Credere, una parola ricca di significati e di implicazioni spirituali, filosofiche, psicologiche e sociali. Quale può essere una definizione di “credere” per un credente e per un non credente?
JULIÁN CARRÓN
Se con “credere” si intende il dare credito o prestare fede a qualcuno, il credere fa parte dell’esperienza umana in quanto tale. Lo sappiamo bene: se un bambino non dà credito alla mamma, non cresce; se non dessimo credito alle altre persone, non potremmo sviluppare alcuna convivenza umana; così come, se non ci fidassimo dei mezzi di trasporto e di chi li conduce, non potremmo salire su un treno o viaggiare in aereo. Si dà credito continuamente a qualcosa o a qualcuno: è parte della dinamica della nostra vita, è una dimensione che ci accompagna in ogni momento della nostra giornata, anche se tante volte non ne siamo consapevoli. Senza fidarci o affidarci a qualcuno, non potremmo muoverci, nessuno potrebbe vivere. Ma, così come la vita di una persona non può svilupparsi senza dare credito, allo stesso modo la vita di una società non può reggersi senza fiducia, una fiducia allargata: la fiducia è l’olio di tutti gli ingranaggi.
Sia chiaro, fidarsi dell’altro è un indispensabile punto di partenza, ma è anche un risultato, che si ottiene usando la ragione, interpretando i segni. Il bambino che cresce impara a dare credito agli altri sulla base di segni, e così inizia a distinguere tra chi lo merita e chi no. È la base che ci permette di passare dal credere “in” al credere “a” qualcuno. Ed è una cosa decisiva, perché rappresenta un modo di conoscere essenziale allo sviluppo della vita personale e sociale. Giussani, in un suo famoso libro, Il senso religioso, fa un esempio, riportando un dialogo realmente avvenuto con un suo collega di filosofia, a cui disse: «Io non sono mai stato in America, ma le posso con certezza assicurare che l’America c’è»1. Come mai? Mediante quel modo di conoscere che è la fede: acquisisco quella conoscenza attraverso la mediazione di un gran numero di testimoni, che invece in America ci sono stati. È un esempio di conoscenza indiretta che si chiama fede: posso affermare con certezza quello di cui non ho evidenza diretta. Qual è la condizione dell’applicazione di questo metodo di conoscenza? La certezza della attendibilità del testimone, del mediatore, quindi il percorso razionale che porta alla fiducia. La fede, il credere, l’aderire a quello che afferma un altro, è un modo di conoscere senza il quale non vi sarebbe civiltà, perché altrimenti ognuno dovrebbe rifare tutti i processi da capo. Noi lo usiamo continuamente per vivere.
UMBERTO GALIMBERTI
Considerata in un contesto così ampio sono d’accordo anch’io, se non c’è la fiducia negli altri, nelle cose, non puoi muoverti. Però mi pare che questa definizione sia così vasta che alla fine diventa insignificante. Probabilmente qui si tratta di stabilire se uno crede o non crede in Dio. Se restringiamo il discorso alla fede religiosa, allora io sono dalla parte di san Tommaso, il quale afferma, con estrema chiarezza, che l’assenso fideistico non è determinato dalla cogitazione, ma dalla volontà. Non è promosso dall’evidenza del contenuto (ut ad proprium terminum), ma da un fattore esterno, la volontà (terminatus ad unum ex estrinseco, ex voluntate). […] Per questo, a differenza della scientia espressa dalla ragione umana, la fede imprigiona l’intelletto trattenuto da termini estranei e non propri (intellectus credentis dicitur esse captivatus quia tenetur terminis alienis, et non propriis). Come dice Paolo [Seconda lettera ai Corinti 10, 5] la fede «riduce in schiavitù ogni intelletto (in captivitatem redigens omnem intellectum), per cui l’intelletto è inquieto (nondum est quietatus)», anzi [come vuole l’espressione di Paolo nella Prima lettera ai Corinti 2, 3, poi ripresa nella Lettera ai Filippesi 2, 12] si sente «in uno stato di infermità e di grande timore e tremore (in infirmitate et timore et tremore multo)»2. Ecco, io sto con Tommaso. Per me credere significa porre l’intelletto in infirmitate multa, e si crede con timore e tremore. Fede e ragione non possono in nessuna maniera coincidere, ma questo è un discorso diverso, che riprenderemo.
Credere è stato un sentimento fondativo della società, nella storia dell’Occidente. In che misura oggi può esserlo ancora, se la società moderna nasce dalla messa in discussione di questa parola?
UMBERTO GALIMBERTI
La mia convinzione è che Occidente e cristianesimo coincidano perfettamente, nel senso che il cristianesimo ha ideato una forma del tempo completamente diversa da quella dei Greci. Per i Greci il tempo era ciclico, concepito secondo un modello di tipo agricolo: le stagioni si avvicendano – estate, primavera, autunno e inverno – e poi tutto ricomincia, seguendo cicli eterni. La tradizione giudaico-cristiana cambia la forma del tempo, inserisce il tempo in un disegno di salvezza, e quando il tempo è inserito in un disegno diventa storia. Non c’è storia prima di allora, i Greci non erano storici. La parola greca historía deriva dalla radice hístor, che significa “colui che ha visto”, “il testimone”. L’idea di cercare, di riconoscere nel tempo un disegno è estranea alla cultura greca. Erodoto è un cronista che cerca le cause dei fatti; Tucidide inizia le Storie da una trentina d’anni prima della sua nascita, perché non ha visto e non ha sentito niente di quanto è avvenuto in precedenza.
La storia giudaico-cristiana, invece, è organizzata in una forma secondo cui il passato è male – il peccato originale –, il presente è redenzione, il futuro è salvezza. La scienza, che di solito si contrappone alla religione, è profondamente cristiana a sua volta: il passato è ignoranza, il presente è ricerca, il futuro è progresso. Cristianesimo laicizzato. Anche Marx, sotto questo profilo, usa lo stesso modello: il passato è ingiustizia sociale, il presente è far esplodere le contraddizioni del capitalismo, il futuro porterà la giustizia sulla Terra. E anche Freud, che scrive un libro per mostrare che la religione è un’illusione, pensa che traumi e nevrosi si costituiscano nel passato, nel presente si affrontano con la terapia, e nel futuro si prospetta la guarigione. Tutti condividono lo schema cristiano dove il futuro appare sempre positivo; perché c’è la salvezza, c’è il progresso, c’è il riscatto, c’è la guarigione dalla malattia.
Quando, per esempio, la rivoluzione francese afferma «Egalité, Fraternité, Liberté», ribadisce nient’altro che i valori cristiani. Che cos’è la libertà (Liberté) se non il messaggio cristiano che diceva che non ci sono più schiavi e padroni? E l’uguaglianza (Egalité) riprende il motivo cristiano: «Siamo tutti figli di Dio». Infine, la fratellanza (Fraternité) già anticipata dalla figura cristiana della carità. Tutto è cristiano in Occidente.
Ma un giorno Nietzsche dice che Dio è morto. “Dio è morto” non equivale a discutere se Dio esiste o non esiste, che è la domanda su cui si accaniscono atei e credenti, e che a me non interessa affatto. Mi interessa invece chiedermi se Dio è presente e fa storia. Allora la domanda è un’altra: se per esempio faccio riferimento al Medioevo, dove la letteratura parla di Inferno, Purgatorio e Paradiso, l’arte è arte sacra, la donna è la donna-angelo, se tolgo la parola “Dio”, l’idea di Dio, capisco ancora quel mondo? No, non capisco più niente.
Ma se tolgo la parola “Dio” dal mondo contemporaneo capisco ancora la realtà? Sì. Sono altre le parole-chiave della nostra realtà: la parola “tecnica”, la parola “denaro”. Allora si può dire che, nel nostro mondo, Dio è morto.
Ma se Dio è morto, automaticamente, tutta la promessa collassa ed emerge quella dimensione che Nietzsche aveva ben individuato e che chiama “nichilismo”, da lui così definito: «Manca lo scopo, manca la risposta al “perché?”, tutti i valori si svalutano». Se manca lo scopo, il futuro non è più una promessa, ma è imprevedibile e non retroagisce come motivazione. Se manca la risposta al perché: perché mi devo impegnare? Perché mi devo dare da fare? Al limite, perché devo stare al mondo? È proprio questo che sentono i nostri giovani. Oggi se ne uccidono circa 400 all’anno, più altri che si infliggono lesioni, più quelli che passano il tempo davanti al computer senza mai uscire dalla stanza e quelli che soffrono di disturbi alimentari.
Per quanto concerne i valori, che si svalutino non mi pare di particolare importanza perché i valori non sono degli ideali che scendono dal cielo. Sono dei coefficienti sociali che la società adotta perché li ritiene i più idonei a ridurre la conflittualità, niente di più e niente di meno. Prima della rivoluzione francese, per esempio, i valori erano gerarchici, dopo la rivoluzione sono diventati valori di cittadinanza, o di uguaglianza, almeno formale. Sono cambiati tutti i valori, ma non è finita la storia. Se però manca lo scopo, se il futuro non è più una promessa, allora compare l’angoscia.
Io sono assolutamente convinto che i giovani d’oggi assumano droghe non tanto per il piacere che procurano certe sostanze – può anche darsi che facciano piacere, io non lo so perché non le ho provate, forse se fossi nato in questa stagione le avrei prese anch’io –, ma come anestetico all’angoscia che provano guardando il futuro. Per cui vivono in un assoluto presente, in uno stato di anestesia.
Questa mi pare la situazione. Se il futuro non è più una promessa, ecco che scompare l’ottimismo che la religione cristiana ha portato nella civiltà occidentale. Non è un caso che l’Occidente sia diventato – è inutile far finta di essere umili – la prima civiltà del mondo: è stato grazie all’idea cristiana che nel futuro c’è rimedio ai mali del passato. Ma non è più così. Gianni Baget Bozzo, che era un teologo di destra ma era anche un amico, si chiedeva: «Sopravviverà l’Occidente alla fine del cristianesimo?». E ancora: «Sopravviverà il cristianesimo alla fine dell’Occidente?». La risposta era no, in entrambi i casi.
JULIÁN CARRÓN
A mio parere, la questione fondamentale è quella che il professor Galimberti ha riassunto nella frase: «Se Dio è presente e fa storia». Parlare del credere è interessante se non si riduce a fare disquisizioni astratte, che – come giustamente diceva – non gli interessano. È qui che entra in gioco la novità di ebraismo e cristianesimo. Noi possiamo conoscere Dio perché Lui stesso si è reso presente nella storia, è entrato cioè nell’orizzonte dell’esperienza umana. Vi è in proposito un brano bellissimo di Ratzinger: «Conosciamo […] Dio […] attraverso la storia, che egli ha posto in atto con gli uomini. Come la realtà di un uomo si rivela nella storia della sua vita e nelle relazioni che intesse, così Dio si rende visibile in una storia, in uomini, attraverso i quali la sua natura si rende manifesta, a tal punto che egli in riferimento a loro può essere “denominato”, in loro può essere riconosciuto: il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe. Attraverso la relazione...