Il lavoro intellettuale come professione
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Il lavoro intellettuale come professione

  1. 196 pagine
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Il lavoro intellettuale come professione è il titolo scelto da Max Weber per raccogliere i testi di due celebri conferenze, La scienza come professione e La politica come professione, da lui tenute all'Università di Monaco tra il 1917 e il 1919. La riflessione del grande filosofo è incentrata da un lato sulla situazione della Germania uscita disastrosamente dalla Grande Guerra e dall'altro sulla figura e il ruolo dell'intellettuale, scienziato e politico, sui limiti intrinseci delle due discipline e sull'inevitabile conflitto tra la scienza, la cui autorità riposa sul suo essere del tutto avalutativa, e la politica, che nella definizione e nella scelta di gerarchie di valori ai quali la realtà deve adeguarsi trova la propria ragion d'essere. I due testi costituiscono un'opera unica, la cui «grandezza problematica» è ben sottolineata dall'ormai classico saggio di Massimo Cacciari, qui presentato in una versione aggiornata.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2018
ISBN
9788852089671
Categoria
Anthropology

LA POLITICA COME PROFESSIONE

La conferenza che per vostro desiderio dovrò tenere vi lascerà per molti aspetti inevitabilmente delusi. Da un discorso sulla politica come professione vi attenderete senz’altro che io prenda posizione sui problemi attuali. Ciò accadrà tuttavia soltanto nelle conclusioni, in modo puramente formale, in relazione a determinate questioni che riguardano il significato dell’agire politico nel quadro complessivo della condotta di vita. Dovranno invece essere rigorosamente evitate nella conferenza odierna tutte le questioni che si riferiscono al problema di quale politica si debba perseguire, vale a dire di quali contenuti si debbano dare al proprio agire politico. Ciò non ha nulla infatti a che fare con la questione generale di che cosa sia e di che cosa possa significare la politica come professione. Veniamo dunque al nostro tema.
Che cosa intendiamo per politica? Il concetto è estremamente ampio e comprende ogni genere di attività direttiva autonoma. Si parla della politica valutaria delle banche, della politica di sconto della Reichsbank, della politica di un sindacato in uno sciopero, si può parlare della politica scolastica di un comune cittadino o rurale, della politica della presidenza di un’associazione per ciò che riguarda la sua direzione, e infine della politica di una donna intelligente che si sforza di guidare il proprio marito. Naturalmente non ci occuperemo di un concetto così ampio nelle nostre riflessioni di questa sera. Con il termine «politica» intendiamo piuttosto riferirci soltanto alla direzione o all’influenza esercitata sulla direzione di un gruppo politico, vale a dire – oggi – di uno Stato.
Ma che cos’è, dal punto di vista sociologico, un gruppo «politico»? Che cos’è uno «Stato»? In termini sociologici non è possibile definire lo Stato in base al contenuto del suo agire. Non vi è pressoché nessun compito che un gruppo politico non abbia una volta o l’altra intrapreso. Né si può dire che ve ne siano alcuni che esso abbia sempre intrapreso o, meglio, che appartengano da sempre e in modo esclusivo a quei gruppi che si definiscono come politici – e oggi come Stati – o a quelli che hanno storicamente preceduto lo Stato moderno. In ultima analisi si può piuttosto definire sociologicamente lo Stato moderno soltanto in base a uno specifico mezzo che appartiene a esso così come a ogni altro gruppo politico: l’uso della forza fisica. «Ogni Stato è fondato sulla forza» disse a suo tempo Trockij a Brest-Litovsk.1 E in effetti è proprio così. Se vi fossero soltanto formazioni sociali in cui l’uso della forza come mezzo fosse ignoto, allora il concetto di «Stato» sarebbe scomparso e a esso sarebbe subentrato ciò che, in questo senso specifico della parola, si potrebbe definire come «anarchia». Naturalmente l’uso della forza non costituisce il mezzo normale e nemmeno l’unico di cui disponga lo Stato – su questo non vi sono dubbi. Esso rappresenta piuttosto il suo mezzo specifico. Soprattutto ai giorni nostri la relazione tra lo Stato e l’uso della forza è particolarmente stretta. Nel passato i più diversi gruppi sociali – a cominciare dal gruppo parentale – hanno conosciuto l’uso della forza fisica come un mezzo del tutto normale. Oggi, al contrario, dovremmo dire che lo Stato è quella comunità di uomini che, all’interno di un determinato territorio – un elemento, questo del territorio, che è tra le sue componenti caratteristiche –, pretende per sé (con successo) il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica. Questo, infatti, è il dato specifico dell’epoca presente: che a tutti gli altri gruppi sociali o alle singole persone si attribuisce il diritto all’uso della forza fisica soltanto nella misura in cui sia lo Stato stesso a concederlo per parte sua: esso rappresenta la fonte esclusiva del «diritto» all’uso della forza. Dunque «politica» per noi significherà aspirazione a partecipare al potere o a esercitare una certa influenza sulla distribuzione del potere, sia tra gli Stati sia, all’interno di uno Stato, tra i gruppi di uomini che esso comprende entro i suoi confini.
Ciò corrisponde nella sostanza anche all’uso linguistico. Quando di una questione si dice che è «politica», che un ministro o un funzionario sono «politici», che una decisione è condizionata «politicamente», s’intende sempre dire che gli interessi relativi alla distribuzione del potere, al mantenimento del potere o al trasferimento del potere sono decisivi per la risposta a quella questione, condizionano questa decisione o determinano la sfera di azione di quel tale funzionario. Chi fa politica aspira al potere, o come mezzo al servizio di altri fini – ideali o egoistici –, o «per il potere in se stesso», per godere del senso di prestigio che esso procura.
Al pari dei gruppi politici che lo hanno storicamente preceduto, lo Stato consiste in una relazione di potere di alcuni uomini su altri uomini fondata sul mezzo dell’uso legittimo (vale a dire: considerato come legittimo) della forza. Affinché esso sussista, i dominati devono dunque sottomettersi all’autorità cui pretendono coloro che di volta in volta detengono il potere. Quando e perché essi fanno ciò? Su quali fondamenti di giustificazione interna e su quali mezzi esteriori poggia questo potere?
In via di principio vi sono, per cominciare da qui, tre giustificazioni interne, vale a dire tre fondamenti di legittimità di un potere. In primo luogo, l’autorità dell’«eterno ieri», vale a dire del costume consacrato da una validità risalente a tempi immemorabili e da una disposizione consuetudinaria alla sua osservanza: è il caso del potere «tradizionale», così come lo esercitano il patriarca e il principe patrimoniale di stampo antico. In secondo luogo, l’autorità del dono di grazia straordinario e personale (carisma), la dedizione assolutamente personale e la fiducia personale nelle rivelazioni, nell’eroismo o in altre qualità di capo di un singolo individuo: è il caso del potere «carismatico», così come lo esercitano il profeta oppure – sul terreno della politica – il condottiero eletto in guerra o il detentore di un potere plebiscitario, il grande demagogo e il capo di un partito politico. Infine, il potere in forza della «legalità», in forza della fede nella validità di una norma legale e della «competenza» oggettiva fondata su regole razionalmente statuite, vale a dire in forza della disposizione all’obbedienza nell’adempimento di doveri conformi a una regola: un potere così come lo esercitano il moderno «servitore dello Stato» e tutti quei detentori di potere che sotto questo aspetto gli somigliano. Come vedremo tra breve, è del tutto evidente che nella realtà sono motivi assai concreti di timore e di speranza – timore della vendetta di potenze magiche o del detentore del potere, speranza in una ricompensa in questo o nell’altro mondo – e inoltre interessi della più diversa natura a condizionare questa obbedienza. Quando tuttavia ci si interroga sui fondamenti di «legittimità» di una tale obbedienza, allora ci si imbatte sempre in quei tre tipi «puri». E queste rappresentazioni della legittimità, con il loro fondamento interno, sono di estrema importanza per la struttura del potere. Naturalmente, i tipi puri si trovano di rado nella realtà. Non è tuttavia possibile soffermarsi adesso sull’intreccio estremamente complesso di variazioni, trapassi e combinazioni di questi tipi puri: ciò appartiene al problema della «dottrina generale dello Stato». In questa sede ci interessa soprattutto il secondo di quei tipi: il potere in forza della dedizione dei seguaci al «carisma» puramente personale del «capo». È qui, infatti, che affonda le sue radici il concetto della professione nella sua forma più elevata. La dedizione al carisma del profeta o del condottiero in guerra o del grande demagogo nella ecclesia o nel Parlamento significa che egli è ritenuto personalmente da altri uomini un capo per intima «vocazione» e che questi gli obbediscono non in virtù del costume o di una norma, bensì perché credono in lui. Egli stesso, a sua volta, vive per la sua causa, «mira alla sua opera»,2 se è qualcosa di più di un meschino e vanitoso arrivista del momento. Ma è alla sua persona e alle sue qualità che si rivolge la dedizione di coloro che lo sostengono: i suoi discepoli, il suo seguito, i suoi seguaci personali all’interno del partito. In entrambe le due più importanti fattispecie del passato – quella del mago e del profeta da un lato, e quella del capo eletto in guerra, del capobanda e del condottiero dall’altro – la figura del capo si è manifestata in tutti i paesi e in tutte le epoche storiche. È invece peculiare dell’Occidente ciò che in questa sede ci riguarda più da vicino: il capo politico, dapprima nella forma del libero «demagogo» quale è sorto sul terreno della città-stato propria soltanto dell’Occidente e in special modo della civiltà mediterranea, quindi nella forma del «capopartito» parlamentare quale è sorto sul terreno dello Stato costituzionale, anch’esso sviluppatosi soltanto in Occidente.
Questi politici di «professione», nel significato più proprio della parola, non costituiscono mai, naturalmente, le uniche figure decisive nella dinamica della lotta politica per il potere. È piuttosto determinante in sommo grado il tipo di mezzi di cui essi possono disporre. In quale modo le forze politicamente dominanti cominciano a consolidare il proprio potere? L’interrogativo si pone per ogni tipo di potere, e dunque anche per il potere politico in tutte le sue forme: per il potere tradizionale così come per quello legale e quello carismatico.
L’esercizio di qualsiasi potere che richieda un’amministrazione di tipo continuativo ha bisogno per un verso di poter contare sull’agire di uno specifico gruppo di persone disposte a obbedire a coloro che pretendono di essere investiti del potere legittimo, e per un altro verso di poter disporre, per mezzo di tale obbedienza, di quei beni oggettivi che sono all’occorrenza necessari per porre in essere l’esercizio della forza fisica: l’apparato amministrativo personale e i mezzi oggettivi dell’amministrazione.
L’apparato amministrativo, che rappresenta l’elemento esteriore dell’organizzazione del potere politico così come di ogni altra organizzazione, non è naturalmente vincolato all’obbedienza nei confronti del detentore del potere soltanto da quell’idea di legittimità di cui abbiamo prima parlato. Di regola intervengono ancora due mezzi che fanno appello all’interesse personale: la ricompensa materiale e l’onore sociale. Il feudo dei vassalli, i benefici dei funzionari patrimoniali, lo stipendio del moderno servitore dello Stato – e nello stesso tempo l’onore cavalleresco, i privilegi di ceto, l’onore dei funzionari – costituiscono la ricompensa, e la paura di perderli rappresenta il fondamento in ultima analisi decisivo per la solidarietà dell’apparato amministrativo con il detentore del potere. La stessa cosa vale anche per il potere del capo carismatico: onori di guerra e bottino per chi combatte, spoils – vale a dire sfruttamento dei dominati attraverso il monopolio delle cariche pubbliche, profitti condizionati politicamente e premi alla vanità personale – per il seguito del demagogo.
Per il mantenimento di qualsiasi potere fondato sull’uso della forza sono indispensabili determinati beni materiali esteriori, esattamente come accade nel caso di un’impresa economica. Da questo punto di vista tutti gli ordinamenti statali possono essere suddivisi in due grandi categorie. E ciò a seconda che si fondino sul principio che quell’apparato di uomini – funzionari o altri che siano – sulla cui obbedienza il detentore del potere deve poter fare affidamento si trovi direttamente in possesso dei mezzi dell’amministrazione, siano questi denaro, edifici, strumenti di guerra, mezzi di trasporto, cavalli o quant’altro; oppure che l’apparato amministrativo sia «separato» dai mezzi dell’amministrazione, nello stesso senso in cui oggi l’impiegato e il proletario all’interno dell’impresa capitalistica sono «separati» dai mezzi materiali di produzione.3 E dunque, a seconda che il detentore del potere impieghi l’amministrazione sotto la propria regia personale e la faccia gestire da servitori personali o da funzionari al suo servizio o da favoriti e fiduciari personali i quali non sono proprietari, vale a dire possessori a titolo personale, dei mezzi materiali d’impresa, ma vi sono preposti dal signore; oppure che accada il contrario. Questa differenza attraversa tutte le organizzazioni amministrative del passato.
Un gruppo politico nel quale i mezzi oggettivi dell’amministrazione si trovino in tutto o in parte in possesso dell’apparato amministrativo dipendente lo chiameremo un gruppo articolato «per ceti». In un gruppo di tipo feudale, per esempio, il vassallo sosteneva di tasca propria le spese dell’amministrazione e della giustizia nel territorio a lui assegnato in feudo, provvedeva autonomamente al proprio equipaggiamento e al proprio approvvigionamento per la guerra; e i vassalli a lui subordinati facevano lo stesso. Ciò aveva naturalmente conseguenze rilevanti sulla potenza effettiva del signore, la quale si fondava soltanto su un legame di fedeltà personale e sul fatto che il possesso feudale e l’onore sociale del vassallo traevano la propria «legittimità» dal signore stesso.
E tuttavia, risalendo indietro fino alle più remote formazioni politiche, noi troviamo dappertutto anche la regia personale del signore: attraverso uomini che dipendono direttamente dalla sua persona – schiavi, funzionari domestici, servitori, «favoriti» personali e beneficiari remunerati in natura o in denaro dalle sue casse private – egli cerca di mantenere l’amministrazione nelle proprie mani, di procurare i mezzi di tasca propria, dai proventi del suo patrimonio, di creare un esercito che dipenda rigorosamente dalla sua persona, perché equipaggiato e approvvigionato dai suoi granai, magazzini, arsenali. Mentre in un gruppo sociale articolato «per ceti» il signore domina con il sostegno di un’«aristocrazia» indipendente, con la quale condivide quindi il potere, in questo caso egli si appoggia su schiavi domestici o plebei, vale a dire su strati di nullatenenti privi di un proprio onore sociale, i quali sono interamente dipendenti da lui dal punto di vista materiale e non dispongono in alcun modo di un proprio potere che possa concorrere con quello del signore medesimo. Tutte le forme di potere patriarcale e patrimoniale, di dispotismo sultanistico e di ordinamento statale burocratico rientrano in questo tipo: in particolare, l’ordinamento statale burocratico che è caratteristico, nel suo sviluppo più razionale, anche e soprattutto dello Stato moderno.
Lo sviluppo dello Stato moderno ha ovunque inizio nel momento in cui il principe mette in moto il processo di espropriazione di quei «privati» che accanto a lui esercitano un potere amministrativo indipendente: di coloro cioè che possiedono in proprio i mezzi dell’amministrazione, della guerra, delle finanze e beni di ogni genere che siano utilizzabili in senso politico. L’intero processo rappresenta un perfetto parallelo con lo sviluppo dell’impresa capitalistica attraverso la progressiva espropriazione dei produttori indipendenti. Alla fine vediamo che nello Stato moderno il controllo di tutti i mezzi dell’impresa politica viene di fatto a concentrarsi in un unico vertice e che nessun funzionario singolo è più proprietario personale del denaro che spende o degli edifici, delle scorte, degli strumenti e delle attrezzature militari di cui dispone. In tal modo si è oggi compiutamente realizzata nello «Stato» – ciò che è essenziale per il suo stesso concetto – la «separazione» dell’apparato amministrativo, vale a dire dei funzionari e dei lavoratori dell’amministrazione, dai mezzi oggettivi dell’impresa. Prendono avvio proprio da qui gli sviluppi più recenti, vale a dire il tentativo, che si sta compiendo sotto i nostri occhi, di procedere all’espropriazione di questo espropriatore4 dei mezzi politici e, dunque, dello stesso potere politico. La rivoluzione ha compiuto questo passo perlomeno nella misura in cui al posto delle autorità costituite sono subentrati dei capi i quali, attraverso l’usurpazione o l’elezione, si sono attribuiti il potere di disporre del complesso dell’amministrazione e dei suoi beni materiali, facendo derivare la propria legittimità – non importa con quanto diritto – dalla volontà dei dominati. È una questione del tutto diversa se, sulla base di questo successo almeno apparente, si possa con qualche fondamento nutrire la speranza di realizzare l’espropriazione anche all’interno delle imprese economiche di tipo capitalistico, la cui direzione, nonostante le pur rilevanti analogie, si svolge secondo principi strutturalmente diversi da quelli che governano l’amministrazione politica. Su questo punto non prenderemo oggi alcuna posizione. Ai fini della nostra trattazione vorrei fissare soltanto la seguente definizione di carattere concettuale: lo Stato moderno è un gruppo di potere di carattere istituzionale che, all’interno di un dato territorio, si è sforzato con successo di monopolizzare l’uso della forza fisica legittima come mezzo di potere e che, a tale scopo, ha concentrato nelle mani dei suoi capi i mezzi oggettivi dell’esercizio del potere, espropriando tutti i funzionari di ceto che in precedenza ne disponevano a titolo personale e sostituendosi a essi con la sua suprema autorità.
Nel corso di questo processo di espropriazione politica, che ha avuto luogo con vario successo in tutti i paesi del mondo, hanno fatto la loro comparsa, dapprima al servizio del principe, le prime categorie di «politici di professione» in un altro significato: vale a dire in quanto persone che non aspiravano direttamente al potere, come i capi carismatici, e che si ponevano invece al servizio di coloro che detenevano il potere politico. In questa lotta essi si mettevano a disposizione dei principi, traendo dalla conduzione dei loro affari politici per un verso un guadagno materiale e per un altro verso un contenuto ideale di vita. Ancora una volta, soltanto in Occidente troviamo questo genere di politici di professione, anche al servizio di potenze differenti da quelle dei principi. Nel passato essi furono il loro più importante strumento di potenza e di espropriazione politica.
Prima di occuparci più da vicino di queste figure, chiariamo in tutti i suoi aspetti e in modo univoco la situazione oggettiva che l’esistenza di tali «politici di professione» viene a configurare. Esattamente come accade nel campo del profitto economico, si può fare «politica» – e dunque aspirare a esercitare la propria influenza sulla distribuzione della potenza tra le diverse formazioni politiche e all’interno di ciascuna di esse – sia in modo «occasionale» sia in modo «professionale», e in questo secondo caso dedicandosi a essa come a una professione secondaria oppure principale. Tutti noi siamo politici «occasionali» quando andiamo a votare, oppure quando manifestiamo la nostra volontà applaudendo o protestando in una riunione «politica», quando teniamo un discorso «politico», e via dicendo: per molti uomini l’intero rapporto con la politica si limita ad azioni di questo genere. Fanno politica come professione secondaria, per esempio, tutti quegli uomini di fiducia e quei dirigenti di associazioni politiche di partito i quali esercitano questa attività – come accade assolutamente di regola – soltanto in caso di necessità, senza «organizzare la propria vita», sia dal punto di vista materiale che da quello ideale, in prima istanza su di essa. Lo stesso vale per quei membri di consigli di Stato e di simili organi consultivi i quali entrano in funzione soltanto per specifiche esigenze. E così, ancora, p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. di Massimo Cacciari
  4. Nota dei traduttori
  5. IL LAVORO INTELLETTUALE COME PROFESSIONE
  6. La scienza come professione
  7. La politica come professione
  8. Copyright