimentare ciò che è ineluttabile.
Sin qui abbiamo parlato di somiglianze solo marginali tra il buddhismo zen e la psicoanalisi; ma nessun paragone tra i due sistemi può risultare soddisfacente senza una considerazione attenta del nodo centrale dello Zen, l’illuminazione, e del nodo centrale della psicoanalisi, il superamento della rimozione, la trasformazione dell’inconscio in coscienza.
Riassumendo, abbiamo detto che lo scopo della psicoanalisi è rendere l’inconscio conscio. Tuttavia, parlare di conscio e inconscio significa scambiare le parole per realtà. Dobbiamo attenerci al fatto che conscio e inconscio si riferiscono a funzioni, non a luoghi o contenuti. Pertanto, possiamo parlare solo di vari gradi di rimozione, ovvero di stati nei quali affiorano alla consapevolezza soltanto quelle esperienze che riescono a passare attraverso il filtro sociale del linguaggio, della logica e dei contenuti. Nel momento in cui io mi sbarazzo di questi filtri e sperimento me stesso come uomo universale, nel momento cioè in cui la rimozione si indebolisce, io mi trovo a contatto con le più profonde sorgenti del mio essere, il che significa con l’umanità tutta. Se viene eliminata ogni forma di rimozione, nessun inconscio si oppone più al conscio, vi è esperienza diretta, immediata; poiché io non sono estraneo a me stesso, nessuno e niente è estraneo a me. Viceversa, fintanto che una parte di me è alienata da me e il mio inconscio è separato dal mio conscio (cioè io, uomo totale, sono separato dall’io, uomo sociale), la mia conoscenza del mondo è falsificata. In primo luogo, attraverso la distorsione paratattica, ovvero il transfert: io percepisco l’altro non con il mio io totale, ma con il mio io diviso, infantile, dunque lo percepisco come persona importante della mia infanzia, non come realmente è.
In secondo luogo, la persona che rimuove sperimenta il mondo attraverso una falsa coscienza. Egli non vede ciò che esiste, ma proietta sulle cose l’immagine che si è formata nella sua mente, le sue fantasie, anziché vederle nella loro realtà. È proprio l’immagine pensata, il velo deformante, l’origine delle sue passioni, delle sue ansie. Infine, l’uomo in cui ha luogo la rimozione, invece di sperimentare cose e persone, ha una percezione più che altro cerebrale del mondo. Vive nell’illusione di essere a contatto con il mondo, mentre invece è a contatto soltanto con parole. La distorsione paratattica, la falsa coscienza e il cerebralismo non sono forme di irrealtà completamente disgiunte; sono piuttosto aspetti diversi e tuttavia sovrapposti di uno stesso fenomeno di irrealtà che sussiste fintanto che l’uomo universale è separato dall’uomo sociale. È il medesimo fenomeno cui noi facciamo riferimento quando parliamo di alienazione, ovvero la proiezione di sentimenti e idee sugli oggetti, che conduce una persona anziché a sperimentare se stessa quale soggetto dei propri sentimenti, a lasciarsi dominare dagli oggetti che sono stati investiti di quei suoi sentimenti.
L’opposto dell’esperienza alienata, distorta, paratattica, falsa, cerebrale è la percezione immediata, diretta, totale, del mondo del neonato e del bambino prima che l’influenza dell’educazione la modifichi. Per il neonato, non esiste ancora alcuna separazione tra il me e il non-me. Tale separazione avviene in maniera graduale e si completa nel momento in cui il bambino può dire “io”. Ciò nonostante, la percezione del mondo del bambino rimane ancora relativamente immediata e diretta. Quando gioca a palla, egli vede realmente la palla in movimento, si cala completamente in quell’esperienza, ed è questo il motivo per cui essa può ripetersi infinite volte senza mai cessare di essere per lui fonte di gioia. Anche l’adulto crede di vedere la palla rotolare. Naturalmente è vero che egli vede l’oggetto-palla rotolare sull’oggetto-pavimento, ma di fatto egli non vede realmente il rotolare: egli pensa la palla che rotola sul pavimento. Quando dice «la palla rotola», in real...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Psicoanalisi e buddhismo zen
  4. Premessa
  5. I. La crisi spirituale contemporanea e il ruolo della psicoanalisi
  6. II. Validità e obiettivi delle concezioni psicoanalitiche di Freud
  7. III. La natura del benessere e l’evoluzione psichica dell’uomo
  8. IV. La natura della coscienza: rimozione e de-rimozione
  9. V. Principi del buddhismo zen
  10. VI. De-rimozione e illuminazione
  11. Copyright