Le stelle di Lampedusa
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Le stelle di Lampedusa

La storia di Anila e di altri bambini che cercano il loro futuro fra noi

  1. 168 pagine
  2. Italian
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Le stelle di Lampedusa

La storia di Anila e di altri bambini che cercano il loro futuro fra noi

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Quando Pietro Bartolo, medico di Lampedusa, vide Anila per la prima volta rimase di sasso. Quella bambina non avrà avuto più di dieci anni. Che cosa ci faceva una creatura così piccola, da sola, in una nave piena di naufraghi disperati? Di solito, ragionò, i bambini di quell'età arrivano qui in Italia accompagnati dai genitori, o da un amico di famiglia o da qualche altro adulto conosciuto lungo il viaggio.

Allo stupore di quel primo istante seguì una certezza: l'arrivo a Lampedusa per Anila non era la fine di un lungo viaggio ma solo una tappa intermedia, un nuovo punto di partenza verso il suo vero obiettivo, trovare la mamma «da qualche parte in Europa» e salvarla. Da tutto. Dalla prostituzione, dal vudù africano che la teneva in scacco, dalla non meno malefica burocrazia occidentale, ma soprattutto dai suoi stessi sensi di colpa.

Pietro Bartolo accetta di accompagnare Anila lungo questo suo nuovo percorso. E, attraverso i suoi occhi neri e profondissimi, si proietta dentro l'interminabile incubo dei tanti migranti bambini che negli anni sono arrivati - da soli - sulle coste italiane: la miseria di Agades, la traversata del deserto, gli orrori delle carceri libiche, il terrore del naufragio nelle acque gelide di un Mediterraneo invernale e ostile.

A metà strada esatta tra un romanzo di formazione e un documentario, queste pagine ci permettono di toccare con mano, di scoprire in prima persona che cosa c'è davvero dall'altra parte dell'«allarme immigrazione», quello che troviamo rilanciato negli slogan più beceri di questo medioevo permanente in cui la politica ci ha catapultati.

Un libro per capire l'importanza di essere testimoni. Perché, alla fine, l'unico pericolo che corre davvero la nostra civiltà davanti al tumultuoso flusso migratorio di quest'epoca è quello dell'incomprensione e della stupidità.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2018
ISBN
9788852090264
IV

La notte di Anila

Ricordare Anila, parlare di lei, raccontare la sua incredibile storia, è una delle poche cose che mi fa stare meglio in questo periodo.
Era una notte di fine dicembre. Da mesi Lampedusa era il fronte estremo di una guerra persa. Al poliambulatorio, sul molo, a bordo delle motovedette in mezzo al mare, nelle corsie del centro di accoglienza, ovunque, combattevamo tutti, dalla mattina alla sera, ciascuno con i mezzi del proprio mestiere. Non c’era altro da fare, e nessuno voleva fare altro. Anche se eravamo stremati.
I migranti arrivavano a ogni ora del giorno e della notte, qualunque fossero le condizioni meteo. Le imbarcazioni che li portavano venivano tutte dalla stessa parte del mare, dallo stesso punto dell’orizzonte: dalla Libia. Ma loro provenivano da ogni parte del mondo: Siria, Gambia, Nigeria, Sudan. E ad accoglierli, trovavano sempre noi. Sempre più stanchi, sempre più pallidi, sempre più spaventati da quell’inarrestabile emorragia del mondo.
Non ricordo esattamente che ore fossero quando squillò il mio telefonino. Era notte fonda. L’alba era poco più di un’ipotesi, almeno a giudicare dal cielo nero e profondo. Faceva freddo. La voce dell’uomo della capitaneria di porto era concitata. Bisognava correre di nuovo al molo Favarolo, perché stava arrivando un’altra motovedetta con a bordo sessanta persone intercettate su un peschereccio di Mazzara del Vallo.
Non ci volevo credere. Non avevamo nemmeno cominciato i trasferimenti al centro d’accoglienza degli 87 profughi arrivati poco prima a bordo di una nave della marina militare, che già bisognava ricominciare.
Da quanto era stato possibile ricostruire fino a quel momento, il disastro era avvenuto a trenta miglia di distanza dalle coste libiche, più o meno fra Tripoli e Misurata. Diverse imbarcazioni militari italiane, un paio di navi delle Ong e alcuni pescherecci erano intervenuti sul posto per cercare di trarre in salvo quanta più gente possibile da un barcone in avaria che era salpato con un carico di 550 passeggeri. Le operazioni erano state drammatiche; tre persone erano state trovate morte, mentre altre tre – fra cui una donna incinta – erano in una condizione di ipotermia grave, tanto che le avevamo immediatamente mandate a Palermo con l’elisoccorso. Avevano bisogno di cure che non potevamo dargli nel nostro poliambulatorio, e sarebbero certamente morte se non ci fossimo sbrigati.
Le sessanta che stavano arrivando, invece, erano state salvate da un motopeschereccio, Poseidone. I pescatori erano in mare da cinque giorni, era la prima uscita stagionale dopo la lunga pausa del periodo festivo, e avevano fatto rotta in direzione delle zone ricche di banchi di gambero rosso quando la capitaneria di porto italiana li aveva contattati chiedendogli di andare a dare una mano nelle operazioni di salvataggio. La comunicazione non era ancora conclusa, che già il comandante del peschereccio aveva impostato la rotta verso il punto indicato da Roma.
Il Poseidone era stata tra le prime imbarcazioni ad arrivare sul posto e tra le ultime ad andarsene. E dopo aver trasbordato i sessanta passeggeri sulle due motovedette della guardia costiera, i suoi uomini avevano deciso di fare rotta verso Lampedusa per vedere di dare una mano anche a terra. I pescatori sono fatti così, li conosco bene. Sono pescatore anche io, era pescatore mio padre.
Chiusi la conversazione con la capitaneria di porto, andai nella stanza a fianco alla mia. «Dai, andiamo al molo che ne arrivano altri, forza» dissi ai miei collaboratori, che si alzarono di scatto e, senza nessun indugio, indossarono i giacconi pesanti.
Pochi minuti dopo eravamo di nuovo lì, al nostro posto di combattimento, e cioè sulla banchina a contemplare la perfezione di quel buio Mediterraneo. Uno schermo nero e freddo con una lucina proprio nel mezzo che, secondo dopo secondo, diventava sempre più grande. Erano le due motovedette con il loro carico di disperazione che lentamente si avvicinavano a noi.
Quante volte ho vissuto quella scena negli ultimi trent’anni? In ogni guerra c’è sempre un dottore che aspetta l’arrivo di morti e feriti dal fronte, dopo una battaglia. Lo si vede in tutti i film: un uomo inquieto che gira per le corsie vuote, si assicura che ognuno sia al suo posto, che il magazzino sia pieno di antibiotico, che tutto sia pronto.
Era lo stesso per me. Anche se non ero in un ospedale, scalpitavo sul molo in attesa delle motovedette.
La legge stabilisce che, a ogni arrivo, io sia il primo a salire a bordo per rendermi conto della situazione e per vedere se c’è qualcuno con sintomi di malattie infettive. Così, da protocollo, salgo sull’imbarcazione e mi do una rapida occhiata intorno. Di solito questo è uno dei momenti peggiori. Perché il medico deve prevalere sull’uomo, ma non è facile. Non è facile incrociare gli occhi di decine di persone disperate e distrutte da un viaggio interminabile e doversi limitare a indagare eventuali sintomi di improbabili malattie infettive.
Faccio fatica a spiegare la delicatezza di quegli attimi. Bisogna essere veloci e rassicuranti. Furbi e precisi. Perché lo sbarco è uno dei momenti decisivi dell’intera tratta dei migranti. Quello in cui, spesso, si regolano i conti tra passeggeri e scafisti. Quello in cui si rinsalda il vincolo tra chi ha pagato – o ha promesso soldi – per fare il viaggio e il suo «protettore». E tu sei lì, a controllare che nessuno abbia la scabbia, a cercare macchie sul palmo della mano, ombre sul fondo degli occhi. Occhi smarriti che non hanno niente da raccontare se non l’inferno che hanno attraversato, i figli che hanno visto morire, la fame che hanno avuto. Quelle persone dopo essere fuggite da città in guerra e attraversato deserti pericolosi, dopo mesi o anni di detenzione nei lager e la traversata nel Mediterraneo, non sanno più dove si trovano e spesso nemmeno più dove stanno andando. Non sanno se l’uomo che adesso gli prende la mano per controllarla li sta per condannare, per rapinare, o vuole solo dargli un antibiotico.
Le due motovedette erano ormai all’ingresso del porto e gli uomini della guardia costiera stavano preparandosi alla manovra. Aiutai a passare la cima d’attracco e con un salto montai a bordo. «Dottore, sono sessanta.» La scena era la stessa di sempre. Mi guardai intorno e mi trovai circondato, assediato, da sguardi terrorizzati e dolenti. Avrei fatto qualsiasi cosa per rassicurarli. Per dire loro: «Non preoccupatevi, l’incubo è finito. È stato un inferno ma ce l’avete fatta e ora andrà tutto bene».
Ma non sono uno sprovveduto, ho visto troppe scene del genere per non sapere che sarebbe stata una bugia. Che l’incubo non era affatto finito. Che avrebbero sbattuto contro un muro durissimo di diffidenza. E, però, era anche vero che da quel momento e per i giorni successivi nessuno avrebbe fatto loro del male, e anzi li avremmo accuditi, curandoli, sfamandoli, dando loro da bere. Avrei voluto dirglielo, ma non c’era il tempo.
Bisognava visitarli uno per uno e mandarli al centro. Non avevano infezioni, su questo ci avrei scommesso. Non succedeva quasi mai. Anzi, di solito i profughi si ammalano qui. Arrivano indeboliti dal viaggio, e il loro sistema immunitario fatica a adattarsi al nuovo ambiente. Ma è difficile che arrivino qui con infezioni.
Il primo controllo fu molto rapido. I pochi che parlavano qualche lingua occidentale raccontarono che si trattava per lo più di gente fuggita dall’Africa subsahariana e imbarcatasi in Libia.
Non avevano infezioni, no, non erano pericolosi. Però stavano quasi tutti male, erano disidratati, allo stremo, e alcuni di loro avevano i sintomi di una ipotermia già abbastanza avanzata. Insomma, si poteva procedere allo sbarco, all’identificazione e al trasferimento verso il centro di accoglienza.
C’era, però, una cosa che volevo fare.
Una delle prime stranezze che avevo notato salendo a bordo della motovedetta è che in un angolino, tutta sola, c’era una ragazzina che sembrava abbandonata. Di solito i bambini viaggiano insieme a qualcuno: quando non sono i genitori, sono amici di famiglia o addirittura persone conosciute occasionalmente a cui i genitori – spesso morti durante il tragitto – hanno affidato i loro figli per assicurarsi che potessero arrivare dall’altra parte. E nei momenti concitati dello sbarco, i bambini stanno avvinghiati a chi li accompagna: sono giunti in un mondo nuovo e hanno paura. È comprensibile.
Lei invece cercava di non farsi notare, di nascondersi in mezzo agli altri passeggeri. Teneva lo sguardo basso. Così mi sforzai subito di memorizzare la sua posizione per poterla tenere d’occhio nei minuti successivi. E di tanto in tanto tornavo con lo sguardo a controllare che cosa faceva e chi le si avvicinava. Ma niente, quella bimba era da sola. E l’unica cosa chiara era che aveva molta paura.
Ed era comprensibile. Una bambina può valere molti soldi per un trafficante di uomini. Ci sono mille modi in cui certa gente può speculare sulla vita di una creatura come quella: può venderla, avviarla alla prostituzione, rintracciare i suoi genitori e ricattarli. Se, come capita quasi sempre, a bordo ci fosse stato uno della Rete o qualche altro balordo, ci avrebbe messo pochissimo a spacciarsi per il padre o per un parente e a farla sparire una volta arrivati sulla terraferma. Se ci fossimo distratti, la vita di quella bambina sarebbe stata distrutta. Così mi avvicinai e cercai di stabilire un primo contatto con lei.
Aveva tutti i capelli arruffati e la faccia sporca di polvere. Si faceva fatica a capire quanti anni potesse avere. Forse nove, forse undici. Aveva lo sguardo profondo e serio di certi adolescenti, ma i lineamenti e l’espressione di una bimba. La cosa che saltava all’occhio, però, era la sua tristezza.
Faceva fatica a parlare. In realtà, non parlava proprio. «Da dove vieni?» «Come ti chiami?» «Dov’è tuo papà? Tua mamma?» Glielo ripetevo in tutte le lingue in cui potevo. Niente. Era difficile comunicare e lei rimaneva immobile, seduta in quell’angolino che aveva battezzato come il suo, e non dava alcun cenno di risposta. E più passavano i minuti e più mi rendevo conto che con lei non c’era davvero nessuno. E dunque era in pericolo.
Alzai per un attimo lo sguardo, vidi il ponte della motovedetta, il molo, il mare nero, gli uomini impegnati nelle operazioni di sbarco. E mi fu chiaro che dovevo fare qualcosa, non potevo lasciare che quella bimba venisse inghiottita dalla macchina burocratica dell’isola e «scaricata» dentro il centro di accoglienza affollato di profughi disperati.
L’aiutai ad alzarsi e la invitai a seguirmi. Contrariamente a quanto mi aspettavo, notai con sollievo che non faceva alcuna resistenza. Zoppicava un po’, ma camminava al mio fianco senza timore, anzi vedevo che cercava anche di tenere il passo.
«Dottore, dove la porta?» mi chiese una poliziotta mentre ci dirigevamo verso la mia macchina.
«Al poliambulatorio… È piccola e debilitata, ha bisogno di una visita specialistica pediatrica. Sta male, la visitiamo là» risposi in tono categorico.
Dopo pochi minuti eravamo in infermeria, pronti per la visita. La piccola si guardava attorno come per cercare aiuto, eppure continuava a non proferire parola. Io avevo deciso di cambiare strategia e di smettere per un po’ con le domande. Tanto era chiaro che non aveva alcuna voglia di parlare, di dirci chi era. Per il momento era meglio farle capire con i fatti che poteva fidarsi di noi, che ci saremmo presi cura di lei. Le feci preparare un tè con i biscotti e poi, insieme con le infermiere, la facemmo accomodare sul lettino per una visita più completa. Appena spogliata, ci rendemmo conto della situazione e di quanto dolore dovesse provare quella bambina. Aveva la «malattia del gommone».
Non che vada particolarmente orgoglioso della cosa, ma il nome l’ho inventato io. Si tratta di una patologia che ho riscontrato sempre più spesso, specialmente da quando i trafficanti hanno smesso di organizzare dei viaggi con barche in grado di fare l’intera traversata, ma hanno cominciato a usare i gommoni, ché tanto se poi si rovesciano o si piantano in mezzo al mare arriva qualche vedetta o qualche peschereccio e carica i superstiti. Quelle imbarcazioni sono spesso spinte da motori piccoli, con serbatoi altrettanto piccoli che vengono riempiti in mezzo al mare dagli scafisti. Inevitabilmente succede che la benzina fuoriesca dal serbatoio. Ora, la disposizione dei migranti a bordo durante le traversate non è mai casuale. Esternamente, a cavalcioni sul bordo dello scafo, si mettono gli uomini più in forze, mentre al centro, seduti sul fondo, le donne, i bambini e i malati. E sono proprio loro quelli a cui più spesso ho diagnosticato questa malattia.
La benzina fuoriuscita dai serbatoi si raccoglie sul fondo dell’imbarcazione e lì si mischia con l’acqua salata creando una miscela corrosiva, ustionante. Questa miscela inzuppa tutto, gli abiti delle persone che sono sedute al centro della barca, i loro capelli, gli oggetti che portano con sé. Come tutti i flagelli, anche questo si presenta con l’inganno: la miscela di benzina e acqua salata a contatto con la pelle produce una sensazione piacevole, di calore diffuso, e considerando che la maggior parte di questi viaggi avviene di notte, quando in mezzo al mare fa freddo e c’è molta umidità, è comprensibile come nessuno faccia niente per evitare di stare a mollo lì dentro. Pensano di scaldarsi. In realtà, bruciano. Quel liquido divora la pelle e la carne. Ma quando se ne accorgono è troppo tardi.
Anche quella bambina dolcissima e spaventata aveva la malattia del gommone. Con le mani continuava a indicare le parti intime, le ustioni le aveva proprio lì. Evidentemente aveva viaggiato seduta sul fondo della barca.
Per fortuna, le sue ustioni non erano troppo gravi. Nei giorni precedenti, ma anche quella sera stessa, ne avevo viste di ben peggiori. A lei sarebbe stata sufficiente una medicazione ben fatta e un po’ di attenzione nei movimenti nei giorni successivi. Le infermiere dell’ambulatorio la adottarono praticamente all’istante. La lavarono tutta, le applicarono creme e garze, e le trovarono dei vestitini caldi e puliti. Nel giro di un paio d’ore, la piccola aveva completamente cambiato aspetto. Adesso sembrava una principessa uscita fuori da una fiaba africana. Per quanto tristi, i suoi occhi profondi scintillavano nella notte illuminata dai neon della corsia.
Nel mio ufficio continuavano ad arrivare i poliziotti. «Dottore, ma perché state trattenendo qui la bambina?» chiedevano sospettosi. Mica la volevo rubare. È solo che non avevo nessuna intenzione di mandarla da sola nel centro di accoglienza. Non mi fidavo, c’era un sacco di gente, un sacco di uomini, era un periodo intenso di sbarchi e, con ogni probabilità, avrebbe potuto tornare sotto il controllo di chi l’aveva fatta imbarcare.
«Perché ha bisogno di cure, e possiamo dargliene solo qui dentro. Tanto al più presto la trasferiamo a Palermo… al centro ustioni.»
I poliziotti facevano una faccia poco convinta ma non si azzardavano a replicare. La bimba sarebbe rimasta lì con noi, quella notte.
Dormimmo tutti poco. Un po’ perché ormai era tardi e l’indomani, comunque, avremmo dovuto cominciare molto presto, un po’ perch...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Le stelle di Lampedusa
  4. I. La Porta chiusa
  5. II. Alì e la trave
  6. III. Le tenebre
  7. IV. La notte di Anila
  8. V. L’impossibile
  9. VI. Numeri
  10. VII. Monique
  11. VIII. Marsiglia
  12. IX. La strega
  13. X. Le strade di Alicante
  14. XI. Buon Natale
  15. XII. Fiamme e stelle
  16. XIII. La Favorita
  17. XIV. L’epidemia
  18. XV. Guernica
  19. XVI. Il sorriso di una madre
  20. XVII. Il giocattolo
  21. XVIII. Lo zio
  22. XIX. Le treccine
  23. XX. L’isola dell’accoglienza
  24. XXI. Coincidenze
  25. Epilogo. L’étoile
  26. Ringraziamenti
  27. Copyright