«Che significa “hanno avuto un bambino”?» domando, incapace di sbattere le palpebre.
«Sei grandicello, ormai dovresti sapere come funzionano certe faccende…» il marinaio sorride. Denti in bocca pochi, ma ci tiene a sfoggiarli mentre ride sguaiato.
«Intendi il re e la regina?» butto là.
«Intendo proprio quello che ho detto. Il toro e la regina…» le sillabe rullano sugli incisivi scheggiati «hanno avuto un bambino.» Senti com’è compiaciuto, il poco di buono. «Né uomo né animale, ragazzo mio. Una specie di mostro…»
Proprio come me.
Il tizio continua: «Quando è venuto al mondo… il corpo paffuto, le cosce rosate e quell’orribile testa di vitello…».
Deglutisco. Probabilmente scherza. Se ne sentono tante…
Allora perché ho i brividi?
«È stato più di dieci anni fa, ora il mostro è cresciuto: ha corna spaventose, tremende quanto quelle del padre. Dicono che si cibi di sangue, di carne viva. Ma nessuno mette piede là dentro, a meno che non ci sia costretto.»
«Là dentro?» domando mentre spazzo il mare limpido con lo sguardo.
Creta è in vista, nemmeno una bava di vento: avanziamo soltanto grazie alle braccia dello sdentato. Sembra sul punto di sputare l’anima, ma voga e parla da ore, il volto marcio di sudore.
Si alza in piedi di scatto, il legno barcolla, a momenti scivolo in acqua: «Il Labirinto» dice indicando la maestosa magnificenza che si staglia di fronte ai nostri occhi. «È là che l’ha rinchiuso il re, insieme a quella cagna di sua madre.»
Il Labirinto: liscio d’alabastro accecante, sotto il sole impietoso. Ha l’aspetto d’un gigantesco cono tronco, levigato da centomila scalpelli sapienti. Ne ho sentito parlare, naturalmente: chi non conosce la meraviglia di Dedalo l’Inventore? Ma solo ora che manca così poco alla spiaggia, solo adesso che la risacca mi spruzza il viso di promesse e minacce, mi pare di destarmi da un sogno.
«A destinazione, mio signore» sputacchia il marinaio, mentre assicura il povero legno a un molo zeppo di curiosi.
Creta è bianca di calcare selvaggio.
E rossa di vita che pulsa.
Gli odori del porticciolo mi travolgono: zuppa, pesce d’altura, sudore di cento schiene differenti, profumo di donna, d’aceto che i bambini hanno tra i capelli dopo una corsa a perdifiato, pelle muschiata, concia, gallina lessata.
I miei piedi sulla rena, l’inizio di un nuovo viaggio. Quello che mi aspetta.
Come ci sono arrivato, qui?
Mi scuoto, mentre una femmina dagli occhi bistrati si offre d’ingoiarmi in cambio di una moneta o di un tozzo di pane.
«Non farti tentare, o potente figlio di Zeus. Le puttane migliori sono a un giorno di cammino, ma ne vale la pena! Se vuoi, ti ci accompagno: in cambio, mi accontento d’una presa di sale.» Il ragazzino parla con voce da cialtrone navigato. Lo scanso e avverto la pressione sul petto.
Con gli occhi cerco il marinaio, ma tra la folla calda e appiccicosa di lui non v’è traccia.
Se scruto l’orizzonte, lo scorgo vogare lontano.
Sono di nuovo solo.
Un macigno sul cuore e il fiato corto che attanaglia gli insicuri.
Mi faccio largo tra imbonitori e incisivi spergiuri, accenno qualche passo di corsa, ma le gambe son di marmo. E pietra. E ghiaccio.
In qualche modo, però, non mi arresto e procedo fino ai limiti estremi della città, lasciando la calca alle spalle.
La fronte imperlata di sudore e le tempie che pulsano vermiglie.
Mi siedo nell’erba alta.
Respiro.
Come ci sono arrivato, qui?
Sono in viaggio da parecchio.
Nelle mie vene scorre il sangue d’un dio giusto e feroce. E di una donna gelida quanto l’alba sul Monte Olimpo. Sono stato scacciato dalla casa in cui sono nato per colpa della bestia che m’abita lo stomaco. Che mi rende folle d’una rabbia che non so spiegare. Tantomeno gestire.
Ho ucciso a sangue freddo il mio odiato maestro di musica e il folle gesto mi ha privato del mio retaggio. Son cresciuto in casa di Anfitrione, il marito di mia madre Alcmena. Ma, dopo l’incidente, mi ha mandato via: non riusciva più a guardarmi in faccia. Sono incapace di preservare il bello: una bestia di sangue. Ecco ciò che sono.
A volte penso che la rabbia stessa – e lei soltanto – sia il mantice che mi soffia la vita in petto.
Senza di essa mi sgonfierei come un otre asciutto.
Sarei niente.
Magari in pace, ma niente.
Una volta “libero”, ho continuato a uccidere: a causa dell’ira, in preda alla pazzia o semplicemente perché mi dà gusto farlo. In battaglia, soprattutto, quando il nemico accorre ciucco di boria e, dopo la carica, implora come una femmina leccando le suole dei miei sandali.
Ho ucciso i miei maestri, il mio migliore amico, il mio amore.
Ho fatto scempio della mia stessa carne, a causa d’una passione furibonda che mi strazia il petto.
Da allora ho affidato la mia rabbia e i miei muscoli al mio peggior nemico: mio cugino Euristeo, il Re Codardo di Micene.
Che mi comandi lui dove dannarmi: io anelo solo a essere nulla. A perdermi senza pensare: a crepare, se necessario. Incosciente e devoto fino a quando gli dei sanciranno che la mia colpa è liquefatta. E che forse – forse – esiste un posto per quelli come me in questo strano mondo.
Euristeo mi ha comminato delle “fatiche” per espiare il folle omicidio che mi macchia le dita: imprese improbabili che mi hanno condotto ai quattro angoli d’Acaia. Ho ruggito a Nemea abbattendo il temibile leone, son quasi morto a Lerna, decapitando cento volte l’Idra molesta, ho corso un anno appresso all’inafferrabile cerva di Cerinea. E ho passato il successivo a oziare, prima di ripartire per Erimanto a caccia del temibile cinghiale.
Il mio perfido schiavista non ha mai una sola parola di plauso per me: soltanto sputi, bastonate e una nuova, impossibile missione. Così sono ripartito per farmi sfregiare la carne dalle piume di bronzo dei terribili uccelli del Lago Stinfalo, per poi calarmi nello sterco fino alla gola, lustrando le stalle sterminate dell’ingordo re Augia.
Il mio nome, Ercole, contiene la mia maledizione: scelto per placare l’ira della Madre degli Dei – dichiarando devoto alla sua gloria il frutto lampante del tradimento di Zeus, il suo consorte – non fa che rendermi un bersaglio delle sue bizze. Era mi odia e rende la mia espiazione più dura.
A volte vengo sopraffatto dalla pressione e sento il bisogno di sottrarmi a questo gioco al massacro più grande di me. Allora fuggo, o m’imbarco nelle imprese sconsiderate che incoccio lungo la strada della redenzione.
È successo due mesi fa, quando il comandante Giasone è venuto a chiedermi di unirmi alla sua ciurma prodigiosa in procinto di partire per la Colchide, alla ricerca del Vello d’Oro.
Ho accettato: forse per semplice vanagloria o per illudermi di poter sfuggire, anche solo per un istante, alle terribili attenzioni della Madre degli dei. Ma non vi è pace per chi la colpa l’ha scolpita nelle carni a lettere di fuoco: poco dopo essere salpato insieme al resto degli Argonauti, mi sono innamorato d’un giovinetto di nome Ila. Ancora una volta mi sono illuso di avere diritto a un pizzico di felicità ma, a quanto pare, lassù qualcuno non è d’accordo.
Ila e io abbiamo litigato perché siamo diversi: d’anni, di cuore e di fortuna, dicono i saggi.
L’ho rincorso, ma Ila non s’è lasciato raggiungere.
Il mio cuore ha sanguinato, e infine Ila è scomparso. Ha disertato la missione, disubbidito agli ordini. Durante una sosta presso le coste della Misia s’è volatilizzato con la scusa di occuparsi degli approvvigionamenti di acqua e legname.
Ho temuto che gli fosse successo qualcosa e mi sono precipitato a cercarlo, abbandonando a mia volta l’Impresa delle Imprese per correre appresso a quel miraggio che gli stolti e i sognatori chiamano amore.
La ricerca è stata vana: non ho più saputo niente di lui perché, forse, Ila non vuol più sapere niente di me.
Ho ciondolato per giorni, indeciso se tornare alla catena.
Ho capito di non avere altro.
Di non meritare altro che supplizio ed espiazione.
E rieccomi a capo chino di fronte al perfido Euristeo.
«Dove sei stato, miserabile? Credevi di potermi sfuggire? Di aver pagato il tuo debito? Illuso! Quando avrò finito con te marcerai curvo e i tuoi capelli avranno il colore della merda di gabbiano!»
Il solito dolcissimo, premuroso Euristeo. Per gli dei, quanto mi è mancato…
Ascolto la sua voce aguzza a capo chino. È filtrata dal metallo del vaso in cui s’è rintanato, per paura che io possa nuocergli. Ancora non ha capito, dopo tanti anni che sono al suo servizio, che sono qui per nuocere soltanto a me stesso.
Dopo l’infinita sequela d’improperi, Euristeo è pronto ...