Immagina di viaggiare per anni su un treno che è lanciato a trecento all’ora e va dritto a destinazione senza fermate intermedie. Il paesaggio fuori dal finestrino si riduce a una scia indefinita in cui è impossibile distinguere contorni, colori, dettagli. Il corpo è una freccia che sfida la gravità e funziona come una macchina perfetta, preparata a ignorare ogni eventuale segnale d’allarme, polverizzare all’istante qualsiasi ostacolo per rispettare la tabella di marcia e arrivare puntuale a destinazione.
Sono stata scaraventata in corsa, dal mio personale Frecciarossa, a Trieste, una luminosa mattina di inizio dicembre.
Ero in una stanza d’albergo ad aspettare che arrivasse l’una, l’ora in cui sarebbe partito il treno per Milano. Ero soddisfatta, insieme a Gabriele, l’autore che mi accompagnava, ero riuscita a chiudere il servizio. Le chiuse sono la parte più difficile del mio lavoro, sono il momento in cui torno dal “cattivo” e lo metto alle strette, lo costringo a fare i conti con quello che ha combinato. Poi nel servizio finito sembra tutto facile, è il nostro mestiere farlo sembrare facile. La chiusa scorre via veloce anticipata da un voice over che dice: “E dopo tre giorni di appostamento”, e di certo nessuno si immagina che cosa voglia dire restare in appostamento. Invece io, quando guardo un servizio, riconosco la fatica che c’è dietro. In alcuni pezzi di Filippo Roma, per esempio, ci sono sei chiuse, sei persone a cui va a chiedere ragione di quello che hanno fatto. Magari sono personaggi politici e questo significa aspettare un evento pubblico al quale dovrebbero partecipare, aggirare la scorta, essere lucidi e pronti a dire le cose giuste in mezzo alla confusione. Magari poi all’appuntamento per un contrattempo o un cambio di programma quello non si presenta. E allora ricominci da capo.
Sei chiuse sono sei posti diversi, sei orari diversi, sei appostamenti, sempre in due, tu e l’autore. Non c’è nessuna troupe, non ci sono tecnici audio o video. Io mi metto il microfono da sola, mi trucco e mi pettino da sola, quando ho il tempo di farlo.
Quella volta a Trieste eravamo riusciti a beccare un sindacalista che da mesi non versava lo stipendio ai suoi dipendenti. Mi aspettava il montaggio finale e poi la conduzione della domenica sera, che mi dà sempre una bella adrenalina. Era sabato e forse sarei riuscita anche ad andare a cena con un’amica in un ristorantino asiatico appena aperto, adoro il pad thai.
Ho chiamato Davide, il mio capo, per aggiornarlo sui contenuti che avevo raccolto.
«Toffa, stai bene?»
«Sì, perché?»
«Sei strana.»
Ero stanca, ed è una cosa fuori dall’ordinario per me, di solito riesco sempre a mantenere una buona dose di energie, anche nelle situazioni più estreme, e di sicuro nel servizio di Trieste non c’era stato niente di estremo. Di lì a poco sarebbe finita la stagione invernale del programma, avevo davanti a me la prospettiva di passare Natale e Capodanno in un posto caldo, a ricaricare le pile.
«No, tutto bene, perché?»
«Sei rallentata.»
Ero stanca sì, ma non rallentata, su questo non avevo dubbi.
«Oppure c’è qualcuno in camera con te…»
«Ma figurati!»
Abbiamo riso e poi ci siamo salutati. Ho cominciato a preparare la valigia, ma ogni movimento mi costava fatica, così mi sono sdraiata. Il tempo di dirmi “Solo un secondo” e sono crollata. Ho pensato a quanto fosse strano per me dormire alle undici di mattina, mi sono alzata in piedi e ho deciso di anticipare la partenza, non aveva nessun senso riposarmi in albergo e perdere tempo prezioso che avrei potuto usare per portarmi avanti con il lavoro. Soprattutto, mi aveva preso una voglia irresistibile di tornare a casa.
Una volta nella hall ho pagato e ho chiesto un taxi.
«È fuori che l’aspetta. Le faccio portare la valigia?»
«Non ce n’è bisogno.»
«Faccia attenzione, il pavimento è stato appena lavato.»
Mi sono voltata e ho visto il segnale piramidale giallo in un angolo accanto all’uscita. “Potevano metterlo più in vista, così qualcuno rischia di spaccarsi l’osso del collo” ho pensato e mi sono avviata. Prima di raggiungere le porte scorrevoli, sono tornata indietro.
«Scusi, stavo andando via senza pagare.»
E ho tirato fuori il portafogli. Il receptionist mi ha guardato senza capire, gli ho allungato la carta di credito sopra il bancone.
«Mi fa una fattura per favore? E mi chiami anche un taxi.»
«Guardi che ha appena pagato.»
«Si sbaglia.»
Era in imbarazzo, non voleva contraddirmi. Allora ho controllato nel portafogli e ci ho trovato la fattura già emessa per le ultime due notti. L’ho guardato, mi sentivo disorientata e anche stupida. Io sono un killer, ho una memoria e un’attenzione fuori dal comune, è difficile che qualcosa mi sfugga. Come potevo aver dimenticato di aver già pagato? Ero davvero così cotta?
«Capita, quando si è sovrappensiero.» Ha cercato di rassicurarmi con un sorriso. «Il taxi è fuori che l’aspetta.»
Ho girato i tacchi e mi sono diretta verso la porta di uscita.
Poi ricordo solo un grande tonfo, il pavimento freddo contro la mia faccia, l’odore acre della candeggina. Tutto in un attimo.
Da piccola ero bassissima, solo intorno ai 16 anni sono cresciuta in altezza, ho preso quindici centimetri in un anno e hanno cominciato a farmi male le ginocchia. Il dottore ha detto a mia madre: «Le fanno male perché si è alzata tutta d’un colpo! Vedrà che tutto si sistema».
E infatti dopo qualche mese il dolore è sparito.
Da sempre in famiglia mi chiamavano la Nanetta e il nomignolo mi è rimasto attaccato.
Ero bassissima, e pazza.
A 4 anni mi hanno messo sugli sci e ho imparato a scendere a spazzaneve, da sola, senza che nessuno me lo insegnasse.
Un inverno eravamo sullo skilift, mia sorella davanti e io dietro. La risalita era ripida, mi guardavo alle spalle e vedevo le persone rimpicciolirsi sotto di me. A furia di voltarmi, ho sentito il piattello sfuggirmi dalle gambe. In un attimo volava in alto senza che potessi afferrarlo o agganciarmi.
Eravamo a metà del percorso.
Mia sorella ha sgranato gli occhi e mi ha gridato: «Vai giù che te lo ridanno!».
Ma intendeva dalla parte della pista, io invece ho stretto le bacchette e mi sono buttata a testa bassa lungo i piloni dello skilift.
Scendevo e schivavo tutti, uno dopo l’altro, le persone mollavano la presa e cercavano di placcarmi, mentre mi urlavano di fermarmi.
Non avevo paura, ero completamente concentrata nello sforzo di evitarli e piena di eccitazione, non sentivo nient’altro se non l’aria gelida sulla faccia e un’incredibile potenza in tutto il corpo.
Quando sono arrivata in fondo, ho visto lo sguardo di mia madre. Era immobile. Dallo spavento non è riuscita a dirmi niente.
Mi ha preso per mano e siamo andate nel rifugio, voleva assicurarsi che fossi ancora tutta intera. Io mi sentivo benissimo.
Non sono più riuscita a scordarmi quella discesa spericolata, tutta la gente intorno che urlava, il mio corpo affilato e preciso, l’eccitazione che mi dava una specie di superpotere.
E non era una sensazione legata solo allo sport, anche nella vita cercavo situazioni estreme, che potessero liberare la stessa adrenalina. Non c’era niente che mi facesse fermare e dire: forse mi spacco l’osso del collo.
Non era incoscienza, mi accorgevo del pericolo, lo vedevo, lo soppesavo, ma sentivo di potercela fare e allora mi buttavo.
Quando avevo 9 anni mio padre aveva deciso di costruire una casa nuova, più grande, appena fuori Brescia, dove ci saremmo trasferiti.
Spesso con la mamma andavamo in bici a vedere come proseguivano i lavori, mia sorella su una bicicletta rosa di Barbie, io su una BMX coi freni consumati che mi rifiutavo di cambiare e la sella lunga, da maschio, che avevo voluto a tutti i costi.
Mia madre entrava per controllare l’avanzamento dei lavori e ci lasciava fuori.
I garage erano stati finiti per primi. Così mi ero inventata un gioco: bisognava lanciarsi giù in bici, a tutta velocità, lungo la rampa dei box, e appena prima di spiaccicarsi contro la saracinesca buttarsi di lato su un fazzolettino di prato.
Mia sorella rallentava la discesa con i freni, mentre io lasciavo scorrere le ruote.
Nostra madre non ne sapeva niente, ce l’avrebbe sicuramente impedito.
«Dai Silvia, andiamo.»
«No, questa volta no, ho paura» aveva piagnucolato lei.
«Ma quale paura? I freni della tua bici funzionano benissimo.»
Quel giorno mia sorella non ne voleva proprio sapere e se n’è andata a fare un giro per conto suo, lasciandomi sola con la mia personale sfida.
A ogni discesa alzavo la posta e mi lanciavo di lato sempre più tardi. Mi sentivo invincibile, sapevo come fare, non avevo paure o titubanze e la bici non mi avrebbe mai tradito.
Mentre mi stavo rialzando dall’ultimo salto, ho visto che la gamba destra era ricoperta di sangue. Il cuore ha cominciato a battere più veloce, ho guardato meglio. Lungo la tibia si era aperta una ferita lunga e profonda, composta, un taglio preciso. Lì accanto ho visto sparsi per terra mattoni rotti, cocci, vetri di varie dimensioni lasciati dagli operai. Non mi aveva tradito la bicicletta, né i miei nervi o i miei riflessi, mi aveva tradito un imprevisto.
Sono salita in sella e senza dirlo a nessuno sono andat...