Va’ dove non puoi, / vedi dove non vedi, / ascolta dove nulla risuona / e ti troverai dove parla Dio.
Paradossali questi versi del grande poeta mistico della Slesia Angelus Silesius, pseudonimo di Johannes Scheffler, nato nel 1624 e morto nel 1677, dopo aver vissuto per qualche anno anche a Padova per studiare medicina. Eppure, essi s’innestano in un filone spirituale sempre ardente: per incontrare Dio non bisogna accumulare, ma sottrarre. Come diceva Gesù, bisogna perdere per trovare. Lo scultore toglie dal masso e solo così fa sbocciare la sua creazione. Fece scandalo il musicista americano d’avanguardia John Cage quando, nel 1952, propose il suo pezzo intitolato 4’33’’. In questo arco di tempo gli orchestrali si piazzavano immobili davanti ai loro strumenti per eseguire il brano musicale totalmente silenzioso. Scaduto il tempo, uscivano di scena.
Certo, si tratta di un’esasperazione, ma in mezzo alla valanga di chiacchiere, di urla e di rumori, sarebbe bello che si creasse un’oasi di silenzio non muto, ma capace di raccogliere la voce della coscienza ove, per i credenti, s’insedia anche Dio. Franz Kafka consigliava: «Non occorre che tu esca di casa. Resta al tuo tavolo e ascolta. Anzi, non ascoltare nemmeno, aspetta soltanto. Anzi, non aspettare nemmeno. Sii tu stesso silenzio assoluto e solitudine».
Non per nulla per i mistici (parola derivante dal greco myein, «tacere») il vertice dell’esperienza non è più né la parola né l’ascolto, ma il silenzio e la visione-contemplazione.
L’agricoltura è l’arte di saper aspettare.
Nel 1927 Riccardo Bacchelli pubblicava Il diavolo al Pontelungo, un romanzo che riusciva a contaminare la drammaticità della storia con la satira e persino con l’umorismo. Dopo tanti anni dalla mia prima lettura giovanile nei tascabili popolari che allora apparivano, ho voluto riprenderlo in mano e proporre questa citazione, simile a un lacerto, lasciandola priva di contesto e di motivazione. È un modo anche per ricordare uno scrittore che ebbi la fortuna di incontrare in un pomeriggio invernale nella sua casa milanese, prima che iniziasse l’arduo crepuscolo della sua esistenza nelle difficoltà economiche e nella malattia (ormai alcuni lo ricordano solo per la «legge Bacchelli», destinata a sostenere artisti in povertà grave).
Il messaggio della frase ritagliata è chiaro, soprattutto oggi in un mondo che freme sino alla frenesia. Non siamo capaci di attendere, anche quando siamo in fila cerchiamo di scavalcare chi ci sta davanti. Eppure sappiamo bene che per plasmare un bambino ci vorranno sempre nove mesi e, nonostante tutte le tecniche di accelerazione, le stagioni e i ritmi della natura sono costanti nel loro svolgersi.
Saper aspettare è segno di pacatezza, è tempo di riflessione, è preparazione alle sorprese della vita. Non per nulla da secoli nel calendario cristiano in questo periodo dell’anno ci sono le settimane di Avvento, il momento dell’attesa di una nascita, di una speranza, di una luce.
Guarda la bellezza della luna nuova che spunta e squarcia con il suo lume le tenebre. Sembra una falce tutta d’oro che miete il narciso tra i fiori dei giardini.
La traduzione rende inesorabilmente striato di enfasi e di retorica un originale che è, invece, carico di stupore e di colore. Sono alcuni versi di Ibn Hamdis, poeta arabo-siculo dell’XI-XII secolo, quando, appunto, la Sicilia era uno straordinario crogiuolo di culture, che non si scontravano, ma erano in armonia tra loro. Egli ci spinge, in una di queste notti invernali limpide, ad aprire per alcuni istanti la finestra e a contemplare sopra i tetti della città il veleggiare della luna. Purtroppo abbiamo perso la capacità di sostare e di stupirci davanti alla bellezza; soprattutto, non riusciamo a entrare in sintonia con la natura e il suo svelarsi.
Continuava Ibn Hamdis: «Di notte sto a osservare le stelle: lucignoli accesi o punte brillanti di lance. Vedo le Pleiadi sorgere e sembrano un vezzo di sette perle». Curiosamente, lo storico latino Plinio il Giovane pensava che le punte luccicanti delle lance delle sentinelle che vegliavano nella notte fossero legate con un filo luminoso alle stelle. Si stabiliva, così, un misterioso legame tra il cielo e la terra.
Distogliere talora lo sguardo dalle brutture che costellano la nostra storia è una via per purificare non solo l’occhio, ma anche l’anima.
Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso.
Tutti ricordiamo con diverse tarature di nostalgia o di senso d’oppressione il tempo trascorso nelle aule scolastiche. Abbiamo, così, voluto ricreare idealmente quell’atmosfera vissuta sui banchi di scuola con l’evocazione dei grandi autori. Spesso si ripete la battuta ironica dello scrittore inglese Gilbert K. Chesterton: «Un grande classico è uno scrittore che si può lodare senza averlo letto». Ma già l’americano Mark Twain andava giù pesante: «Un classico è qualcosa che tutti vorrebbero aver letto e nessuno vuol leggere». Parole, purtroppo, spesso sacrosante, che hanno la loro conferma nelle aule scolastiche.
Ebbene, questo accade non tanto per il testo che in sé è affascinante e potente, quanto piuttosto per gli insetti che vi si depositano sopra e lo oscurano e inquinano. Fuor di metafora, sono le noiose e pedanti spiegazioni di certi docenti, gli insaziabili apparati critici, i commenti desiderosi di non perdersi un dettaglio, incapaci però di godere la bellezza e la grandezza dell’insieme.
Per fortuna, come diceva Italo Calvino nel saggio Perché leggere i classici, che abbiamo sopra citato, i capolavori sono capaci di scrollarsi di dosso quel nugolo di mosche cocchiere e di affascinare con la loro sfolgorante nudità. È adesso per noi tutti, senza l’incubo di esami, il tempo di riprenderli in mano.
L’organismo umano isola il proiettile che non si è riusciti a estrarre, formandogli intorno uno strato di calcio, in modo che non costituisca più un fastidioso elemento estraneo, ma finisca semplicemente per sparire nel suo involucro protettivo.
È ben nota questa sorprendente coesistenza tra l’organismo umano e un oggetto estraneo, spesso una pallottola, eredità di una guerra, o la pinzetta distrattamente dimenticata dal chirurgo durante un intervento. Il dato può essere trasformato in metafora, ed è uno scrittore, il finlandese Mika Waltari (1908-1979), nel suo romanzo Fine van Brooklyn (1939), a svilupparla. Egli, infatti, continua così: «L’anima umana funziona allo stesso modo: crea gradualmente intorno ai nostri errori, alle nostre delusioni e ai nostri dolori gli strati protettivi dell’oblio, isolandoli così dalle azioni e dai pensieri della vita quotidiana».
Un’operazione positiva, quando ci si deve liberare del desiderio di vendetta o di un dolore tragico o anche di un ricordo che ci ha ferito e fatto sanguinare l’anima, ma che poi si è quasi innestato nella nostra esperienza come una lezione di vita.
Il fenomeno psicologico segnalato da Waltari può avere, però, anche una ridondanza negativa quando, alla fine, si ricoprono colpe o vergogne e la coscienza lentamente si ottunde, ignorando il male che è in noi. L’«involucro protettivo» diventa, allora, una autogiustificazione che ci assolve dal peccato, cancella il rimorso e spegne l’anelito a una liberazione, a una conversione e purificazione.
Non essere complici, non mentire, non restare ciechi. ... Non importi, non sottoporti, non sovrapporti.
Ecco due trilogie immediate e incisive. La prima è di quella importante scrittrice ebrea francese del Novecento che fu Simone Weil, una figura coinvolta anche dal fascino per il cristianesimo. Con il suo trittico questa donna di grande acutezza ci riporta al cuore intimo della coscienza. Essa è violata quando si diventa complici del male per interesse, egoismo o quieto vivere. È umiliata quando si ferisce costantemente la verità, incamminandosi verso la strada comoda della menzogna. La coscienza, infine, è ottenebrata e incatenata quando si tengono gli occhi chiusi, eppure si dichiara di vedere, come diceva Gesù: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo!” il vostro peccato rimane» (Giovanni 9,41).
L’altra trilogia di comandamenti è, invece, di un nostro poeta, il romano Arturo Onofri (1885-1928), ed è ugualmente significativa per le scelte della coscienza morale. Si tratta di tre verbi assonanti che sono spesso la «divisa» indossata in politica, nella società, nella stessa vita famigliare e talora persino in quella religiosa. L’ansia di «imporsi» fa prevaricare sugli altri. Si giunge, così, al «sovrapporsi», non solo a livello verbale con le sguaiataggini dei confronti-scontri, ma anche nelle relazioni personali. O, al contrario, ci si «sottopone» fino all’umiliazione pur di ottenere vantaggi, sconfessando ogni dignità e rispetto di sé. Quale sarebbe il verbo ideale da adottare? Il «proporsi» con rispetto ma con fermezza: è il vocabolo del dialogo e dell’incontro.
Vale di più una monetina presa dal poco che un tesoro attinto da una ricchezza immensa: ha, infatti, valore non quanto si dà ma quanto si tiene. Nessuno dà più di chi non conserva nulla per sé.
«Gesù guardava i ricchi che gettavano offerte nel tesoro del tempio. Vide anche una vedova povera che vi gettava due monetine e disse: “In verità vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato più di tutti. Tutti costoro, infatti, hanno versato parte del loro superfluo; lei, invece, nella sua miseria ha dato tutto quello che aveva per vivere”» (Luca 21,1-4). Abbiamo scelto questo brano evangelico per commentare il passo che abbiamo riportato intenzionalmente oggi, giornata dedicata dal calendario a sant’Ambrogio, vescovo e patrono di Milano. Quando scriveva le righe sopra citate e desunte dal suo trattato sulle Vedove, egli rimandava appunto alla scena evangelica e introduceva un suggestivo canone di verifica dell’autentica carità: essa si mis...