Lui, io, noi
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Lui, io, noi

  1. 160 pagine
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Lui, io, noi

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L'infanzia di Dori e quella di «Bicio», che mostra come la storia sia sempre stata una sola, anche quando loro non si conoscevano. Il primo incontro, a un premio musicale vinto da entrambi, durante il quale non smettevano di guardarsi. La nascita della figlia Luvi e la quotidianità campestre in Gallura. I mesi del sequestro, in cui a sostenerli fu proprio quel legame «fermo, limpido e accecante» che sarebbe continuato oltre il tempo. Un tempo sempre scandito dalla magia degli incontri: da Marco Ferreri a Lucio Battisti, da Cesare Zavattini a Fernanda Pivano. Tra bambine che chiacchierano con Arturo Toscanini e bambini che bevono cognac sotto i bombardamenti. Tra cuccioli di tigre allevati in salotto e un viaggio in nave con un toro limousine. Scritto assieme agli sceneggiatori di Principe libero, il film tv sul cantautore, Lui, io, noi è una storia privata che s'intreccia con quella pubblica di chi, da sessant'anni, ascolta De André. Soprattutto è il racconto intimo, commovente, a tratti perfino buffo, di un grande amore. «Ci guardiamo, e a tutt'e tre viene da pensare, istintivamente, a un giorno non troppo lontano degli anni Ottanta, magari; o a una notte di primavera dei Novanta. Con Fabrizio che s'aggira sospettoso sulle sue, di clarks, perché gli è sembrato di sentire un brusio in camera da letto di cui ora ha perso le tracce; e per un attimo, un attimo soltanto, ha avuto l'impressione di un qualche futuro sghembo di cui gli sembrava di aver avvertito l'eco: fluttuante, e incerta, come tutte le voci lontane quando ci chiamano da lunga distanza».

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Informazioni

1.

Anche oggi, qualcuno mi ha chiesto di lui. Sono salita su un taxi e per poco ho rischiato di arrivare tardi alla stazione. Il tassista ha cominciato a perdersi per strade che conosco bene e che non c’entravano nulla con il tragitto che gli avevo indicato, e io ero lí che pensavo: «Perché non ho preso la macchina? perché non ho fatto da me che sarei già arrivata?» Ma poi ho capito. Stava aspettando le parole giuste. Cercava un modo per riuscire a dire: «Lo sa, signora? Io è come se vi conoscessi da sempre. Lei. E Fabrizio».
Ogni giorno, qualcuno mi riconosce e mi chiede di lui. Di come era nel privato, o di quello che avrebbe ancora scritto, se solo avesse avuto tempo. Le domande cambiano di volta in volta ma il sentimento con cui le accolgo è sempre lo stesso. È un sentimento doppio: la tentazione, da un lato, di raccontare tutto: di moltiplicare Fabrizio in ogni parola; renderlo ogni suono che ascolto, l’abbraccio in cui inevitabilmente a un certo punto della notte vorrei precipitare. E il desiderio, dall’altro lato, di proteggere invece tutto questo. Di restare lui e io il suono, l’abbraccio. Bi e Bo.
Quando abbiamo cominciato a parlare di questo libro, però, dubbi non ne ho avuti. Ne ero certa. No. Come ho sempre fatto in passato. Perché il bisogno di chiudermi è stato da subito piú forte di qualunque altro tipo di tentazione. Ecco. Penserete, leggendo, «che fermezza!» Ma capitemi: ero reduce dalle riprese di un film sulla vita di Fabrizio in cui mi sembrava di averci esposti fin troppo. Lui soprattutto, sia pure attraverso il filtro inevitabile di una riscrittura fatta da altri.
Per andare avanti in questo racconto allora – che il libro sia nelle vostre mani (a meno di una palese sottovalutazione: o da parte vostra, o da parte mia) mi permette di saltare dei passaggi, anticipandone l’epilogo senza rischiare di bruciare niente – dovrò combattere. Ho combattuto. Sto combattendo.
Prima di tutto contro la mia natura. Una natura poco incline a nostalgie di un qualche passato, che in realtà non esiste. C’è solo il presente, sempre: con quello devi confrontarti e con quello devi trattare. Che poi anche il presente è un abbaglio della percezione: alle sirene del passato preferisco, ostinatamente, i lampi improvvisi del futuro. Una curiosità con cui mi sveglio ogni mattina da quando sono nata; e che mi costringe sempre – anche nei casi in cui so già che potrebbe non venirne molto di buono – a scoprire a poco a poco quello che mi riservano le svolte di ogni futuro.
C’è stato un tempo in cui ero talmente impaziente di sapere cosa mi sarebbe capitato che non riuscivo nemmeno ad aspettare che si verificasse.
Ricordo che con Bonita (una giornalista, un’amica di parecchie vite fa) andavamo spesso da una cartomante: una volta mi propose anche un medium che lei considerava «infallibile». Ci andai non perché davvero sentissi l’esigenza di rovinarmi le sorprese prima del tempo. Era un modo per essere piú preparata a quello che già mi aspettavo. Una conferma della curiosità prima ancora che mi si accendesse dentro.
«Avrai una vita da prima pagina», sentenziò il medium.
Ecco. Se solo riuscissi a superare l’ostacolo di queste prime pagine, potrei mettere insieme i pezzi che forse, retrospettivamente, gli hanno dato ragione (dalla cronaca rosa alla nera, mi avrebbero confermato i giorni; passando dai righi alle volte stonati della cronaca ai cinque che servono per scrivere la musica appoggiandoci nota su nota): come se il ricordo di quella premonizione mi avesse predisposta poi a vivere gli avvenimenti futuri con estrema serenità.
E però, intanto che scrivo, continuo a subire i colpi della mia natura. Il suo aspetto piú schivo e appartato. Dovrei scacciare dalla testa il senso di responsabilità che provo nei confronti delle persone che – mio malgrado – andrò probabilmente a falsare nel racconto per il fatto stesso di procedere dal mio punto di vista (Fabrizio ha scritto una volta: «La fatica di guardarsi allo specchio è quella di dover corrispondere al ricordo migliore»). Con il dipiú di qualcosa che magari andrebbe lasciato libero di disperdersi nei fumi esclusivi della memoria di chi c’è stato.
Era William Faulkner che su questo la pensava allo stesso modo (allo stesso modo di Fabrizio, anche). L’ho letto e riletto nel ritratto di Fernanda Pivano, di quando negli anni Cinquanta era passato per Milano e le aveva confessato – chissà quanto mentono gli artisti, quando mentono – di non conoscere per niente «la letteratura italiana perché si considerava un contadino e non uno scrittore», interessato a Manzoni solo perché in via Manzoni aveva visto una cravatta che gli piaceva e voleva comprarla. La via, peraltro, che per me invece rappresentava la sede della Durium: la mia casa discografica, che poi s’inventò il sodalizio con Wess.
Quel brano del contadino l’ho sottolineato perché m’ha ricordato Fabrizio. Per come Faulkner giocava a definirsi; per come si nascondeva dietro alla finzione ogni volta che voleva mascherare un imbarazzo.
Se riuscissi a farlo anch’io, nel raccontarmi, magari sarei meno a disagio. Anche perché non ho mai considerato la mia vita piú interessante di quella di qualsiasi altro. In realtà: ho solo avuto la fortuna di condividerne gran parte con un uomo molto amato per le sue canzoni. E pur essendo consapevole di averlo frequentato piú di tutti, come posso dire di averlo conosciuto meglio?
Ci siamo limitati a viverle, le nostre vite. Che sono state cosí. Sia quando eravamo da soli. Sia quando abbiamo cominciato a viverle insieme. E abbiamo continuato. E continuato. Fino a qui.
In fondo, se ci penso, anche le canzoni di Fabrizio sono continue variazioni a partire dall’impressione che tutte le vite siano ugualmente interessanti; ognuna a modo suo. E sono sicura che si è innamorato dello Spoon River di Lee Masters per questo. Per l’umanità varia e caparbiamente sconfitta che è stata sempre al centro dei suoi versi.
Quando cominciò a scrivere quello che sarebbe diventato Non al denaro non all’amore né al cielo, come prima cosa volle incontrare Fernanda Pivano. Lo raccontò Nanda a tutt’e due, di quando a guerra non ancora finita, a Torino, si ritrovarono insieme. Lui, Cesare Pavese, il suo professore forse vagamente innamorato di lei; lei, signorina di ottima famiglia piú interessata alla letteratura che all’amore di questo impacciato, inadeguatissimo genio. In un negozio clandestino di libri: gli arrivi dall’America nascosti in cantina e ammonticchiati come munizioni future contro il nazismo che sarebbe continuato; e lui le lasciò l’unica copia dell’Antologia, a patto che lei la traducesse.
«Se la regalano ancora, gli innamorati, pensa tu…» ci diceva Nanda, e intanto le s’illuminavano gli occhi ricordando la sua giovinezza resistente di tanti anni prima. Sempre con quello sfolgorio che sapeva dedicare a due cose su tutte. La cura generosa per un brano ben scritto. Il sorriso incantatore di Ettore Sottsass. Ogni volta come se i miracoli le si rinnovassero davanti e senzatempo. Ogni volta un ricordo presente da ritrovare.
Quando Fabrizio conobbe Nanda, nascondendo la chitarra e lasciandosi interrogare da quelle domande prive di retorica («Mi spieghi bene la storia del “buco del culo”?», al primo ascolto del Giudice), io l’avevo conosciuta già.
Era piú o meno la fine degli anni Sessanta. A quel tempo le nostre vite, la mia e quella di Fabrizio, si erano sfiorate solo occasionalmente, come capita tra persone dello stesso ambiente. E una volta la mia si era incrociata anche con quella di Fernanda Pivano. La incontrai proprio dalla cartomante da cui andavo con Bonita. Ricordo che ci osservammo con stupore divertito constatando che indossavamo una maglietta a righe identica. La stessa che ha in una delle sue foto piú famose: quella in cui sta intervistando Jack Kerouac.
Quando Fabrizio ci presentò, anni dopo, le ricordai quello sfilare sfuggente sul pianerottolo. O, meglio, solo il fatto che ci eravamo viste: per strada; omettendo per discrezione il luogo reale. E non si trattava certo di giudicarla: per un’attitudine che avevo anch’io, poi?
Nanda, comunque, si divertí a stanarmi, replicando, rispetto al nostro incontro: «Certo che me lo ricordo, e sai meglio di me dove è accaduto». E questa cosa non la dimenticherò mai: perché in quella disponibilità di pensiero, libera da ogni forma di condizionamento e di pregiudizio, avevo riconosciuto da subito una delle ragioni per cui quei due si erano trovati.
Sí. C’è sempre un perché sconosciuto all’inizio e chiarissimo nel tempo, nel motivo per cui le persone s’incontrano. Del resto gli incastri che ricaviamo, nella vita, ci servono anche per raccontarla e raccontarcela meglio: per segnare i punti nel calendario trasformandoli in un viso che riconosciamo, in un ricordo che non perderemo proprio mettendolo in comune.
Anche segnare come ci siamo trovati noi tre (già: parlo proprio di voi, Francesca e Giordano) può servire a rimarcare come passato e futuro, in questo nostro incontro, sono diventati inestricabili; al punto da vincere la mia natura sul suo stesso terreno, perché ho capito che, se l’avessi fatto con voi, tornare indietro nel tempo sarebbe diventato un modo nuovo di andare verso il futuro. È un futuro che inevitabilmente ci ha regalato Fabrizio e che continua ad accendersi di luci come quella della lampada che invece mi avete regalato voi.
Ma questo, alla fine, chi è che lo racconta?
Siamo in tre, al tavolo della sala. Davanti e dietro di noi un quadro fiammingo del Seicento (bellissimo, corale: le venature di colore che sfioriscono in una lucentezza opaca e meravigliosa proprio perché sfumata); davanti e dietro di noi – e questo lo sappiamo per certo anche se non riusciamo a vederci – lo specchio che ci ritrae, invisibili, le nuche, e i capelli, e le schiene. Uno specchio che non ci serve, apparentemente, se non come vincolo di memoria domestica faticata dagl’impacci degli anni.
Una sensazione improvvisa d’inadeguatezza passa da una stanza all’altra e si fonde e si distrae con la musica: che continua, sempre, di là, nel salone: la playlist piú varia e planetaria che abbiamo mai ascoltato.
Prima di pranzo abbiamo raggiunto, insieme, una decisione. Questo libro di cui parliamo da quasi un anno, per cui prendiamo appunti e progettiamo scenari. Questo libro non poteva essere scritto, forse non doveva essere scritto e proprio per questo si sta scrivendo da sé intrecciandosi tra le vite che lo compongono. È una presenza viva e luminosa di parole ogni volta che ci incontriamo. Ma sul come le storie vadano raccontate la decisione finale è stata presa meno di un’ora fa.
Dobbiamo esserci tutti, in questa storia. Tutte le voci che si sono assunte – si stanno assumendo, si assumeranno – la responsabilità di raccontare la voce di Fabrizio attraverso la storia di Dori. E viceversa. Perché nelle storie d’amore, se sono d’amore, chi resta ha l’obbligo e la vertigine, spietata, di tenere in vita la voce di entrambi; in un noi che è fatto di tutte le parole mai dette e di quelle che si sono vissute insieme.
E come facciamo? Intanto lo facciamo.
Come fosse la soluzione piú naturale: il riscatto di parole a ogni ricatto preterintenzionale dei racconti.
Del resto Fabrizio è qui con noi, quotidianamente, ogni volta che ne parliamo. Ed è qui con noi nelle storie che affiorano improvvise alla memoria. Nello specchio – questo sí invecchiato con gli anni – dei nostri ricordi lontani di ascoltatori compulsivi. È nella storia del nostro paese: ognuna e ognuno di noi con un Fabrizio De André da salvare per il tempo che verrà.
Fabrizio è di tutti. E questo vale non solo per la sua arte.
E però: chi siamo noi, qui, a parlarne insieme, mentre ci muoviamo tra i Meridiani e i libri di Gallimard sopravvissuti al trasloco fino a Siena, all’archivio dell’università, alla raccolta di autografi e biglietti su cui Fabrizio ha appuntato di passaggio le folgorazioni quotidiane che lo visitavano all’improvviso? Chi è, noi?
Bisognerebbe metterci in scena tutti e tre: le parole, poco prima di cambiare stanza. Dire come Fabrizio ci ha portati fino a qui.
Da sempre, in qualsiasi contesto; in qualsiasi momento della nostra vita comune, Dori ci fa ricordare il modo in cui ci siamo conosciuti. L’inizio di una storia da fratelli extra-anagrafici che dura da ventisette anni: quanto la vita leggendaria di una rockstar meno fortunata di noi.
Se andiamo indietro col pensiero – noi non abbiamo nessuna natura da forzare in questo senso – a quando è cominciato a esistere un noi, con tutto quello che ha comportato, ci troviamo nel 1991 nell’aula I della facoltà di Lettere. In un seminario autogestito legato alla cattedra di Storia della lingua italiana di Luca Serianni, alla Sapienza di Roma.
Un racconto talmente cristallizzato nel tempo da aver assunto i contorni di un falso orale: visto che le parole sono piú o meno le stesse da ventisette anni. Come scrive Primo Levi, la «memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace»; ché i «ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei».
Per noi c’è sempre lo stesso ricordo. Declinato con quel ci che sostituisce la nostra sgraziata esigenza del mi; e a cui faremo qui una piccola eccezione, per ragioni drammaturgiche.
Sí.
Perché nel 1991 Serianni lasciò a noi studenti la possibilità di curare un seminario sulla lingua delle canzoni italiane. Era la prima volta che ci si occupava di lingua dei testi delle canzoni, mettendo da parte il contenuto, concent...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Lui, io, noi
  4. 1.
  5. 2.
  6. 3.
  7. 4.
  8. 5.
  9. 6.
  10. 7.
  11. 8.
  12. 9.
  13. 10.
  14. 11.
  15. Inserto fotografico
  16. Il libro
  17. Gli autori
  18. Copyright