Cari lettori,
una volta uno dei miei idoli ha detto: «L’aspetto peggiore di diventare vecchi è che non mi vengono più idee». Da quando le ho sentite, queste parole non mi hanno mai abbandonato, perché questa è la mia paura più grande: l’immaginazione che si spegne prima del corpo. Penso di non essere il solo a vederla così. La specie umana è strana, la nostra paura di invecchiare sembra perfino più grande della paura di morire.
Questa storia parla di ricordi e di addii. È una lettera d’amore, un lungo commiato tra un uomo e suo nipote, e tra un padre e suo figlio.
A essere sincero non avevo intenzione di pubblicarla. L’ho scritta solo perché stavo cercando di riordinare le idee, e sono una persona che ha bisogno di vedere sulla carta i propri pensieri per coglierne il senso. Invece si è trasformata in un breve racconto su come vivo la lenta scomparsa delle menti più brillanti che conosco, sulla nostalgia delle persone che sono ancora qui e su come volevo spiegare tutto questo ai miei figli. Ora ho deciso di condividerlo, per quel che vale.
Parla della paura e dell’amore, che sembrano quasi sempre muoversi di pari passo. Ma parla soprattutto del tempo. Finché ne abbiamo. Grazie per aver reso vostra questa storia.
Fredrik Backman
Alla fine di una vita c’è una stanza di ospedale al centro della quale qualcuno ha piantato una tenda verde. Al suo interno una persona si sveglia, ansimante e impaurita, senza sapere dove si trova. Un ragazzo al suo fianco sussurra:
«Non avere paura.»
Ecco qual è l’età migliore della vita, pensa un vecchio guardando suo nipote. Quando un ragazzo è abbastanza grande per sapere come funziona il mondo, ma ancora abbastanza giovane per rifiutarsi di accettarlo. Quando le gambe di Noah penzolano dal bordo della panchina e i piedi non toccano il suolo, ma la testa raggiunge lo spazio perché non ha vissuto così a lungo da permettere a qualcuno di tenere i suoi pensieri sulla terra. Suo nonno accanto a lui è incredibilmente vecchio, certo, al punto che la gente ha smesso di assillarlo perché cominci a comportarsi da adulto. Al punto che è troppo tardi per crescere. Neanche quell’età è poi tanto male.
La panchina è in una piazza, appena sveglio Noah sbatte le palpebre rivolto verso l’alba. Non vuole confidare al nonno che non sa dove si trovino, perché è sempre stato il loro gioco: Noah chiude gli occhi e il nonno lo porta in un posto in cui non sono mai stati. A volte il ragazzo deve tenerli serrati mentre cambiano quattro autobus in città, altre volte il nonno lo porta direttamente nel bosco dietro la casa sul lago. Ogni tanto vanno in barca, così a lungo che Noah si addormenta, e quando sono abbastanza lontani il nonno sussurra “apri gli occhi” e dà a Noah una cartina e una bussola con il compito di trovare una soluzione per tornare a casa. Il nonno sa che ci riuscirà sempre, perché ci sono due cose nella vita nelle quali la sua fede è incrollabile: la matematica e suo nipote. Quando era giovane, un gruppo di persone ha calcolato come far volare tre uomini sulla luna e la matematica li ha condotti lassù e riportati indietro.
In questo posto però mancano le coordinate, non ci sono vie d’uscita, né mappe che conducano qui.
Noah si ricorda che oggi il nonno gli ha chiesto di tenere gli occhi chiusi. Si ricorda che sono usciti di nascosto da casa sua e sa che lui l’ha portato fino al lago, perché il bambino riconosce tutti i suoni e i canti dell’acqua, con gli occhi aperti o no. Si ricorda il legno umido sotto i piedi quando sono saliti in barca, poi nient’altro. Non sa come lui e il nonno siano arrivati su una panchina in una piazza rotonda. È un luogo sconosciuto ma in cui tutto è familiare, come se qualcuno avesse rubato le cose con cui sei cresciuto e le avesse trasferite in un’altra casa. Poco più in là c’è una scrivania uguale a quella dello studio del nonno, con una piccola calcolatrice e dei fogli a quadretti per gli appunti. Il nonno fischietta piano una melodia malinconica, e dopo una breve pausa sussurra:
«Stanotte la piazza si è rimpicciolita.»
Poi riprende a fischiare. Quando il bambino lo guarda perplesso il nonno sembra stupito, solo allora si rende conto di averlo detto davvero.
«Scusa, Noahnoah, mi sono dimenticato che qui i pensieri non sono silenziosi.»
Il nonno lo chiama sempre Noahnoah, perché il nome del nipote gli piace il doppio di quello degli altri. Passa una mano tra i capelli del bambino senza scompigliarli, appoggia solo le dita.
«Non c’è niente di cui aver paura, Noahnoah.»
I giacinti sotto la panchina stanno fiorendo, un milione di piccole braccia viola si allungano dallo stelo per abbracciare i raggi del sole. Il bambino riconosce i fiori, sono quelli della nonna, profumano di Natale. Forse per gli altri bambini il Natale sa di biscotti allo zenzero e glögg, ma se alla vostra nonna piacciono le cose che crescono, per voi il Natale profumerà sempre di giacinti. Tra i fiori luccicano schegge di vetro e chiavi, come se qualcuno fosse inciampato facendo cadere il barattolo in cui erano conservate.
«A cosa servono tutte quelle chiavi?» chiede il bambino.
«Quali chiavi?» domanda il nonno.
Il vecchio ha gli occhi stranamente lucidi, si batte frustrato le tempie. Il bambino apre la bocca per dire qualcosa, ma quando se ne accorge si blocca. Rimane in silenzio e fa quello che il nonno gli ha detto di fare se si perde: osserva l’ambiente circostante alla ricerca di punti di riferimento e indizi. La panchina è circondata da alberi: il nonno li adora perché se ne fregano di ciò che pensa la gente. Sagome di uccelli si alzano in volo, si librano nella volta celeste affidandosi alle correnti. Nella piazza passa un drago, verde e sonnacchioso, e in un angolo dorme un pinguino con impronte di manine color cioccolato sulla pancia. Accanto a lui c’è un gufo soffice con un occhio solo.
Noah riconosce anche loro, una volta erano suoi....