Lezioni di immortalità
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Lezioni di immortalità

La vita gli antichi e il senso dell'archeologia

  1. 168 pagine
  2. Italian
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Lezioni di immortalità

La vita gli antichi e il senso dell'archeologia

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«L'archeologia è più affine alla poesia di quanto possiamo immaginare, si tratta in entrambi i casi di svelamenti, perché in un frammento si svela il mistero delle domande che ci abitano da sempre.» Flaminia Cruciani, poetessa e archeologa, ha fatto parte per diversi anni della Missione archeologica italiana a Ebla, in Siria. Con Ebla «gli italiani hanno scoperto una nuova lingua, una nuova cultura e una nuova storia» ha affermato Ignace J. Gelb, uno dei maggiori assiriologi americani del Novecento. Questo libro però non è un manuale di archeologia, e non è neppure un diario di viaggio o di avventure. È il racconto sincero e appassionato della più bella lezione di immortalità che Flaminia Cruciani abbia ricevuto dalla vita: l'archeologia in quella terra millenaria che è la Siria con la sua straordinaria gente. Dalla preparazione del viaggio all'organizzazione delle attività di scavo, dal rapporto con la popolazione locale alle numerose difficoltà della vita nel deserto, grazie a un linguaggio poetico e fortemente evocativo, l'autrice ci restituisce l'emozione di un lavoro tanto affascinante.

L'archeologo è un investigatore, nella ricerca sul campo indaga, procede all'indietro rispetto alla direzione del tempo per resuscitare, fra stratificazioni, un passato perduto. Se l'antico sopravvive attraverso le rovine, che sono l'opera d'arte della natura, e attraverso i reperti, l'archeologia forse è il momento supremo, il kairos, dell'immortalità. «Mi è sembrato importante scrivere questo libro adesso, perché l'archeologia è l'unico modo di comprendere il presente. Per non dimenticare la Siria, terra di prodigi originari.» Un racconto ricco di pathos, che riguarda ognuno di noi, dove l'attenzione è posta sulle nostre radici. Flaminia Cruciani ci ricorda infatti che nel Vicino Oriente sono nati i miti più antichi, come la Saga di Gilgameš, la prima riflessione della storia sul tema dell'immortalità, in cui all'eroe viene svelato il segreto della «pianta dell'eterna giovinezza». Che ancora oggi, dopo oltre quattromila anni, l'uomo non si è stancato di ricercare.

Per i mesopotamici il tempo passato figurativamente era ciò che stava di fronte, mentre il futuro era dietro le spalle. «Con questo libro» scrive Flaminia Cruciani «voglio restituirvi un tempo ritrovato, giovane, che inventa la vita.»

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2018
ISBN
9788852089336
Argomento
History
XVIII

Gilgameš e la ricerca dell’immortalità

Il nostro corpo è una nave e naviga sopra acque
color blu scuro.
Qual è il nostro scopo? Far naufragio!
NIKOS KAZANTZAKIS
La più antica riflessione della storia sul tema dell’immortalità è certamente La saga di Gilgameš. Considerato il primo vero poema dell’umanità, anteriore di diversi secoli ai poemi epici greci e al Mahābhārata della letteratura indiana, è riconosciuto come l’epopea nazionale babilonese. Straordinario per liricità e profondità di tematiche, narra le avventure prodigiose del mitico re di Uruk, Gilgameš, che compie un viaggio alla ricerca dell’immortalità, assillato dal dramma esistenziale della morte e del suo superamento. Gilgameš in sumerico è «il vecchio uomo che è ancora un giovane uomo».
Il 3 dicembre 1872, a Londra, l’assiriologo britannico George Smith, poco meno che trentenne, durante un’assemblea della Biblical Achaeological Society, comunicò una clamorosa notizia: era stato identificato un racconto caldeo del Diluvio universale. L’interesse di Smith per possibili paralleli tra la storia vicino-orientale e quella biblica era condiviso da tutti gli orientalisti, all’epoca accomunati dal desiderio di dimostrare la storicità della Bibbia. Le due righe lette dal cuneiforme dall’assiriologo facevano parte dell’XI tavoletta della Saga di Gilgameš, che proseguendo le ricerche avrebbe identificato, e che per la prima volta dopo millenni era restituita all’umanità. Questo capolavoro ritornò alla luce, dal deserto della Mesopotamia, negli scavi archeologici condotti da un pioniere dell’archeologia, il già citato Sir Henry Layard, che, tra il 1845 e il 1851, esplorò la famosa capitale d’Assiria, Ninive, attuale Quyunjiq, con la sua straordinaria biblioteca voluta dal grande re Assurbanipal (668-627 a.C.) e dal suo amore per le arti e per la cultura.
La memoria di Ninive era alimentata, sino ad allora, solo attraverso le terrificanti immagini dei profeti di Israele che l’avevano ricordata come «la grande città», «la sferza dell’ira e della frusta del Signore». Molti dei resti rinvenuti in quelle spedizioni furono portati al British Museum e permisero di inaugurare la prima collezione inglese di antichità assire. L’enorme quantità di tavolette cuneiformi giunse a Londra in condizioni deplorevoli. Ninive era stata distrutta da Ciassare, re dei Medi, e da Nabopolassar, re di Babilonia, che riuscirono nel 612 a.C., dopo tre mesi di assedio, a piegare l’ostinata resistenza degli Assiri, entrare e versare il sangue nella loro capitale che venne saccheggiata e incendiata.
George Smith giunse all’identificazione del poema iniziando con l’isolare frammenti di storie mitologiche appartenenti alla stessa serie in cui ricorreva il nome di Izdubar (l’assiriologo chiamò provvisoriamente il personaggio principale Izdubar; l’esatta lettura del nome Gilgameš fu riconosciuta anni dopo). La Saga era stata scritta su dodici tavolette e Smith diede informazioni sommarie sulle leggende contenute, data la frammentarietà del racconto. Finanziato dal giornale «Daily Telegraph», fu inviato in quella che era stata l’antica Assiria a riprendere gli scavi; si recò a Ninive ben tre volte e le sue ricerche furono sempre coronate da successo, ma morì ad Aleppo, in Siria, nel 1876 durante l’ultima spedizione che si rivelò fatale.
Il prologo apre il racconto celebrando le virtù inimitabili del re di Uruk che non ha uguali in quanto a forza, vigore perfetto e prestanza sovrumana, «egli è per due terzi dio e per un terzo uomo». Designato come il quinto sovrano della prima dinastia di Uruk, secondo la Lista reale sumerica (un testo datato all’inizio del II millennio a.C.), egli avrebbe detenuto il potere dopo il Diluvio universale.
La Lista reale sumerica è un testo con cui gli antichi desideravano spiegare la natura della regalità, prima di tutto divina, poi unica e indivisibile. La Lista illustra le scelte delle divinità di inviare la regalità su una città o l’altra, una alla volta, e mai contemporaneamente. È interessante che la Lista registri i re prima e dopo il Diluvio, che qui è indicato come evento spartiacque, che sembrerebbe aver cambiato il rapporto fra gli dèi e gli uomini. All’inizio la regalità scese dal cielo a Eridu, nel Sud della Mesopotamia. Passando da Eridu a Bad-Tibira, poi a Larak, a Sippar e, di città in città, si arrestò nel paese di Sumer fino al Diluvio che spazzò via tutto. I regni dei re prediluviani sono lunghissimi, si dice che essi regnarono 28.800 anni, 36.000 anni, 43.200 anni e così via. Dopo il Diluvio la regalità discese nuovamente dal cielo nella città di Kiš. In questa lista ricorrono personaggi mitici, come Dumuzi, lo sposo di Inanna,1 che fra i re prediluviani regnò 36.000 anni a Bad-Tibira, e Gilgameš fra i postdiluviani che regnò 126 anni a Kulaba e si dice che suo padre era un fantasma. Fino ad arrivare alle dinastie più «recenti», in cui i nomi dei re corrispondono a quelli storicamente esistiti e i regni hanno durate più realistiche. È proprio attraverso la Lista reale sumerica che noi comprendiamo il significato del Diluvio nella mentalità antica. Infatti, i sovrani regnanti citati sono separati da questo evento e indicati come prediluviani e postdiluviani. Il Diluvio è stato per gli antichi come una frattura fra il prima e il dopo, un evento che separava la storia, come per noi la nascita di Gesù.
Quando Sir Leonard Woolley scavò Ur, in Iraq, fra il 1928 e il 1929, facendo alcune indagini al di sotto del Cimitero reale, datato fra il 2600-2400 a.C., si imbatté in uno strato compatto di argilla alto fra i 2 metri e 70 e i 3 metri e 70, che non conteneva nulla, solo cocci o frammenti rocciosi, e che interpretò come l’evidenza archeologica del Diluvio universale. Questo stesso strato alluvionale, alto soltanto 1 metro e 70, fu ritrovato sempre dall’archeologo al di sotto del tempio del dio Nanna a Ur. Woolley identificò alcuni strati che contenevano materiali databili al periodo Ubaid (IV millennio a.C.) sotto il livello alluvionale.
L’archeologo annunciò questo suo ritrovamento alla rivista «The Antiquaries Journal» nel 1929, affermando che il deposito archeologico era da identificare con quello della leggenda sumerica e quindi connesso anche alla storia biblica. Negli stessi anni, anche l’archeologo Stephen Langdon aveva rinvenuto durante gli scavi di Kiš, più a nord di Ur, un deposito di argilla molto simile, databile al III millennio a.C. Langdon fece una grande propaganda del ritrovamento delle tracce archeologiche del Diluvio sul «Times», il «Daily Telegraph» e l’«Illustrated London News». Si scatenò una guerra mediatica fra i due studiosi che volevano difendere il primato del ritrovamento (come se questo potesse cambiare le sorti dell’uomo oppure le loro).
Diversi archeologi successivamente impegnati in esplorazioni in Mesopotamia, a Šuruppak, Lagaš e Ninive, si imbatterono in strati con caratteristiche simili, ma con datazioni diverse. In alcuni casi, cedendo all’entusiasmo alcuni archeologi furono portarti a credere che l’archeologia confermasse il mito. E che si fosse trovata una cerniera materiale che ci agganciasse al tempo del mito.
È verosimile pensare che, in questa zona, le inondazioni fossero un fenomeno frequente e che il Diluvio non fosse uno soltanto, ma che nella regione si assistesse a frequenti nubifragi e inondazioni determinate da straripamenti del Tigri e dell’Eufrate a seguito di piogge torrenziali, di cui resta memoria anche in alcuni racconti biblici. Il fluire dell’elemento acquatico, con le sue manifestazioni, era un simbolo interiorizzato di un immaginario condiviso. Probabilmente ci fu un cataclisma anomalo per furia sterminatrice, tanto da imprimersi nella memoria comune e da diventare un racconto mitico in cui enfatizzare con slancio poetico la sua terribile violenza e le catastrofiche conseguenze.
«Il mortale silenzio di Adad avanza nel cielo, / in tenebra tramuta ogni cosa splendente. / [ ] Il Paese come [un vaso] egli ha spezzato … Gli dèi ebbero paura del Diluvio, / indietreggiarono, si rifugiarono nel cielo di An. / Gli dèi, accucciati come cani, si sdraiarono là / fuori! / Ištar grida allora come una partoriente.»2
Questo Diluvio a differenza di tutti gli altri spazzò via le opere dell’uomo.
«Io osservo il giorno. Vi regna il silenzio. / Ma l’intera umanità è ridiventata argilla. / Come un tetto era pareggiato il paese.»
Divenne il racconto simbolo della furia divina, della sua implacabilità contro l’uomo e dell’immanenza del male nella sua esistenza. Inciso per la prima volta su tavolette di argilla, il racconto del Diluvio, come una ferita arcaica che non cicatrizza, è giunto fino a noi attraverso la Bibbia ed è un testo che conserva intatta la sua forza poetica, ispirando ancora le nostre formule espressive o fantasie.
Il mito dei miti appare diffuso in tutta la letteratura babilonese e in quella biblica, mostrando un’origine del suo racconto in sumerico. In accadico abbiamo le maggiori attestazioni del racconto. Il poema di Atraḫasîs, di cui la più antica versione risale al regno di Hammurabi nel XVII secolo a.C., narra la storia della creazione dell’uomo fino al Diluvio. In questo poema l’eroe è appunto Atraḫasîs, che può essere identificato con Utanapištîm della Saga di Gilgameš. Chiamato Ziusudra, in sumerico, Utanapištîm o Atraḫasîs in accadico, Noè nella tradizione biblica e Xisouthros da Berosso, sacerdote di Marduk a Babilonia, è sempre lo stesso l’eroe che sopravvisse al cataclisma.
Berosso, che visse intorno al 300 a.C., scrivendo in greco racconta dell’eroe Xisouthros che scampò alla catastrofe, il cui nome è una evidente storpiatura del sumerico Ziusudra. È proprio questo che ci invita a supporre che il sacerdote babilonese si riferì alle più antiche fonti sumeriche per la redazione del racconto. La sua Babyloniaká, in tre libri, andata distrutta, è giunta fino a noi attraverso alcuni estratti riportati da Alessandro Polistore, uno storico greco che visse nel I secolo a.C. Il racconto del Diluvio, così tipico della tradizione mesopotamica fin dal periodo sumerico, confluì nella Saga di Gilgameš, come motivo celebre e rappresentativo che non poteva non essere inglobato nella saga nazionale babilonese.
Il Diluvio fu evento che rappresentò, senza ombra di dubbio, un taglio netto nella storia e restò così vividamente impresso sia in Mesopotamia che in Palestina tanto che Gesù stesso nei Vangeli vi farà riferimento (Luca, 17,26-27; Matteo, 24,37-39). Ma prima ancora che nei Vangeli, il mito confluì nell’Antico Testamento. Il Diluvio appare in Genesi 6-8, dopo la narrazione delle vicende che riguardano i discendenti di Adamo ed Eva, l’elenco dei patriarchi antidiluviani da Adamo fino a Noè. Si è concordi nel ritenere che il racconto del Diluvio in Genesi sia il risultato dell’intreccio di due versioni, una jahvistica dell’VIII secolo a.C., l’altra sacerdotale del VI secolo a.C. Ci sono alcune differenze significative fra le due tradizioni, in particolare riguardo alla presenza o meno di dettagli relativi alla costruzione dell’Arca, che ritroviamo solo nella sacerdotale. Oltre a divergenze sulla durata del cataclisma, quaranta giorni secondo la jahvistica, centocinquanta secondo la sacerdotale e l’assenza dell’episodio della colomba in quest’ultima.
Tornando a Gilgameš, mentre si è propensi a considerarlo un personaggio leggendario, alcuni studiosi ritengono che abbia effettivamente regnato a Uruk, intorno al 2650 a.C. Preceduto dal segno cuneiforme della stella, che designava il carattere divino, il nome di Gilgameš è uno dei pochissimi, nella Lista reale, a essere divinizzato.
La superbia dell’eroe è sconfinata e gli dèi preoccupati interverranno, per contrastare le sue prevaricazioni verso il popolo di Uruk, contrapponendogli un rivale affinché nella città ritorni la pace. Il dio Anu, che aveva accolto il lamento delle genti, affidò l’incarico alla grande dea Aruru, la quale «prese un pezzo di argilla e lo depose nella steppa» dando così la vita a Enkidu: un vigoroso essere primordiale dalla lunga chioma, ricoperto di peli, che si pasceva in compagnia del branco e saziava la sua sete nelle pozze d’acqua. Egli sarà poi elevato irrevocabilmente al rango di uomo dopo aver giaciuto sei giorni e sette notti con la prostituta Šamhat (qui il sesso ha la sorprendente funzione di rito di iniziazione alla civiltà).
Enkidu dopo avere sfidato Gilgameš in uno scontro titanico, che assume le proporzioni di un cataclisma, diventerà suo fraterno amico. Un rapporto, da alcuni considerato di natura amorosa, da altri solo di alleanza fraterna, che condurrà i due giovani eroi a cimentarsi insieme in avventure disumane. Ed ecco che nel cuore del poema troviamo i momenti cardine sulle loro intrepide imprese, racconti centrali e bellissimi, dai quali la narrazione si snoderà in modo irreversibile verso la tensione ultima della storia.
Gilgameš vuole guadagnare una gloria che duri in eterno: recarsi nella Foresta dei Cedri a tagliare le conifere, contro la volontà degli dèi, affrontando il suo temibile guardiano Ḫumbaba. Dalla formidabile battaglia il mostro, il cui grido è diluvio, il soffio è fuoco e l’alito è morte, uscirà sconfitto e decapitato. Gilgameš, quindi, ritornerà vittorioso nella sua città acclamato dal popolo. La dea dell’amore e della guerra Ištar, allora, sporgendosi dalle mura del tempio rimarrà affascinata dalla sua bellezza e se ne innamorerà offrendosi a lui in sposa, promettendogli un carro di lapislazzuli dai finimenti d’oro e altri incomparabili doni. Il deciso rifiuto del re di Uruk ad amarla, preoccupato per la fine che hanno fatto quei malcapitati dei suoi precedenti amanti, è espresso da parole oltraggiose: «[cosa mi succederebbe dopo] averti posseduta? / [Tu saresti come un forno che non fa sciogl]iere il ghiaccio, / una porta sgangherata che non trattiene i venti e la pioggia; / un palazzo che schiac[cia] i propri guerrieri … pece che bru[cia l’uomo] che lo porta … una scarpa che morde il piede del suo portatore». La dea allora furibonda si arrampicò fino al cielo e andò a lamentarsi dal padre Anu chiedendogli di creare per lei il Toro Celeste con il quale uccidere Gilgameš e incendiare la sua dimora, minacciando il dio di spalancare le porte degli Inferi se non avesse acconsentito. Il Toro Celeste scagliato su Uruk porterà grande siccità e devastazione, ma Gilgameš non si fermerà neppure davanti a lui e deciderà di abbatterlo, affondando il suo coltello fra le corna e la nuca, mentre Enkidu lo tratterrà saldamente per la coda. Il comportamento dei due eroi è considerato sacrilego e oltraggioso, essi si sono macchiati di una colpa gravissima avendo ucciso prima il mostro Ḫumbaba e poi il Toro Celeste.
L’assemblea degli dèi punisce la loro superbia decidendo la morte di Enkidu, che gli verrà annunciata da un sogno premonitore, in cui vedrà gli Inferi e osserverà le corone accatastate di coloro che avevano governato la terra, sin dai tempi memorabili. Proprio questo passaggio sembrerebbe essere rivolto al re di Uruk, che dovrà sottostare anche lui alla dura legge della morte. Allora vedremo Gilgameš disperato per la sorte ineluttabile di Enkidu, «l’amico mio [che io amo sopra ogni cosa, che ha condiviso con me o]gni sorta di avventura», che «è diventato argilla». Il dolore di Gilgameš è espresso da parole commoventi: «Per sei giorni e [sette notti io ho pianto su di lui,] / [né ho permesso che fosse se]ppellito, / fino a che [un verme non è uscito fuori dalle sue n]arici». Piange il re di Uruk vagando ramingo per la steppa, coperto soltanto di una pelle di leone, sopraffatto dall’angoscia incombente della morte, portando il dramma di Enkidu con la disperazione nel cuore.
La storia da qui si dipana in ampiezza nell’audacia di un viaggio ai confini del mondo conosciuto. Gilgameš va alla ricerca dell’unico uomo che sia scampato al tragico destino umano, l’eroe del Diluvio, Utanapištîm (in accadico «Ho trovato la mia vita»), per interrogarlo sulla vita e sulla morte: «“Da Utanapištîm, mio antenato [voglio recarmi;] / colui che entrò nella schiera degli dè[i, che trovò la vita,] / sulla vita e sulla morte [voglio interrogare.”]».
È nell’undicesima tavoletta che l’intero racconto del Diluvio universale, reso noto dal Libro della Genesi, è inglobato nella saga. Si rivelerà un percorso iniziatico in cui il re di Uruk attraverserà pericoli e luoghi malsicuri, seguendo il cammino del sole verso levante, percorrer...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Lezioni di immortalità
  4. Premessa
  5. I. Il bagaglio dell’archeologo
  6. II. Il Tell, ovvero dove lo scavo ha inizio
  7. III. Il villaggio di Mardikh
  8. IV. Lo scavo del tempo
  9. V. Archeologi di ieri e di oggi
  10. VI. Antichi banchetti
  11. VII. Ebla come Troia
  12. VIII. Semi millenari
  13. IX. Sargon, il primo imperatore
  14. X. Il mondo in un sigillo
  15. XI. Le tavolette dei destini
  16. XII. La dea dell’amore e della guerra
  17. XIII. In dialogo con un’anima antica
  18. XIV. L’alfabeto del cielo
  19. XV. La trowel
  20. XVI. Aleppo
  21. XVII. Il deserto e le città millenarie
  22. XVIII. Gilgameš e la ricerca dell’immortalità
  23. Conclusioni
  24. Bibliografia essenziale
  25. Ringraziamenti
  26. Copyright