Una gentilezza infinita
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Una gentilezza infinita

Storie vere di amore, cura e generosità raccontate da un'infermiera

  1. 288 pagine
  2. Italian
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Una gentilezza infinita

Storie vere di amore, cura e generosità raccontate da un'infermiera

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Le luci al neon, le pareti bianche e fredde. Il corpo di un bambino avvolto in un morbido lenzuolo. E una donna, china su di lui, che sussurra qualcosa mentre gli bacia il volto e gli accarezza le ginocchia. Molti piani più in basso, nel caos saturo di odori e voci del pronto soccorso, tra alcolisti, senzatetto e il viavai di medici e barelle, una vecchia dall'aria smarrita racconta di un abito da sposa confezionato con la seta di un paracadute. Da qualche altra parte c'è Tia, una bimba di cinque anni. La lastra mostra una grossa nuvola bianca, proprio al centro del cervello. Ma Tia ride, ride con gli altri bambini intorno a lei, e sua madre vorrebbe tenersi stretta per sempre quella risata. Intanto, nel reparto di psichiatria, Derek urla che qualcuno gli sta rubando l'anima, e quasi non si accorge che dalle braccia ricoperte di tagli il suo sangue zampilla come un torrente in primavera.

È un'umanità dolente quella che ogni giorno varca le soglie di un ospedale. Migliaia di persone che si affidano ai medici nella speranza di non vedere spezzato il filo che le lega alla vita. Migliaia di volti e storie diverse, accomunati dalla sofferenza e dal bisogno di aiuto, di comprensione, a volte solo di ascolto. Secondo Christie Watson - per vent'anni infermiera presso alcuni grandi ospedali di Londra - a farsi carico di questi bisogni sono in primo luogo gli infermieri. Sono loro a prendersi cura dei pazienti, somministrando farmaci, assistendoli nella pulizia personale e, soprattutto, offrendo attenzione, empatia, gentilezza, generosità, una parola di conforto, un gesto di compassione. E questo nonostante i turni massacranti e caotici, lo stress e la stanchezza; nonostante i continui tagli al bilancio, la cronica mancanza di personale, di posti letto, di formazione, di risorse drenate sempre a vantaggio della sanità privata. Una presenza silenziosa, quella degli infermieri, sottotraccia, data quasi per scontata nella routine ospedaliera. Una presenza fatta di «normale» eroismo quotidiano ed errori, di dedizione all'altro e distacco emotivo, di «linee guida» e fiducia nei colleghi, di preparazione e istinto, di competenza e autoriflessione. Una presenza imprescindibile per i pazienti e i loro familiari, perché, quando le cure falliscono e la speranza ha ormai lasciato la stanza, al capezzale del malato rimane solo l'infermiera a offrire quello che manca: la dignità, la pace, a volte anche un po' d'amore.

E di amore, in fondo, parla Una gentilezza infinita. Di amore per la vita, per questa cosa straordinariamente fragile che ci portiamo addosso, con tutte le sue meraviglie e i suoi orrori, e che ci insegna che solo insieme possiamo andare incontro a un destino impossibile da prevedere.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2018
ISBN
9788852089350
IV

All’inizio, il bambino

Nella vita non c’è nulla da temere, solo da comprendere.
MARIE CURIE
Ho studiato le teorie sull’infermieristica in una lingua arida e accademica difficile da comprendere. Ho cercato di visualizzarne la filosofia in reparto con i pazienti reali, ma non appena vi metto piede filosofi e teorici dell’infermieristica hanno ancora meno senso. Ho letto la Teoria Ambientale di Florence Nightingale, in cui sosteneva che l’ambiente è cruciale per il recupero di un paziente. Nightingale asseriva che «la parte principale dell’infermieristica consiste nel preservare la pulizia». Mi sforzo di ricordarlo, anche se è una magra consolazione quando l’infermieristica sembra ridursi alla raccolta di liquidi corporei: passo il tempo asciugando sangue da una parete; staccando feci secche e dure come sassi dalla schiena e dal collo di un neonato; strofinando strumenti e attrezzature nell’acqua saponata gettandovi dentro pasticche di disinfettante Milton, talmente forte da farmi lacrimare gli occhi.
Altre volte l’infermieristica si limita alle scartoffie: scrivo un piano assistenziale dopo l’altro, documento osservazioni e numeri, e appongo un migliaio di firme per garantire di avere controllato il farmaco giusto, il paziente giusto, l’ora giusta. Ci sono giorni dedicati al controllo: livelli delle scorte, date di scadenza, strumentazione disposta correttamente, abbastanza cancelleria nell’armadietto della cancelleria. Anche nei giorni più vari, quando l’infermieristica spazia tra il correre a recuperare un bambino dalla sala operatoria e il gestire emergenze mediche in corsia, tra il confortare un parente e il dare o spiegare cattive notizie, le teorie hanno poco a che vedere con quello che faccio concretamente.
L’infermiera Hildegard Peplau fu la prima, negli anni Sessanta, a elaborare la Teoria Interpersonale, e definì la professione dell’infermiere un’arte curativa: infermiere e paziente collaborano in modo da diventare entrambi maturi ed esperti durante il processo. Io, però, non mi sento matura. Il più delle volte mi sento sopraffatta, e certi giorni del tutto inadeguata. Altri giorni sono disgustata, e a tratti semplicemente annoiata e stanca. Virginia Henderson, infermiera e ricercatrice, è considerata l’infermiera più influente del Novecento. Ho letto la sua Teoria dei Bisogni e cercato di capire la sua famosa definizione dell’infermieristica:
La peculiare funzione dell’infermiere è quella di assistere l’individuo malato o sano nell’esecuzione di quelle attività che contribuiscono alla salute o al suo ristabilimento (o a una morte serena), attività che eseguirebbe senza bisogno di aiuto se avesse la forza, la volontà o la conoscenza necessarie, in modo tale da aiutarlo a raggiungere l’indipendenza il più rapidamente possibile.
Assistere le persone significa fare per loro quello che normalmente farebbero da sole, quando non hanno la volontà di farlo, finché non ritroveranno la volontà di farlo.
Faccio la spesa per la mia vicina, che non si sente bene. Cucino per un’amica che ha da poco partorito. Vado all’ufficio postale per mia nonna, e dagli allibratori per mio padre. Ma non mi sembrano cose da infermiera. Poi leggo una grandiosa teoria formulata tra il 1959 e il 2001 da Dorothea Orem, un’altra teorica dell’infermieristica, secondo la quale le persone dovrebbero essere autonome e responsabili delle proprie cure. Ho la testa piena di argomentazioni contrastanti su cosa sia realmente l’infermieristica.
Assimilo libri di testo su sviluppo, salute e malattie dell’infanzia. Scopro molte cose sulla filosofia dell’attaccamento, studio il lavoro sullo sviluppo infantile dello psicologo e psichiatra John Bowlby, e mi lascio affascinare dall’etica degli studi sull’attaccamento di Harry Harlow. In uno di questi studi, alcuni cuccioli di scimmia vennero lasciati da soli al buio fino a un anno dalla nascita. Ben presto le scimmie rivelarono gravi turbe psichiche che furono usate come modello per la depressione umana. Harlow chiamò la fossa in cui erano rinchiuse le scimmie «pozzo della disperazione». In seguito precipitò in un suo personale pozzo della disperazione, e anni dopo fu curato con la terapia elettroconvulsivante per una grave depressione.
I miei scaffali sono pieni di pesanti volumi accademici, che mi sono procurata perlopiù di seconda mano e conferiscono alla mia nuova stanza negli alloggi degli infermieri l’odore di una vecchia biblioteca. Cerco di concentrarmi sul Textbook of Paediatrics, Wong’s Nursing Care of Infants and Children, The Colour Dictionary of Childhood Dermatology (sconsigliato ai deboli di cuore, e a mia madre, che un giorno lo ha preso in mano distrattamente e, dopo averlo sfogliato, ha passato la notte in bianco).
Ann Casey è un’infermiera inglese che sviluppò il Modello Infermieristico di Casey lavorando in oncologia pediatrica. Le sue teorie sono famose nei reparti pediatrici, e tutta la documentazione fa riferimento alla cura incentrata sulla famiglia, nel senso che le persone più indicate per curare un bambino malato sono genitori, parenti o assistenti domiciliari con il supporto degli infermieri. In una recente intervista, tra le qualità di un buon infermiere Casey ha indicato un’innata gentilezza. Rispetto al concetto originario di «gentilezza» abbiamo fatto però molta strada.
Storicamente, l’infermieristica pediatrica prevedeva di scoraggiare le visite dei membri della famiglia perché turbavano troppo i bambini. Erano legati ai letti, malati e soli. Oggi le famiglie sono incoraggiate a essere presenti per tutto il periodo di degenza dei bambini. Per i parenti ci sono brandine di fortuna accanto al letto del paziente e l’ospedale mette addirittura a disposizione un’unità abitativa speciale alle famiglie dei bambini con malattie a lungo termine; spesso questi alloggi sono finanziati mediante iniziative benefiche, e nel tempo libero infermieri e medici partecipano alle raccolte fondi camminando per centinaia di chilometri, scalando montagne, facendo mega-biciclettate. Se gli alloggi speciali sono al completo mandiamo i parenti dei bambini malati in un albergo vicino, dove abbiamo negoziato buone tariffe. Purtroppo siamo nel centro di Londra, e a quanto pare anche ai lavoratori del sesso piacciono le stanze di albergo economiche. «Ci sono uomini dall’aspetto equivoco che continuano a bussare alla porta cercando Patsy» riferisce un genitore. «Per non parlare dei rumori nella stanza accanto.»
Non sono certo i libri o le teorie accademiche a insegnarmi come fare l’infermiera. Chiudo gli occhi e cerco di ricordare tutto quello che ho imparato in aula, da manuali e biblioteche, e dagli insegnanti di infermieristica. Invece mi torna in mente il mio ricovero in ospedale da bambina, quando presi la polmonite, e le successive reazioni anafilattiche agli antibiotici, e l’unico ricordo duraturo della mia degenza – avevo otto anni, e porto impressi nella memoria altri episodi di quel periodo – è quello di un infermiere che mi dà lo yogurt all’arancia imboccandomi molto lentamente, un cucchiaino dopo l’altro. Mi sono scordata completamente dei medici che mi curarono, eppure ricordo ancora il sapore di quello yogurt all’arancia.
Gli studenti di infermieristica a Londra hanno il doppio cognome e lunghi capelli mossi. C’è un solo maschio nel mio anno, ed è l’unico studente di infermieristica non bianco. Gli infermieri uomini ci sono sempre stati; ad Alessandria, nel III secolo d.C., erano chiamati parabalani, che significa «persone che rischiano la vita», essendo esposti a pazienti con malattie infettive (un titolo non attribuito alle donne). Durante le pestilenze che colpirono l’Europa erano soprattutto gli infermieri maschi ad assistere i malati. In America le scuole maschili di infermieristica erano abbastanza comuni fino agli inizi del Novecento, ma nel 1930 gli uomini erano soltanto l’1 per cento di tutti gli infermieri. A differenza delle campagne volte a incrementare e promuovere le opportunità per le donne in medicina, non vi sono state campagne analoghe per gli uomini nel campo infermieristico.
In alcuni paesi africani francofili – Ciad, Camerun, Guinea, Senegal e Ruanda, tra gli altri – gli infermieri uomini sono più numerosi delle donne. E nei paesi europei come Spagna, Italia e Portogallo si attestano intorno al 20 per cento. Ma nel 2016, nel Regno Unito, solo l’11,4 per cento degli infermieri era di sesso maschile. È stato scritto molto sulle possibili ragioni di questo fenomeno, e sull’idea secondo cui qualità come empatia e sensibilità non siano esclusivamente femminili. Ma anziché leggervi un’esclusione o una discriminazione nei confronti degli uomini, si potrebbe sostenere che quella dell’infermiere sia considerata una delle professioni (femminili) più umili, e dunque che l’atto assistenziale sia ritenuto di scarso valore. Le donne medico sono benaccette nel club, ma noi, in quanto infermiere, non sponsorizziamo il nostro club tra gli uomini, non perché non sarebbero i benvenuti ma per un motivo più profondo e molto più allarmante. Nella mia esperienza, gli uomini con cui ho lavorato nel settore infermieristico sono stati promossi rapidamente a posizioni manageriali. E le ricerche suggeriscono che, pur essendoci molte più donne infermiere, i relativamente pochi infermieri maschi sono pagati di più.
Lo studente di infermieristica Ismael vive con la moglie e tre figli e parla di loro in continuazione. Immagino diventerà un fantastico infermiere pediatrico. Per il resto, nel mio corso ci sono una ventina di donne studiose della classe media cresciute in contesti privilegiati. Tutt’altra cosa rispetto a Bedford – dove i miei compagni erano di varie età ed etnie, e venivano quasi tutti da famiglie operaie –, nonostante la breve distanza geografica. Ed è il mio primo assaggio delle differenze nella cultura infermieristica all’interno di una zona ristretta di Londra, perfino tra un ospedale e l’altro.
Ogni ospedale è un mondo a sé, con un’infrastruttura e una filosofia diverse da quello vicino. Nell’ospedale in cui lavoro al momento, gli infermieri sono leggermente arroganti e perlopiù all’antica. Sempre prepotenti. Eppure ripongo grandi speranze nel periodo che trascorrerò qui. È un istituto internazionale di pediatria d’avanguardia. Se vuoi imparare a occuparti dei bambini, questo è senz’altro il posto giusto. Nel 1918 la principessa Maria si formò all’ospedale pediatrico Great Ormond Street. E nel 1936 anche la principessa Tsahai – figlia dell’imperatore Hailé Selassié – completò i suoi studi da infermiera a Londra. Lavorò insieme agli altri studenti per le cinquantasei ore settimanali richieste, guadagnando un salario annuo di 20 sterline. Le insegnarono ad aiutare il prossimo, ma morì tragicamente a soli ventidue anni per un aborto spontaneo prima di poter mettere in pratica tutto ciò che aveva imparato.
Immagino la principessa Tsahai (era descritta come dignitosa ed elegante) e mi riempio di orgoglio, ripromettendomi di trarre il massimo non solo dalla seconda parte della mia formazione ma anche dalle occasioni alle quali avrò accesso vivendo nel centro di Londra: cultura, ristoranti raffinati, teatro, opera, balletto e arte. Ma dignità e stile non mi appartengono. Noi studenti di infermieristica del secondo anno ci scoliamo cocktail blu elettrico e sambuca alla fiamma in un baretto della zona, spettegolando sui nostri amanti. Beviamo troppo. Quando mio padre viene a trovarmi e porta il suo vicino per aiutarmi a finire il trasloco, gli vomito sulle scarpe dal sedile del passeggero di un furgone noleggiato. «Maledetti studenti!» dice, ignorando la mia mantella da infermiera, il berretto, la fibbia della cintura, e le mie proteste che dev’essere stato qualcosa che ho mangiato.
Per il mio primo tirocinio in pediatria mi mandano in Hackney Road, una zona che, prima dei locali alla moda e della rinascita spirituale, chiamiamo «Murder Mile». È un ospedale locale, nell’Est di Londra, e, pur essendo affiliato all’ospedale pediatrico specialistico in cui si svolge buona parte della mia formazione, sembra un altro mondo. Ho l’uniforme ben stirata, la fibbia sfavillante, l’orologio da tasca fissato al colletto, un assortimento di penne in tasca; le scarpe sono nuove, scricchiolanti e luccicanti: sono pronta.
Nel giro di due settimane ho scabbia, impetigine e pidocchi. Sono stata morsa da un bambino, ho dovuto fare il richiamo per l’epatite, e mi è toccato un «lavaggio oculare» dopo che un neonato al quale stavo cambiando il pannolino mi ha ricoperto la faccia di diarrea esplosiva. Mi aspettavo una pediatria d’avanguardia. Invece mi trovo a dedicare buona parte del tempo a bambini stitici che hanno bisogno di drenaggi intestinali a causa della pessima alimentazione; affetti da rachitismo per carenza di vitamina D; ai quali è stato necessario estrarre tutti i denti dopo avere bevuto Coca-Cola dal biberon per due anni; gravemente malnutriti («ritardo di crescita») o sottoposti a diete per la riduzione dei grassi; o che hanno preso il morbillo perché non sono stati sottoposti al vaccino MPR, e adesso hanno gravi complicazioni per avere contratto la malattia. Scopro che l’acronimo FLK, in riferimento ai bambini dismorfici, sta semplicemente per funny-looking kid. È come vivere in un romanzo di Dickens; e in effetti Dickens fu determinante per salvare un altro ospedale pediatrico londinese dalla bancarotta parlando durante una cena di gala e tenendo una lettura pubblica del suo Canto di Natale.
«Scusami» dico durante le consegne. «Cosa vuol dire? Non sono sicura di avere capito la diagnosi.» Siamo accalcati nella sala del personale a scribacchiare freneticamente informazioni su foglietti di carta. I muri sono tappezzati di pannelli informativi ormai datati. Tutto nella stanza è esausto: le sedie incurvate e mezze rotte, una pianta morta da tempo nell’angolo riservato alla macchina del caffè. Il bidone nell’angolo opposto è pieno zeppo di sacchetti di patatine e tazzine di plastica vuote. Ovunque c’è puzza di piedi e di condimento al manzo.
La caposala di turno mi guarda stringendo gli occhi. È un’irlandese grintosa e ossuta che ha la fama di girare per l’ospedale nel cuore della notte toccando i televisori con i palmi delle mani. Dio aiuti gli infermieri con i televisori caldi. La vedo farlo una volta e sembra quasi un atto spirituale: le braccia tese di fronte a lei, le punte delle dita allargate, le mani premute sullo schermo; si inginocchia davanti al televisore come in preghiera.
«Scusami,» ripeto «sono diabetici?» La mia mente passa in rassegna tutti i libri che ho studiato e non ricordo alcun accenno a trattamenti per la riduzione dei grassi. Scandaglio la mia memoria cercando informazioni sulle malattie infantili: mononucleosi infettiva, convulsioni febbrili, diabete, bronchite, appendicite, intussuscezione, anemia falciforme, sindrome nefrosica, croup, emofilia, fibrosi cistica.
Mi gratto la testa. I pidocchi sono tornati sebbene mi sia lavata costantemente i capelli ormai secchi e sfibrati con l’olio di tea tree. Mi prude dappertutto. Ho anche la tigna sull’avambraccio, un’area tonda, bianca e in rilievo, come un cerchio nel grano in miniatura.
«Le diete per la riduzione dei grassi» replica, facendo scivolare gli occhiali sulla punta del naso e scrutandomi da sopra, «sono diete per bambini grassi.»
Ricordo di avere letto di una malattia chiamata sindrome di Prader-Willi, e sto per farle un’altra domanda. Apro la bocca per parlare, ma lei mi zittisce con un gesto della mano scheletrica. La richiudo.
«Non c’è niente di medico qui, al momento. È tutto sociale» spiega. «I bambini sono grassi. Pericolosamente grassi. Esageratamente grassi. Ecco il perché delle diete per ridurre i grassi. Oppure sono stitici a causa di un altro tipo di alimentazione sbagliata. O hanno problemi emotivi, problemi mentali, o sono qui perché continuano a bagnare il letto. Ansia, anoressia, DOC, ADHD, depressione: di tutto e di più.» Si aggiusta gli occhiali sul naso e stringe le labbra sottili. «Vediamo anche ogni sorta di abuso su minori, nel reparto pediatrico. E non solo qui. In tutti gli ospedali, ovunque. Non sei più in Kansas, bella mia» dice.
Molti dei bambini di cui mi occupo durante il tirocinio sono semplicemente grassi. A livello globale, l’Organizzazione mondiale della sanità stima che nel 2015 il numero di bambini sovrappeso al di sotto dei cinque anni ha superato i quarantadue milioni. Nel Regno Unito, circa il 10 per cento dei bambini è obeso. E le cifre sono in aumento.
Trascorro la mia prima giornata cercando avanzi di pollo fritto portato di straforo o contenitori di hamburger nascosti, oltre a varie cose lanciate per tutto il reparto da un tredicenne di nome Jerome, che soffre di disturbi comportamentali oltre all’anemia falciforme ed è sotto flebo di morfina per alleviare il dolore. Mi occupo di un bambino grasso e asmatico che porta una canottiera di rete verde fluorescente e ha perennemente un rivolo di moccio che penzola sopra la bocca sorridente. «Li chiamiamo “rantoli felici”» dice l’infermiera di turno. «Be’, adesso va’ a ripulirlo.»
Gli infermieri pediatrici devono entrare in sintonia con i bambini e comunicare con loro quando sono spaventati e sofferenti. Ci ricordano una cosa che anche Florence Nightingale sapeva. La sofferenza e perfino la sensazione di dolore possono essere mitigate dalla gentilezza. Nightingale scoprì che dare a un paziente una finestra per guardare fuori, o un mazzo di fiori, influenza in modo rilevante la sua esperienza della malattia. I bambini in ospedale hanno bisogno di giocare. Il gioco è il lavoro – e la terapia – dell’infanzia. Perciò la play therapy è essenziale. Mentre imparo a occuparmi dei bambini, mia madre sta diventando terapeuta per i servizi sociali. Mi mostra le fotografie della sua l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Una gentilezza infinita
  4. Nota dell’autrice
  5. Introduzione. Anche a costo della vita
  6. I. Un albero di vene
  7. II. Tutto ciò che puoi immaginare è reale
  8. III. Le origini del mondo
  9. IV. All’inizio, il bambino
  10. V. La lotta per l’esistenza
  11. VI. Sotto le costole, a sinistra
  12. VII. Vivere è così sorprendente
  13. VIII. Piccole cose, con grande amore
  14. IX. Oh, le ossa della gente
  15. X. Così continuiamo a remare
  16. XI. Alla fine della giornata
  17. XII. Ci sono sempre due morti
  18. XIII. E il corpo del bambino si riscaldò
  19. Ringraziamenti
  20. Copyright