Gli ebrei di Rembrandt
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Gli ebrei di Rembrandt

Steven Nadler, Andrea Asioli

  1. 288 pagine
  2. Italian
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Gli ebrei di Rembrandt

Steven Nadler, Andrea Asioli

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Molte sono le opere di Rembrandt con soggetti tratti dalla Bibbia ebraica e numerosi sono i suoi ritratti di notabili ebrei. Ma quali furono i concreti legami tra Rembrandt e la comunità ebraica? Steven Nadler documenta i rapporti quotidiani, non sempre facili, tra il pittore e i suoi vicini di casa a Vlooienburg, nel cuore del mondo ebraico di Amsterdam. E ben presto, partendo dal lavoro del grande artista, il rinomato studioso di Spinoza estende il campo d'indagine, per descrivere alcune pagine centrali della vita dei sefarditi e degli ashkenaziti all'indomani del loro insediamento presso lo Zuiderzee: l'assimilazione da parte di una società cosmopolita di queste comunità di migranti, oggetto di interesse intellettuale e sospetto, curiosità e pregiudizio, e talvolta ammirazione. «All'epoca, il Vlooienburg costituiva il fulcro del mercato artistico e del commercio del legname, nonché il cuore del mondo ebraico di Amsterdam. E Rembrandt stava nel centro esatto di quest'area. Tutte le case immediatamente attigue o che si affacciavano sulla sua, sul lato destro e sinistro della strada, appartenevano a ebrei. Dalla sua scalinata d'ingresso Rembrandt poteva vedere attraverso le finestre della casa di Rabbi Mortera, e dall'ultimo piano si offriva alla sua vista la sinagoga della comunità. La mattina udiva gli schiamazzi in portoghese dei figli delle famiglie ebree mentre andavano a scuola. Il venerdí pomeriggio poteva sentire l'odore delle pietanze iberiche preparate a cottura lenta per lo Shabbat. Prima della Lower East Side a New York, del Marais a Parigi e persino dell'East End londinese, ad Amsterdam esisteva il Vlooienburg. E molti degli elementi che consideriamo fondativi dell'arte e della personalità rembrandtiane derivano, in ultima analisi, dalla sua decisione di stabilirvi il proprio domicilio».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858426944
II.

Immagini idolatre

Diego D’Andrade era profondamente deluso. Ciò che aveva chiesto non era poi cosí difficile: solo un semplice ritratto di giovane donna – la figlia, probabilmente – da poter appendere in casa. Il dipinto gli avrebbe consentito di serbarne il ricordo, dal momento che lei era in procinto di lasciare Amsterdam. Aveva anticipato settantacinque gulden a Rembrandt, impegnandosi a saldare il conto a consegna avvenuta. D’Andrade, un «mercante portoghese», non doveva passarsela male, visto che si era affidato al piú illustre pittore di Amsterdam. Ciò che aveva in mente era un delizioso dipinto in perfetto stile olandese. O quantomeno si aspettava che il ritratto presentasse qualche somiglianza con la modella. Il celebre artista era senza dubbio capace di tanto (anche se, chiaramente, D’Andrade era stato diffidente fin dall’inizio).
Alla fine, il committente ebreo non rimase per niente soddisfatto. Nel febbraio 1654, quando sporse reclamo presso l’ufficio del notaio, sostenne che il ritratto, non terminato, «non mostra alcuna somiglianza con l’immagine della testa della ragazza»1. Forse lo stile aspro di Rembrandt, evidente anche in altre opere del periodo (è il caso del magnifico ritratto di tre quarti di Jan Six), ne deformò i contorni del viso. Forse il suo penchant sempre piú marcato per le ombreggiature lo portò a nascondere troppo i lineamenti. Sembra che D’Andrade avesse una certa familiarità con la tavolozza scura di Rembrandt, perché nella sua deposizione disse di aver «preventivamente» dato «sufficienti avvertimenti» all’artista: forse si era raccomandato che fosse semplice e di non perdere di vista l’oggetto del dipinto. D’Andrade ora chiedeva a Rembrandt «di modificare e ritoccare il dipinto, o ritratto, prima della partenza della giovane, cosicché rispecchi le sue vere sembianze», altrimenti non sarebbe piú stato di suo interesse, e Rembrandt avrebbe dovuto riprendersi indietro l’opera e rimborsare l’anticipo.
Rembrandt non accettò. Non tanto in nome dell’orgoglio o dell’integrità artistica, ma solo perché non avrebbe rimesso mano al dipinto finché «il ricorrente non gli avesse corrisposto il saldo pattuito o gli garantisse il totale pagamento mediante cauzione». Rembrandt sarebbe stato lieto di completare l’opera e perfino di ritoccarla, ma solo se avesse avuto la certezza di essere ripagato delle sue fatiche. Inoltre, quanto alla presunta dissomiglianza fra il ritratto e l’originale era la sua parola contro quella di D’Andrade. La cosa migliore era sottoporlo al giudizio di una giuria di osservatori neutrali: il consiglio della Gilda di San Luca, la corporazione dei pittori. Se esso avesse stabilito che il ritratto non era somigliante, l’artista lo avrebbe cambiato; se nemmeno a quel punto il ritratto piaceva a D’Andrade, Rembrandt avrebbe accettato di tenerselo e di venderlo all’asta.
Non sappiamo quale sorte toccò al dipinto.
Il 1654 non fu un anno buono per i rapporti di Rembrandt con i vicini ebrei. Ma l’aspetto che piú colpisce della disputa con D’Andrade non è tanto che ebbe luogo nello stesso mese della controversia con Daniel Pinto e dei furti al seminterrato compiuti da Eleasar Swab. Le relazioni fra il proprietario dell’edificio al numero 4 della Breestraat e i vicini andarono oltre le vicende quotidiane che coinvolgevano gli abitanti dello stesso isolato, inscrivendosi a pieno titolo nella sfera artistica. Non solo Rembrandt viveva tra sefarditi e ashkenaziti (né si limitava a litigare con loro) affittando la cantina, rifiutando le richieste di rimborso e mescolandosi tra loro come abitualmente avviene con i vicini di casa: egli li disegnò, li incise, li dipinse. Talvolta, addirittura, lo pagavano per questo. E, a dispetto della profonda insoddisfazione di D’Andrade, nel farlo diede prova di un’abilità sconosciuta ai pittori dell’epoca.
Qui, tuttavia, occorre usare un po’ di prudenza. Non bisogna soccombere alla tentazione di romanticizzare l’artista, calcando la mano sul suo genio e la sua passionalità, o ancor peggio su un episodio come la bancarotta. Sarebbe fin troppo semplice costruire il mito di un Rembrandt filosemita, la cui ammirazione per i vicini ebrei – per la loro antica religione, le usanze esotiche, l’aspetto straniero – avrebbe impresso un nuovo carattere alla sua arte. Si cadrebbe nella trappola di consacrare Rembrandt come preminente pittore degli ebrei di Amsterdam, mosso non solo da considerazioni utilitaristiche, ma anche da sentimenti genuini. «Rembrandt, – scrive Horst W. Janson nella sua Storia dell’arte, libro di testo ormai divenuto un classico nei college statunitensi, – nutriva una speciale simpatia per gli ebrei, in quanto eredi del passato biblico e in quanto vittime pazienti delle persecuzioni»2. Un altro studioso suggerisce che «per Rembrandt, gli ebrei, nella loro pittoresca varietà, devono aver avuto un interesse particolare», e i dipinti che li ritraggono «indubbiamente riflettono l’inclinazione spirituale del pittore»3. Dopotutto, il calore delle sue raffigurazioni di personaggi veterotestamentari non è forse la spia di uno stretto rapporto con gli ebrei di Amsterdam? Si è persino affermato che Rembrandt si rallegrasse nel trovare sulla Breestraat «una naturalistica rappresentazione delle storie dell’Antico Testamento nella vita reale»4. I ritratti rembrandtiani veicolerebbero un’empatia senza precedenti fra artista e soggetto, nonché una notevole tenerezza emotiva. Egli comprese questo popolo come nessun artista europeo aveva fatto in precedenza. Le loro storie, le loro leggende e soprattutto i loro volti sono temi salienti e ricorrenti nelle sue opere: ecco perché, quasi unico tra gli artisti non ebrei, è assai presente nei manuali illustrati di arte ebraica.
Certo, è innegabile che abbia disegnato, inciso e dipinto un gran numero e una gran varietà di storie e personaggi tratti dalla Torah e da altri testi biblici ebraici: Abramo, Agar, Ismaele, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Beniamino, Mosè, Sansone, Anna, Samuele, Saul, Davide, Betsabea, Mardocheo, Ester, Aman, Balaam, Tobia, Daniele – e l’elenco potrebbe continuare5. Spesso si focalizzò su differenti episodi della loro vita – Davide e Uria, Davide in preghiera, Davide che suona l’arpa per Saul, Davide presenta la testa di Golia a Saul, Riconciliazione di Davide e Assalonne – e alcuni eventi compaiono ripetutamente (esistono ad esempio due versioni dipinte, nonché un’acquaforte, di Giuseppe e la moglie di Putifarre). Molte di queste sono opere profondamente sentite, e in quanto tali commoventi. Non sono riducibili a mere illustrazioni di scene veterotestamentarie: da esse traspare infatti una suprema capacità di rendere l’umanità, e persino di cogliere le singole identità dei soggetti, che non può trovare radice se non in un’assidua frequentazione delle Scritture ebraiche. Se altri artisti hanno dipinto la Bibbia, Rembrandt dipinse le Scritture ebraiche. Nei volti dei personaggi dei suoi quadri si è spesso creduto di poter riconoscere le fattezze dei vicini di casa sefarditi e ashkenaziti, mentre l’interpretazione che dà di alcune storie si suppone derivi da successivi scritti rabbinici che avrebbe scoperto grazie ai suoi conoscenti ebrei. (Non di rado si legge che perfino le sue raffigurazioni di Gesú fossero modellate su giovani membri della comunità portoghese).
Dunque, il piú grande pittore olandese fu un amico degli ebrei. Verso di lui, perciò, come scrive lo storico ebreo-olandese Moses Gans, essi contrassero un «enorme debito di gratitudine», perché «mai artista non ebreo – scultore, pittore o scrittore – seppe dipingere questo gruppo di reietti – che ai suoi occhi, malgrado tutto, rimanevano pur sempre il popolo di Dio in esilio – con lo stesso realismo di Rembrandt»6. Egli fu in grado di ritrarre gli ebrei per quello che erano, anziché per come venivano dipinti nei malvagi e velenosi sermoni dei nemici, poiché provava un sincero rispetto per le loro tradizioni che affondava le radici nei suoi incontri personali sulla Breestraat. Rembrandt collaborò con i rabbini della comunità, si avvalse delle loro indicazioni nel rappresentare le iscrizioni ebraiche e, non da ultimo, possedeva una copia delle Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe. Cos’altro abbiamo bisogno di sapere7?
Non tutti coloro che accettano questa spiegazione mostrano un atteggiamento benevolo in merito. Alcuni contemporanei di Rembrandt, in particolare, furono molto critici per l’attenzione da lui riservata al mondo ebraico. Il pittore Gérard de Lairesse, autore di Het groot schilderboek (Grande libro della pittura), pubblicato nel 1707, rivolse parole di disprezzo nei riguardi del maestro olandese, il cui colore, a suo dire, «cola dalla superficie della tela come merda [drek]» – riferimento alle incrostazioni e allo spesso impasto prediletti da Rembrandt. De Lairesse, secondo Simon Schama, detestava pure il gusto di Rembrandt nello scegliere i soggetti: accattoni, attori e, peggio ancora, ebrei, tutti indegni della nobile arte pittorica8. Rispetto agli elevati temi trattati nelle grandiose tele di Rubens e nei dipinti storici del rivale conterraneo Jan Lievens e degli ex allievi Govaert Flinck e Ferdinand Bol, Rembrandt fu accusato – come già accaduto a Caravaggio – di involgarire l’arte, abbassandola al livello della strada se non dei bassifondi.
Un modo per sfatare una leggenda consiste nel personalizzarla, nello svelare le motivazioni dei suoi propagatori. Franz Landsberger, studioso di arte ebraica nonché propugnatore, a metà Novecento, di un Rembrandt affascinato dalla commovente cultura degli ebrei, ammette che questo modo di guardare all’artista si basa interamente «su congetture» e non poggia su «alcuna evidenza fattuale». Eppure, scrivendo, come tiene a precisare, «in quest’epoca segnata dalla tragedia degli ebrei in Europa» – il suo libro, Rembrandt, the Jews and the Bible, è del 1946 –, Landsberger confessa di trovare grande sollievo in una simile spiegazione. Perché, prosegue, «ecco qui un uomo di stirpe germanica che non reputava gli ebrei olandesi dell’epoca una “disgrazia”, ma nutriva sentimenti amichevoli verso di loro, abitava in mezzo a loro e ne ritrasse personalità e costumi»9. Forse, concede Landsberger, il suo personale bisogno di consolazione sull’onda degli orrori dell’Olocausto lo spinse a vedere nei dipinti di Rembrandt piú di quanto la documentazione esistente e persino le stesse testimonianze pittoriche lasciassero intendere.
Oppure potremmo avanzare qualche sospetto sulle motivazioni che stavano dietro alla condotta dello stesso Rembrandt. È quello che ha fatto la storica dell’arte Shelley Perlove, la quale sostiene che gran parte dell’interesse per i temi ebraici riscontrabile nell’arte di Rembrandt derivasse da una convinzione conversionistica che condivideva con una cerchia di mecenati e amici: vale a dire, dal desiderio di vedere gli ebrei pentiti dei propri errori e convertirli al cristianesimo, cosí da accelerare il ritorno del Redentore sulla Terra. Un certo numero di dipinti e stampe, sottolinea la Perlove, era destinato a un pubblico di olandesi protestanti ansiosi di veder approssimarsi il Millennio.
La puntasecca raffigurante Il trionfo di Mardocheo del 1642 circa (fig. 2), ad esempio, con il suo eroe investito del ruolo allegorico di pio patriota, si ritiene che evochi la profezia della restaurazione del Tempio a Gerusalemme mediante la Seconda Venuta e l’instaurazione di «un’utopia di giustizia politica, unità religiosa e salvezza universale»10. Un altro studioso, Michael Zell, è giunto alla conclusione che non solo i dipinti veterotestamentari, ma anche e soprattutto i successivi dipinti neotestamentari di Rembrandt vanno inquadrati in un’ottica «ebraica». Zell afferma ad esempio che alcune sue stampe, databili agli anni Cinquanta del Seicento, possono essere capite solo alla luce dei contatti dell’artista con i filosemiti e il messianismo conversionista da essi professato in vista di una riconciliazione tra ebrei e cristiani11.
Figura 2. Rembrandt, Il trionfo di Mardocheo, incisione a puntasecca, 1642 circa.
Figura 2. Rembrandt, Il trionfo di Mardocheo, incisione a puntasecca, 1642 circa.
Si può infine destituire di ogni fondamento la spiegazione, anche se cosí facendo si rischia di passare all’estremo opposto. Nel suo Rembrandt. His Life, His Paintings, lo specialista Gary Schwartz, a quanto pare alludendo ai contatti personali del pittore olandese e ai temi e ai motivi ispiratori della sua arte, asserisce che «Rembrandt non ebbe relazioni profonde con la comunità ebraica». Sí, è vero, viveva in mezzo a loro sulla Breestraat, come è altrettanto vero che non mancarono le occasioni per collaborare con gli ebrei di Amsterdam, da cui gli giungevano di quando in quando commissioni di ritratti. Ma, insinua Schwartz, desumere da questi labili indizi e rari scambi un suo attivo coinvolgimento nelle attività degli ebrei di Amsterdam e un suo schierarsi su posizioni apertamente filosemite implica un salto immaginativo troppo grande12.
La verità, come al solito, si colloca nel mezzo. Dovrebbe essere possibile restituire un profilo piú sobrio e realistico di Rembrandt e dei suoi rapporti con i vicini ebrei, benché ciò porti a riconsiderare daccapo le valutazioni che, per lunga consuetudine, diamo ormai per assodate, e porre un freno alle piú ardite teorie.
La questione resta spinosa perché non è dato sapere se tutti i dipinti e le acqueforti di Rembrandt di soggetto intenzionalmente «ebraico» – a prescindere dal significato del vocabolo rispetto alle opere d’arte non direttamente riconducibili a uno scopo liturgico – siano tali a tutti gli effetti. Tralasciamo le storie bibliche: il Sacrificio di Isacco per mano di Abramo, la Lotta di Giacobbe con l’Angelo di Dio, Giuseppe che fugge dalla moglie di Putifarre, Giacobbe che benedice i figli di Giuseppe e Mosè con le Tavole della Legge sono temi comuni nell’arte occidentale. Il numero di volte che un artista li dipinge ha ben poco peso. Oltre all’ovvia constatazione che i cristiani rivendicano a sé le Scritture ebraiche, i dipinti e le stampe delle storie e dei personaggi biblici ebbero un’importanza cruciale per la Repubblica olandese. La cultura calvinista seicentesca era, in voluto contrasto con la società cattolica, profondamente orientata vers...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Gli ebrei di Rembrandt
  4. I. Sulla Breestraat
  5. II. Immagini idolatre
  6. III. Il rabbino infelice
  7. IV. Esnoga
  8. V. Il mondo a venire
  9. Note
  10. Bibliografia scelta
  11. Indice analitico
  12. Il libro
  13. L’autore
  14. Dello stesso autore
  15. Copyright
Stili delle citazioni per Gli ebrei di Rembrandt

APA 6 Citation

Nadler, S. (2017). Gli ebrei di Rembrandt ([edition unavailable]). EINAUDI. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3424633/gli-ebrei-di-rembrandt-pdf (Original work published 2017)

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Nadler, Steven. (2017) 2017. Gli Ebrei Di Rembrandt. [Edition unavailable]. EINAUDI. https://www.perlego.com/book/3424633/gli-ebrei-di-rembrandt-pdf.

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Nadler, S. (2017) Gli ebrei di Rembrandt. [edition unavailable]. EINAUDI. Available at: https://www.perlego.com/book/3424633/gli-ebrei-di-rembrandt-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Nadler, Steven. Gli Ebrei Di Rembrandt. [edition unavailable]. EINAUDI, 2017. Web. 15 Oct. 2022.