Avevo diciannove anni e salivo un po’ affannata le scale di legno che portavano al Centro di poesia contemporanea di Bologna, là mi aspettava un poeta per parlarmi dei testi che gli avevo lasciato. Il Centro era una specie di solaio con due lucernai affacciati sui tetti della zona universitaria, c’erano dentro mobili da ufficio e oggetti strani, un vecchio divano e una lavagna scolastica. Lui aveva i miei fogli sulla scrivania.
«Ti dico quello che Giorgio Caproni ha detto a me: la stoffa c’è ma devi lavorare.» Mi aveva restituito i miei fogli pieni di segni e di croci, c’erano punti esclamativi, commenti a matita quasi illeggibili, parole cancellate. «La tua poesia è come una donna bellissima che entra in questa stanza con un vestito del Settecento, se adesso entrasse da quella porta, sotto tutti quei velluti e quei pizzi, io non riuscirei a vedere che è bella.»
Ero tornata a casa delusa, quello che era stato scritto di getto non poteva essere sbagliato. Mi ero portata via i miei fogli pieni di scarabocchi pensando che non avesse capito niente; e invece non avevo capito io.
Anche io all’inizio del bosco mi nascondevo, commettevo una dopo l’altra tutte le penalità del gioco: confondevo l’istinto con l’autenticità.
È venuto il momento di dire il quarto sì: il quarto sì è il lavoro.
Abbiamo scoperto il silenzio, l’ascolto, la parola che nasce come una dettatura, e così abbiamo iniziato a vedere. Poi abbiamo riconosciuto la presenza dell’altro all’interno della poesia, imparato a cercare il “tu”. Ora dobbiamo lasciare che nella scrittura entri il nostro sguardo, ma prima, come Psiche, dobbiamo imparare a guardare.
Me ne stavo distesa sul letto della mia casa da studente a rileggere all’infinito quei fogli. Come aveva potuto chiedermi di cambiare le mie poesie? Tutti i miei amici mi avevano dato ragione, ma io continuavo a guardare quei segni, come Psiche che avvicina la lampada non riuscivo a distogliere lo sguardo dalle parole trasformate. Non era l’orgoglio a non darmi pace, ma il fatto che senza quella parola barrata la mia poesia potesse essere tanto diversa, rivelarsi all’improvviso più forte e più bella. Fino a quel momento non me ne ero accorta; perché non lo avevo fatto da sola?
Come uno strumento che scopre il modo in cui accordarsi, la mia scrittura in quel momento ha iniziato il lavoro. Lo sguardo dell’altro non lascia mai indenni, è un effetto domino perché tocca in profondità la nostra consapevolezza e a volte lavora dentro anche se non lo ammettiamo, muovendoci a cambiare: quando qualcuno ci toglie la prima parola o ci chiede un perché, sentiamo una resistenza, ma segretamente iniziamo a rispondere. «Pensaci» dico al ragazzo perplesso che non vuole staccarsi dal suo scudo argentato, «e se questa parola è davvero necessaria decidi di tenerla.» Il lavoro non è altro che questo: la parola messa alla prova. Marina Cvetaeva, come sempre, lo dice in modo perfetto: «Massimo grado di ubbidienza all’ispirazione e capacità di tenere sotto controllo quell’invasione».
La poesia si scrive sempre in due tempi: quello in cui la scriviamo come se non fosse nostra, e quello in cui la leggiamo come se non fosse nostra.
«Sono ancora traumatizzato da tre anni fa» mi dice scherzando Zaccaria quando chiedo perché non mi manda quello che scrive. Aveva letto per primo davanti a tutti, nella prima lezione a cui partecipava, come uno che si butta in mare e nuota. «Mi avevi fatto dubitare di me stesso» dice, «ma andando avanti ho capito che è stato un bene, devo saper dubitare di me stesso.» Non ricordo nulla della prima poesia di Zac e di cosa gli avessi detto, ma l’effetto domino aveva innescato in lui lo stesso movimento che si era azionato in me di fronte a quei segni, nel bosco aveva iniziato a correre da solo, accordando il suo gesto come un atleta.
Li vedo superarmi, come foglie alzate dal vento.
Non sono bravo a gareggiare.
Ma se fosse tutto un gioco,
giocherei volentieri con te.
Senza vincitori né vinti.
La sua scrittura era cambiata nel tempo, le parole di Zac erano diventate pulite e lisce come il vetro, il calore si era irradiato in ogni lettera, era diventato un calore interno, come quello di un corpo vivo. No, non è una gara, ma non è neanche un gioco: è una caccia – dicevo all’inizio – in cui siamo la preda e il predatore, una caccia in cui noi stessi dobbiamo dettare la regola da rispettare. È ciò che aveva fatto Zaccaria: dubitando di se stesso, aveva trovato una misura.
I ragazzi che iniziano il lavoro finiscono per scrivere poesie più belle, e questa è solo la conseguenza del metodo che qui propongo; il lavoro è la ricerca della propria voce, ogni parola deve assomigliarci il più possibile. In poesia la forma è sostanza, per questo toccando la forma se ne scopre il senso segreto.
Immaginate di cantare da soli, come quando, mentre siete alla guida, alla radio trasmettono una canzone amata. Presto arriverà la nota che non riuscite a prendere. Potete avere un dono naturale ma la vostra voce, per quanto intonata, non potrà riprodurre al primo tentativo il suono che avete nella mente, il suo muscolo non è allenato per farlo. La stessa cosa accade nella poesia: ogni volta che scegliamo un nascondiglio assomiglia al momento in cui saltiamo una nota per non stonare, smettiamo di cantare per un attimo e mettiamo un’etichetta vuota alla cosa che non riuscivamo a dire. I più coraggiosi invece stonano, spezzano la voce, esagerano fino alla vertigine del ridicolo, come Zaccaria si lanciano, anche a costo di cadere; presto impareranno a misurare il passo e a conoscere la corsa e il terreno.
Vent’anni dopo quel pomeriggio ero di nuovo al Centro di poesia contemporanea, ospite del loro laboratorio commentavo i testi degli universitari. A turno i più giovani leggevano la loro poesia, uno alla volta venivano allo scoperto. Sui versi appena ascoltati anche io gettavo a voce quegli stessi segni, a ognuno mostravo un sentiero. Un ragazzo appena arrivato si alza in piedi: «Come potete trattare così la poesia? Hanno messo il loro cuore in quello che scrivono e voi lo demolite!». «Vi sentite demoliti?» chiede il giovane poeta che conduce il laboratorio del Centro di poesia, tutti gli altri rispondono no, si incontrano in quel bar proprio per fare laboratorio in questo modo. Ma Luca va in crescendo, gli trema la voce e non mi sente quando provo a raccontargli di quelle prime croci sulle mie poesie... «No! La poesia è soggettiva! Non è mai sbagliata!» urla. «Tu non ascolti! Se fai così puoi andartene» esplode uno dei ragazzi.
«Non andare!» gli dico. «Io voglio sentire una tua poesia, ti dirò quali sono, secondo me, i punti forti e quelli deboli e tu mi dirai se non sei d’accordo.» Mi piaceva il modo in cui Luca si era alzato in piedi, come se gli avessimo toccato una ferita; doveva essersi chiesto per tutto il tempo se leggere anche lui, la sua resistenza aveva già iniziato un lavoro.
«Ok» risponde con aria di sfida, «ne leggo una corta e una lunga.» La poesia corta si intitolava Aborto, recitava solo una data. «Questa è una trovata, adesso fammi sentire una poesia» dico. «Io quel giorno ho abortito me stesso.» «Però hai rinunciato a scriverlo. Fammi sentire la poesia lunga.» Non mi risponde, sta di nuovo litigando con gli altri, agitato se ne va. Deve aver fatto dieci passi circa fuori dal locale, dieci passi in cui ha combattuto una guerra. Poi torna indietro. In piedi, con il cappotto addosso, ci interrompe di nuovo, senza dire nient’altro si mette a recitare a memoria la sua poesia lunga. La dice benissimo, è portato dall’emozione; è un testo complesso, pieno di talento, di ritmo, di armonia. Finisce, tre ragazzi a un tavolo accanto applaudono, lui sorride come se fosse l’applauso di un teatro intero; all’improvviso cadono le armi.
«Questa poesia è come un abito sartoriale di quelli che non si vedono quasi più, ha qualcosa di antico, ma non è fasulla, la stoffa è bella, cade perfettamente e tutte le cuciture tengono; qui non c’è solo una trovata, c’è uno stile» dico. «Però ci sono alcuni punti in cui non ti sei accorto che la stoffa è consumata, ad esempio quando dici “languide ombre”, scegli un aggettivo usurato, cede per un attimo la trama e il tessuto sembra vecchio. Puoi trovare un aggettivo che mantenga la tensione visionaria che hai nel resto della poesia, devi sceglierlo tu. Pensaci.»
Quella sera Luca è rimasto, la settimana dopo è tornato. Continua a seguire gli incontri del Centro di poesia, tra quegli universitari è l’unico che ogni tanto mi scrive.