Confesso che ho vissuto
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Confesso che ho vissuto

  1. 512 pagine
  2. Italian
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Confesso che ho vissuto

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Informazioni sul libro

La vita di Neruda attraversa il secolo nel tempo e nello spazio, s'immerge nei grandi avvenimenti del '900 - la guerra di Spagna, il secondo conflitto mondiale, le lotte di liberazione delle colonie - insieme alla vita di tanti altri artisti e intellettuali che combatterono per la libertà: Picasso, Malraux, Eluard, Aragon, Rafael Alberti, Arthur Miller, Moravia, Elsa Morante... Nel fluire ininterrotto e bizzarro dei ricordi, si riaffacciano sulla scena della memoria le donne amate, contadini e operai, grandi protagonisti del secolo breve: Gandhi, Nehru, Stalin, Castro, il Che e le tante città della sua «residencia en la tierra». Neruda è un osservatore sottile, spiritoso, qualche volta fazioso. E mentre descrive persone e luoghi ci racconta i suoi libri, il lavorío poetico che accompagna ogni momento della sua vita. Confesso che ho vissuto è l'affascinante autobiografia di un uomo che ha calcato il palcoscenico della storia e dell'arte, ma che ha anche «vissuto» nelle pieghe contradditorie delle relazioni amorose, dei contrasti tra amici, negli interstizi umorali delle cose.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858428429
Quaderno 1

Il giovane provinciale

Il bosco cileno.

... Sotto i vulcani, accanto ai ghiacciai, fra i grandi laghi, il fragrante, il silenzioso, lo scarmigliato bosco cileno... I piedi affondano nel fogliame morto, un ramo si spezza, i giganteschi raulí innalzano la loro increspata statura, un uccello della selva glaciale sfreccia, batte le ali, si posa fra l’ombra dei rami. E poi dal suo nascondiglio suona come un oboe... Mi entra dalle narici all’anima il profumo selvaggio dell’alloro, il profumo oscuro del boldo... Il cipresso delle Guaitecas m’impedisce il passaggio... È un mondo verticale: una nazione di uccelli, una moltitudine di foglie... Inciampo in una pietra, rovisto nella cavità aperta, un immenso ragno dalla chioma rossa mi guarda con occhi fissi, immobile, grande come un granchio... Un carabo dorato sprigiona il suo mefitico odore mentre scompare come un lampo il suo splendente arcobaleno... Camminando, attraverso un bosco di felci molto piú alte di me: mi lasciano cadere in viso sessanta lacrime dai loro verdi occhi freddi, e al mio passaggio i loro ventagli tremolanti oscillano a lungo... Un tronco marcio: un tesoro!... Funghi neri e azzurri gli hanno dato orecchie, rosse piante parassite l’hanno colmato di rubini, altre piante indolenti gli hanno prestato le loro barbe e dalle sue fradice viscere sbuca, veloce, una biscia, come un’emanazione, quasi che dal tronco morto fuggisse l’anima... Piú lontano ogni albero si è separato dai suoi simili... Si ergono sul tappeto della foresta segreta, e il fogliame di ogni chioma, lineare, increspato, ramificato, lanceolato, ha uno stile differente, come fosse tagliato da una forbice dai movimenti infiniti... Un burrone; sul fondo, l’acqua trasparente scorre sul granito e sul diaspro... Una farfalla pura come un limone vola, danzando fra l’acqua e la luce... Al mio fianco con le loro testoline gialle mi salutano le infinite calceolarie... In alto, come gocce arteriali della selva magica oscillano vibrando i copihue rossi (Lapageria Rosea)... Il copihue rosso è il fiore del sangue, il copihue bianco è il fiore della neve... In un tremito di foglie la velocità di una volpe ha attraversato il silenzio, ma il silenzio è la legge di questi fogliami... Appena il grido confuso di un animale lontano... L’intersezione penetrante di un uccello nascosto... L’universo vegetale sussurra appena finché un uragano non mette in azione tutta la musica terrestre.
Chi non conosce il bosco cileno, non conosce questo pianeta.
Da quelle terre, da quel fango, da quel silenzio, io sono uscito ad andare a cantare per il mondo.

Infanzia e poesia.

Comincerò con il dire, dei giorni e degli anni della mia infanzia, che la mia unica, indimenticabile compagna fu la pioggia. La grande pioggia australe che cade come una cateratta dal Polo, dai cieli di Capo Horn fino alla frontiera. In questa frontiera o Far West della mia patria, nacqui alla vita, alla terra, alla poesia e alla pioggia.
Per quanto abbia camminato, mi sembra che sia andata perduta quell’arte di piovere che si esercitava come un potere sottile e terribile nella mia Araucania natale. Pioveva mesi interi, anni interi. La pioggia cadeva in fili come lunghi aghi di vetro che si rompevano sui tetti o arrivavano in onde trasparenti contro le finestre, e ogni casa era una nave che difficilmente giungeva in porto in quell’oceano d’inverno.
Questa pioggia fredda del Sud dell’America non ha le raffiche improvvise della pioggia calda che cade come una frustata e passa lasciando il cielo azzurro. Al contrario, la pioggia australe è paziente e continua, senza fine, a cadere dal cielo grigio.
Di fronte a casa mia, la strada si è trasformata in un immenso mare di fango. Attraverso la pioggia vedo dalla finestra che un carro si è impantanato in mezzo alla strada. Un contadino, con un pesante mantello di lana nera, bastona i buoi che fra la pioggia e il fango non ce la fanno piú.
Saltando da una pietra all’altra, contro freddo e pioggia, andavamo a scuola. Gli ombrelli se li portava via il vento. Gli impermeabili erano costosi, i guanti non mi piacevano, le scarpe s’inzuppavano. Ricorderò sempre i calzini bagnati accanto alla stufa e una fila di scarpe che sbuffavano vapore, come piccole locomotive. Poi venivano le inondazioni, che si portavano via le baracche dove viveva la gente piú povera, vicino al fiume. Anche la terra, tremante, si scuoteva. Altre volte, sulla cordillera spuntava un pennacchio di luce terribile: il vulcano Llaima si svegliava.
Temuco è una città pioniera, una di quelle città senza passato, con botteghe di ferramenta. Gli indios non sanno leggere, e cosí le botteghe ostentano nelle strade i loro emblemi vistosi: un immenso saracco, una pentola gigantesca, un lucchetto ciclopico, un cucchiaio antartico. Piú in là, le calzolerie, uno stivale enorme.
Se Temuco era l’avanzata della vita cilena nei territori del Sud del Cile, ciò significava una lunga storia di sangue.
Sotto la spinta dei conquistatori spagnoli, dopo trecento anni di lotta, gli araucani ripiegarono in quelle regioni fredde. Ma i cileni continuarono quella che venne chiamata «la pacificazione dell’Araucania», la continuazione cioè di una guerra a ferro e fuoco, per spogliare i nostri compatrioti delle loro terre. Contro gli indios, tutte le armi furono usate senza pietà: il colpo di fucile, l’incendio delle capanne, e poi, meno eclatanti, la legge e l’alcol. L’avvocato divenne anche uno specialista in espropriazioni dei loro campi, il giudice li condannò quando protestarono, il prete li minacciò con il fuoco eterno. E alla fine, l’acquavite consumò l’annientamento di una razza superba le cui gesta, il cui valore e la cui bellezza don Alonso de Ercilla lasciò incise in strofe di ferro e di diaspro nella sua Araucana.
I miei genitori erano arrivati da Parral, la città in cui nacqui. Lí, nel centro del Cile, crescono le vigne e il vino abbonda. Senza che me lo ricordi, senza sapere di averla guardata con i miei occhi, mia madre, doña Rosa Basoalto, morí. Io nacqui il 12 luglio 1904 e un mese dopo, in agosto, sfinita dalla tubercolosi, mia madre non c’era piú.
La vita era dura per i piccoli agricoltori del centro del paese. Mio nonno, don José Angel Reyes, aveva poca terra e molti figli. I nomi dei miei zii mi sembravano nomi di principi di regni lontani. Si chiamavano Amós, Oseas, Joel, Abadías. Mio padre si chiamava semplicemente José del Carmen. Se ne andò giovanissimo dalle terre paterne e lavorò come operaio nei bacini di carenaggio del porto di Talhuano, per finire ferroviere a Temuco.
Era conducente di un treno della ghiaia. Pochi sanno che cos’è un treno della ghiaia. Nella regione australe, dai grandi uragani, le acque porterebbero via le rotaie se non si stendesse un letto di sassi fra le traversine. Bisogna andare a prendere con dei cesti la ghiaia dalle cave e caricare il pietrisco sui carri merci. Quarant’anni fa l’equipaggio di un treno di questo tipo doveva essere formidabile. Venivano dai campi, dai sobborghi, dalle carceri. Erano braccianti giganteschi e muscolosi. I salari dell’impresa erano miserabili ma non si richiedeva nessuna esperienza a chi voleva lavorare sui treni della ghiaia. Mio padre era conducente del treno. Si era abituato a comandare e a obbedire. Qualche volta mi portava con sé. Caricavamo pietre a Boroa, cuore silvestre della frontiera, teatro delle terribili lotte fra spagnoli e araucani.
La natura, lí, mi dava una specie di ebbrezza. Mi attiravano gli uccelli, gli scarabei, le uova di pernice. Era miracoloso scoprirle nelle crepe delle rocce, nelle spaccature degli alberi, brunite, scure e lucenti, di un colore simile a quello della canna di un fucile. Ero sbalordito dalla perfezione degli insetti. Raccoglievo le «madri della serpe». Con questo nome stravagante veniva chiamato il piú grande coleottero nero, lucido e forte, il titano degli insetti del Cile. Fa impressione vederlo all’improvviso sui tronchi dei maqui e dei meli selvatici, i cohiué, ma sapevo che era talmente forte che avrei potuto calpestarlo senza romperlo. Con la sua gran corazza difensiva non aveva bisogno di veleno.
Queste mie esplorazioni riempivano di curiosità i lavoratori. Ben presto cominciarono a interessarsi alle mie scoperte. Appena mio padre non faceva attenzione, si addentravano nella foresta vergine, e con piú abilità, piú intelligenza e piú forza di me, mi trovavano tesori incredibili. C’era uno che si chiamava Monge. Un pericoloso attaccabrighe, secondo mio padre. Sul suo viso bruno spiccavano due grandi solchi. Uno era la cicatrice verticale di una coltellata e l’altro il suo sorriso bianco, orizzontale, pieno di simpatia e di astuzia. Questo Monge mi portava copihue bianchi, ragni pelosi, nidiate di colombacci, e una volta scoprí per me il tesoro piú splendido, il coleottero del cohiué e della luma. Non so se l’avete mai visto. Io lo vidi solo in quell’occasione. Era un lampo vestito di arcobaleno. Il rosso e il violetto e il verde e il giallo si confondevano nei bagliori della sua corazza. Come un lampo mi sfuggí dalle mani e tornò alla foresta. Monge non era piú lí a riprendermelo. Non mi sono mai riavuto da quell’apparizione abbagliante. Né ho dimenticato quell’amico. Mio padre mi raccontò la sua morte. Cadde dal treno e rotolò per un precipizio. Il convoglio si fermò, ma, mi diceva mio padre, ormai era solo un mucchio d’ossa.
È difficile dare un’idea di una casa come la mia, casa tipica di frontiera, sessant’anni fa.
In primo luogo gli appartamenti delle varie famiglie erano comunicanti. Dal fondo dei cortili i Reyes e gli Ortega, i Candia e i Mason si scambiavano arnesi o libri, torte per i compleanni, unguenti per frizioni, ombrelli, tavoli e sedie.
Queste case pioniere coprivano tutte le attività di un paese.
Don Carlos Mason, un nordamericano dalla lunga chioma bianca, che somigliava a Emerson, era il patriarca di questa famiglia. I figli Mason erano decisamente criollos. Don Carlos Mason aveva Codice e Bibbia. Non era un imperialista, ma un fondatore originale. In questa famiglia, senza che nessuno avesse denaro, nascevano stamperie, alberghi, macellerie. Alcuni figli erano direttori di giornali, altri operai nella stessa stamperia. Tutto con il tempo passava e tutti rimanevano poveri come prima. Solo i tedeschi avevano quell’irriducibile capacità di conservare i propri beni, per cui erano famosi in tutta la frontiera.
Le nostre case avevano dunque un po’ dell’accampamento. Evocavano imprese di esploratori. Entrando si vedevano barili, attrezzi, finimenti e oggetti indescrivibili.
Rimanevano sempre stanze da finire, scale incompiute. Si parlava tutta la vita di continuarne la costruzione. I genitori cominciavano a pensare all’università per i figli.
Nella casa di don Carlos Mason si celebravano le grandi feste. In ogni pranzo di compleanno c’erano tacchini con sedano, agnelli arrostiti sulla legna e leche nevada per dolce. Sono ormai molti anni che non assaggio la leche nevada. Il patriarca dai bianchi capelli si sedeva a capo dell’interminabile tavolata, con sua moglie, doña Micaela Candia. Alle sue spalle c’era un’immensa bandiera cilena cui era stata appuntata con una spilla una minuscola bandierina nordamericana. Questa era anche la proporzione del sangue. Prevaleva la stella solitaria del Cile.
Nella casa dei Mason c’era anche una stanza in cui da bambini non ci lasciavano entrare. Non ho mai visto il vero colore dei mobili perché rimasero coperti da fodere bianche finché un incendio li distrusse. In quella stanza c’era un album di famiglia. Queste foto erano piú tenui e delicate dei terribili ingrandimenti colorati che invasero in seguito la frontiera.
Nell’album c’era anche un ritratto di mia madre. Era una signora vestita di nero, esile e pensierosa. Ho saputo che scriveva versi: io però non li ho mai visti. L’unica cosa che ho visto è quel bel ritratto.
Mio padre si era sposato in seconde nozze con doña Trinidad Candia Marverde, la mia matrigna. Mi sembra incredibile dover usare questa parola per l’angelo tutelare della mia infanzia. Era dolce e solerte, aveva uno spirito tutto contadino, una bontà attiva e infaticabile.
Appena arrivava mio padre, lei si trasformava in un’ombra, dolce come tutte le donne di allora e di laggiú.
In quella stanza vidi ballare mazurche e quadriglie.
In casa mia c’era anche un baule con oggetti affascinanti. Sul fondo luccicava un meraviglioso pappagallo da calendario. Un giorno che mia madre frugava in quell’arca incantata mi ci buttai dentro di testa per prendere il pappagallo. Ma quando divenni piú grande l’aprivo di nascosto. C’erano dei ventagli preziosi e impalpabili.
Ho un altro ricordo di quel baule. La prima storia d’amore che mi abbia appassionato: centinaia di cartoline spedite da uno che le firmava non so se Enrique o Alberto e tutte indirizzate a María Thielman. Quelle cartoline erano meravigliose. Erano ritratti delle grandi attrici del tempo con vetrini incastonati e a volte persino capelli veri applicati come chioma. C’erano anche castelli, città e paesaggi lontani. Per anni guardai solo le figure. Ma poi, man mano che crescevo, mi misi a leggere quei messaggi d’amore scritti con perfetta calligrafia. Mi sono sempre immaginato il corteggiatore come un uomo dal cappello duro, con bastone e un brillante alla cravatta. Ma quelle righe traboccavano di travolgente passione. Il viaggiatore le spediva da tutti i punti del globo. Erano piene di frasi abbaglianti, audaci e innamorate. Cominciai anch’io a innamorarmi di María Thielman. Lei, l’immaginavo come un’attrice sdegnosa, incoronata di perle. Ma come mai quelle lettere erano capitate nel baule di mia madre? Non sono mai riuscito a saperlo.
A Temuco arrivò il 1910. In quell’anno memorabile entrai a scuola, un immenso casermone dalle sale desolate e dai cupi sotterranei. Dall’alto della scuola, in primavera, si poteva scorgere il serpeggiante e delizioso Río Cautín, con le sue rive fitte di meli selvatici. Marinavamo la scuola per immergere i piedi nell’acqua fredda che scorreva sulle pietre bianche.
Ma la scuola era un territorio di sconfinati orizzonti per i miei sei anni. Tutto era avvolto in un alone di mistero. Il laboratorio di fisica in cui non mi lasciavano entrare, pieno di strumenti scintillanti, di storte e bacinelle. La biblioteca eternamente chiusa. Ai figli dei pionieri non piaceva la cultura. Il luogo di maggior incanto era però il sotterraneo. Lí dominavano un silenzio e un’oscurità immensi. Giocavamo alla guerra alla luce delle candele. I vincitori legavano i prigionieri alle vecchie colonne. Ho ancora nella memoria l’odore di umidità, di luogo nascosto, di tomba, che emanava dal sotterraneo del liceo di Temuco.
Crescevo. Cominciarono a interessarmi i libri. Nelle avventure di Buffalo Bill, nei viaggi di Salgari, il mio spirito si andò estendendo per le regioni del sogno. I primi amori, i piú puri, si dipanavano in lettere inviate a Blanca Wilson. Questa bambina era la figlia del fabbro e uno dei ragazzi, pazzo d’amore per lei, mi chiese di scrivergli le sue lettere d’amore. Non ricordo com’erano quelle lettere, ma forse furono le mie prime opere letterarie, perché, una volta che l’incontrai, la scolara mi chiese se ero io l’autore delle lettere che il suo innamorato le portava. Non osai rinnegare le mie opere e molto turbato le risposi di sí. Allora mi diede una mela cotogna che non ebbi naturalmente il coraggio di mangiare e conservai come un tesoro. Sostituito cosí il mio compagno nel cuore della bimba, continuai a scriverle interminabili lettere d’amore e a ricevere mele cotogne.
I ragazzi al liceo non conoscevano né rispettavano la mia condizione di poeta. La frontiera aveva una meravigliosa aria da Far West fuorilegge. I miei compagni si chiamavano Schnakes, Schlers, Hausers, Smiths Taitos, Seranis. Eravamo tutti eguali, Aracenas, Ramírez, Reyes. Non c’erano cognomi baschi. C’erano anche sefarditi: Albalas, Francos. Irlandesi: McGyntis. Polacchi: Yanichewkys. I cognomi araucani brillavano di luce oscura, odorosi di legno e di acqua: Melivilus, Catrileos.
A volte nel grande capannone facevamo delle battaglie con le ghiande di leccio. Nessuno che non l’abbia provato può sapere quanto male fanno le ghiande. Prima di arrivare al liceo ci riempivamo le tasche di munizioni. Io avevo scarsa abilità, nessuna forza e poca astuzia. Avevo sempre la peggio. Mentre indugiavo a osservare la ghianda bellissima, verde e lustra, con il suo cappello rugoso e grigio, e cercavo goffamente di fabbricarmi una di quelle pipe che poi mi portavano via, mi era già caduto un diluvio di gh...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Nota introduttiva di Jaime Riera Rehren
  4. Quaderno 1. Il giovane provinciale
  5. Quaderno 2. Perduto nella città
  6. Quaderno 3. Le strade del mondo
  7. Quaderno 4. La solitudine luminosa
  8. Quaderno 5. La Spagna nel cuore
  9. Quaderno 6. Andai a cercar caduti
  10. Quaderno 7. Messico fiorito e spinoso
  11. Quaderno 8. La patria in tenebre
  12. Quaderno 9. Inizio e fine di un esilio
  13. Quaderno 10. Navigazione con ritorno
  14. Quaderno 11. La poesia è un mestiere
  15. Quaderno 12. Patria dolce e dura
  16. Cronologia della vita e delle opere
  17. Elenco dei nomi
  18. Il libro
  19. L’autore
  20. Dello stesso autore
  21. Copyright