Sono puri i loro sogni
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Sono puri i loro sogni

Lettera a noi genitori sulla scuola Einaudi

  1. 120 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
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Sono puri i loro sogni

Lettera a noi genitori sulla scuola Einaudi

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Informazioni sul libro

Matteo Bussola ha tre figlie, le accompagna a scuola, le segue nei compiti, parla con gli altri genitori e partecipa pure alle chat di classe su WhatsApp. Insomma, sulla scuola ha un osservatorio privilegiato. E quindi può testimoniare che, davanti a un brutto voto, spesso i genitori si sentono messi in discussione, e per tutta risposta negano l'autorità degli insegnanti. Cosí decide di scrivere a sé stesso, e agli altri genitori, per provare a riflettere sui sensi di colpa e le paure che si nascondono dietro la mancanza di fiducia nella scuola. Un libro di storie - le sue, ma anche quelle delle madri e dei padri che frequenta, di sua mamma ex insegnante, degli amici docenti - che parla del nostro tempo, e dei nostri figli. Di come spesso, senza accorgercene, ci sovrapponiamo a loro per evitare che inciampino. Ma non c'è crescita senza crisi, e solo facendoci da parte, pur pronti a raccoglierli se cadono, possiamo aiutarli a diventare adulti. Dal primo giorno di scuola, in cui mamme, papà, nonni e fratelli accompagnano in massa i bambini fino in classe scattando foto a raffica, neanche fossero a un concerto degli Stones, alle raccomandazioni per la mensa, ché la stagionatura del Parmigiano, si sa, dev'essere almeno 38 mesi; dai pidocchi, che ogni anno proliferano sulle teste degli alunni generando ansie e sospetti, al kit di sopravvivenza per la gita, che prevede praticamente tutto tranne un gps satellitare. Matteo Bussola fa un ritratto divertito e serissimo della scuola di oggi, confrontandola con quella di quand'era piccolo lui. E si domanda perché abbiamo smesso di considerarla un luogo in cui imparare il rispetto per noi stessi e per gli altri. Con il tono caldo e intimo che è ormai la sua inconfondibile cifra, lo sguardo attento a ogni storia che incontra, parte dalla sua esperienza per scrivere una lettera a tutti noi, arrivando al cuore della nostra paura. Quella di «lasciar andare i nostri figli nel mondo, permettere che compiano i loro passi senza di noi».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858426999

Sono puri i loro sogni

a Gabriella ed Ernesto,
loro sanno perché
Era l’autunno del 1976, settembre era agli sgoccioli, il bambino alto mi disse:
– Sai che abito vicino a casa tua?
Ci trovavamo agli armadietti della scuola materna, entrambi stavamo cercando di appendere le nostre giacche di una taglia in piú sull’attaccapanni arancione. Le braccia mi tremavano, percorse da brividi di puro terrore.
– Come fai a saperlo?
– Ti ho visto nel tuo cortile. Io sono Mirco.
Si presentò dritto, senza indugi, allungandomi una mano che mi pareva troppo grande per essere quella di un coetaneo.
– Io sono Matteo.
La mia mano scomparve nella sua.
Mirco mi superava di una testa, io ero piccolo e gracile, lui sembrava la mia custodia.
Vinta la ritrosia iniziale, divenne il mio primissimo amico. Lo è ancora oggi.
Fino ad allora, non avevo mai sentito il bisogno di averne uno, ero un bambino solitario e introverso. Mia mamma, ogni volta che ricorda la mia infanzia, mi dice: «Tu ti bastavi da solo».
Avevo il disegno, i fumetti da sfogliare, un giardino con l’erba sempre alta in cui correre e un albero sul quale arrampicarmi, cos’avrei potuto volere di piú? Al netto dei familiari, la mia realtà cominciava e finiva con me. Almeno fino a quel giorno del terzo anno di materna, che in verità fu il primo, visto che i precedenti due li avevo passati a casa con la nonna.
Quell’unico anno fu per me la scoperta di un mondo nuovo.
D’un tratto c’erano «gli altri». Con gli altri non andavo sempre d’accordo, questa cosa mi spaventava, dopo un po’ ci trovai un senso. Non sentirmi piú al sicuro, avere paura, vedere che la gentilezza di chi avevo intorno non era dovuta, ma dipendeva anche dalla mia, mi restituiva la responsabilità di scegliere come volevo essere. Non esisteva piú l’accoglienza incondizionata dei miei genitori, il mio comportamento generava conseguenze. Imparavo delle regole che, al tempo non potevo saperlo, mi sarebbero servite per tutta la vita. Una la conoscevo già, me la ripeteva di continuo mia nonna, ma ne compresi il significato solo lí:
«Chi rispetto vuole, rispetto porta».
La scuola serviva a insegnarci questo: rispetta gli altri, tira fuori il meglio che hai, le due cose sono alla base di ogni risultato.
Oggi sono padre, ho tre figlie di età differenti che frequentano istituti diversi. Le mie paure sono adesso tutte per loro.
Perché di rispetto, nella scuola, ne vedo sempre meno. Soprattutto fra genitori e insegnanti.
Noi genitori, in particolare, sembriamo spesso insoddisfatti, eccessivamente critici, a volte arrabbiati. Intenti a tracciare confini e pronti a fare da scudo ai nostri figli di fronte a qualunque difficoltà, difendendoli da chiunque provi a metterli in crisi. È questo a confondermi di piú.
Quella fra noi e l’autorità scolastica pare essere diventata una specie di guerra, in cui il mirino delle nostre paure viene puntato troppe volte sulla classe docente che, ormai, abbiamo costretto a una comprensibile diffidenza. A farne le spese, è proprio chi crediamo di proteggere.
Vivendo la scuola da genitore ho accumulato negli anni osservazioni, riflessioni, testimonianze, aneddoti che mi hanno portato a domande che aumentano giorno dopo giorno. E mi hanno condotto, di nuovo, a interrogarmi sulle mie stesse responsabilità.
Perché siamo diventati cosí?
Non riesco a capire cosa ci sia accaduto.
Quando non capisco qualcosa, se perdo la direzione di un ragionamento, l’orizzonte di uno sguardo, mi siedo davanti a una pagina bianca e metto in fila le parole.
Ho imparato a fare in questo modo proprio a scuola, cosí tanti anni fa che mi sembrano mille. È una delle numerose eredità che il percorso scolastico mi ha lasciato, insieme alle poesie di Ungaretti, le province della Basilicata, il teorema di Pitagora, il profumo alla mela verde di Arianna. Una fiducia istintiva per chi ha mani grandi.
«Quando non capisci, scrivi, – mi diceva sempre la maestra Miranda, – cosí metti in ordine i pensieri».
Un’altra cosa che ho imparato a scuola è che scrivere, per me, significa sempre scrivere a qualcuno. Come se la scrittura dovesse essere orientata dalla consapevolezza di un destinatario, che si tratti di uno solo oppure di molti, perfino quando il destinatario sono io. Soprattutto, quando anch’io mi sento parte di quei molti.
Ecco perché questo libro è una lettera.
Ecco perché è rivolta a noi genitori.
Il primo giorno di scuola elementare di Ginevra siamo andati in cinque.
Quasi non riuscivo a vederla, coperta dalle mamme, dai papà e dai nonni che scattavano foto a raffica ai bambini, oppure facevano lunghi filmini con gli smartphone, manco fossimo a un concerto degli Stones. Fra loro c’era anche Paola, che sgomitava in mezzo alla folla cercando le inquadrature migliori. Abbiamo accompagnato i bimbi su per le scale, fin dentro le classi. Siamo stati loro accanto durante la baraonda della scelta del banco, incollati come tante sentinelle, infine le solite raccomandazioni di rito.
– Papà, adesso però vai via! – mi ha detto Ginevra.
– Ancora un attimo, – ha detto al mio posto la mamma, sull’orlo della commozione.
Noi genitori ci siamo allontanati solo dopo aver ricevuto tutte le opportune rassicurazioni dalle maestre, avere esaurito le avvertenze intorno al menu del pranzo – «Denis è intollerante ai pomodori!», «Marina non mangia i porri!», «Le mozzarelle, quanto tempo prima le tirate fuori dal frigo?» – e dopo esserci fatti confermare piú volte l’orario preciso di uscita dei bambini.
– Alle 12.45, sul marciapiede di fronte al cancello.
Su quel marciapiede, davanti a quel cancello, molti genitori sono arrivati con piú di mezz’ora di anticipo. Hanno continuato a fissare alternativamente l’orologio e il cancello per piú di mezz’ora. Lo so perché io ero uno di quelli.
– Che ore sono?
– Le 12.27.
– Ma sei sicuro? Perché io faccio le 12.28 e cinquantasette secondi, praticamente le 12.29.
– Eh, ma l’orologio della scuola segue l’ora del meridiano di Greenwich. Sono le 12.27 in punto, diciotto minuti esatti al suono della campanella.
– Okay, sincronizziamo gli orologi. Pronti? Al mio tre.
– Aspetta, chi l’ha detta questa cosa?
– Quale cosa?
– Quella del mediano di Sandwich.
– La dirigente scolastica, alla riunione di apertura.
– Apertura? Allora hanno aperto?! DOVE?!
– Mannò, signora, scherzavamo sull’orar…
– Mario, hanno aperto! Va’ a prendere la macchina!
– La prendo anch’io!
– Ricordati di abbassare i finestrini di ventitre centimetri, sennò Ettore suda!
Di quella mattinata ci restano centosette fotografie, gelosamente custodite nel pc di Paola all’interno della cartella «Ginevra copia di copia di copia DEF», ma salvate pure su chiavetta usb, ché si sa mai.
Del mio primo giorno di scuola elementare conservo una foto sbiadita.
Nella foto sorrido affacciato alla finestra della cucina, indosso un grembiule scuro con un piccolo ricamo sul taschino e ho un fiocco azzurro al collo. Che fosse azzurro lo so perché me lo ricordo, visto che l’immagine è in bianco e nero.
Mio padre non c’era, mia mamma mi lasciò al cancello circondato da centinaia di bambini in cui riconoscevo il mio stesso sguardo. Eravamo tutti lí, pronti per l’avventura della vita, non sapendo bene cosa aspettarci. Al suono della campanella salimmo in classe, la maestra ci assegnò i banchi, disse il suo nome scandendolo piano e fece il primo appello. All’improvviso, ci travolgeva la conferma definitiva di non essere (piú) gli unici al mondo.
Me n’ero già reso conto il primo giorno di materna, quando mia mamma mi aveva lasciato agli armadietti senza alcun senso di colpa apparente, dandomi un bacio sui capelli. Niente struggimenti, niente lacrime. La sola preoccupazione era relativa al cibo, dato che avevo una forte idiosincrasia nei confronti delle verdure. Alla mensa dell’asilo sperimentai i piselli con la gelatina. Mi facevano schifo, facevano schifo a tutti, li mangiavamo lo stesso perché era la regola.
Era la fine degli anni Settanta e funzionava cosí.
Una delle differenze fra la scuola di allora e quella di oggi potrebbe essere riassunta in queste due semplici immagini. Siamo passati da un mondo in cui i genitori stavano a una giusta distanza, a uno in cui i genitori stanno troppo vicini. Dal portare i figli a scuola, ai figli che portano a scuola noi. Adesso vogliamo accompagnarli fin dentro, vogliamo essere la prima cosa che vedranno all’uscita. Vogliamo delegare l’educazione ma al contempo non sappiamo se lo vogliamo davvero. Vogliamo vedere, vigilare, farci sentire.
La nostra costante presenza parte dal primo giorno, ed è il risultato di una genitorialità che interpreta troppo spesso l’amore come un mettersi davanti, nel tentativo di proteggere ciò che abbiamo di piú prezioso.
Perché i figli sono nostri.
Perché nei nostri figli riviviamo noi.
Elena ha trentasei anni, una laurea in Scienze della formazione e una specializzazione in Pedagogia. È maestra di scuola elementare da sette. Durante una lezione ha ripreso con fermezza un suo alunno per un episodio di bullismo. Per questo motivo ha subito pesanti conseguenze. Il bambino, a quanto pare, è tornato a casa e ha raccontato ai genitori di essere stato picchiato dalla maestra. I genitori, dopo averne sobillato altri, si sono rivolti al dirigente scolastico chiedendo sanzioni. Il dirigente scolastico, intimorito dalla furia genitoriale, ha preso immediati provvedimenti. Nessuno ha messo in discussione la versione del bambino, nessuno ha creduto a quella di Elena, che ha tentato invano di scagionarsi. Una settimana dopo, l’alunno ha rivelato di essersi inventato tutto. Nonostante ciò, i provvedimenti sono rimasti attivi, perché l’iter burocratico e disciplinare era già in moto.
Un’altra storia vera, di tanti anni prima. Un ragazzino fu uno studente modello per molto tempo. Smise di esserlo dopo un compito in classe di Matematica a sorpresa, sull’introduzione alla teoria degli insiemi. La questione era che in una classe di trentadue alunni c’erano sedici studenti che giocavano a calcio, e diciotto studenti che giocavano a basket. Rappresenta graficamente questa distribuzione, richiedeva il problema da risolvere. Il ragazzino non capiva come fosse possibile, i conti non gli tornavano. La risposta, oggi lo sa, era ovvia: due studenti – i due che nella sua mente apparivano «di troppo» – giocavano in realtà sia a basket che a calcio, quei maledetti. Fu cosí che apprese in maniera cristallina il concetto di intersezione. Non lo scordò mai piú, perché lo imparò sbagliando. La certificazione del suo errore fu un quattro in bella vista scritto in rosso sul compito di Matematica. Tornò a casa, i genitori non nascosero la delusione, fu punito per il brutto voto. Nessuno si chiese se il fatto che non avesse capito la teoria degli insiemi fosse colpa anche dell’insegnante, si partiva semplicemente dal presupposto che lui non avesse studiato abbastanza. La colpa poteva essere solo sua.
La scuola, fino ad appena vent’anni fa, era quella di questo ragazzino. Nessuno si sarebbe mai sognato di discutere l’autorità di un docente, men che meno la sua condotta. Nessun genitore si sarebbe mai azzardato a contestare un voto ricevuto dal figlio, o un rimprovero subito in classe, figuriamoci richiedere la sospensione di un insegnante. La stessa autorità dei presidi – oggi dirigenti scolastici – era appena un gradino sotto quella dell’imperatore Palpatine di Star Wars. Rispettata senza eccezioni, immune da qualunque tipo di intimidazione.
Era giusto?
No, ma era rassicurante.
Le gerarchie erano cristalline, gli insegnanti stimati, noi eravamo quelli arrivati lí per imparare. Le cose erano chiare per tutti.
Oggi il ragazzino ha quarantasei anni e tre figlie in età scolare. Una va alla scuola dell’infanzia, una frequenta la primaria e l’altra sta per cominciare le medie. Incidentalmente ha pure una madre che ha insegnato nella scuola pubblica per trentacinque anni. Frequenta genitori, attività scolastiche e parascolastiche, ha amici insegnanti. Vede quel che accade, ascolta ciò che gli raccontano, lo confronta con quel che ricorda essere capitato a lui.
Quel ragazzino sono io, ma potrebbe essere qualunque genitore della nostra generazione.
Noi sappiamo che, rispetto a quei tempi, è cambiato tutto. Lo vediamo succedere ogni giorno.
Gli studenti che eravamo, oggi diventati genitori, si spingono sempre piú dentro la scuola, animati da un sano desiderio di partecipazione, ma mettendo troppo spesso in discussione metodi, criticando valutazioni, creando – involontariamente o volontariamente – veri conflitti di autorità. Arrivando, in alcuni casi, addirittura a insulti o minacce esplicite nei confronti del corpo docente.
Quando a scuola ci andavamo noi, l’istituzione scolastica era intoccabile e gli insegnanti avevano ragione a prescindere, mentre oggi sono accusati e giudicati da gruppi di genitori pronti a difendere i propri figli da ogni rimprovero. Madri e padri che non sono piú disposti ad accettare un brutto voto considerandolo un incidente di percorso, o un’opportunità di crescita, ma lo vivono come una macchia indelebile sul curriculum.
Siamo passati da un estremo all’altro.
La scuola che ricordiamo e quella che invece sperimentiamo oggi non hanno quasi piú niente in comune.
E noi genitori, che dovremmo essere un ponte fra i nostri figli e la scuola, ci troviamo sempre piú di frequente a rappresentare un ostacolo. Ingombrando il passaggio che dovrebbe garantire ai bambini di spostarsi dalla famiglia alla classe, e viceversa, senza scossoni.
Cosa ci è successo?
Quando abbiamo cominciato a pensare alla scuola come all’erogazione di un servizio nel quale il cliente deve avere comunque ragione? Quando abbiamo iniziato a met...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Sono puri i loro sogni
  4. Il libro
  5. L’autore
  6. Dello stesso autore
  7. Copyright