Discorso tenuto a Stoccolma il 7 dicembre 2017 in occasione del conferimento del Premio Nobel per la Letteratura.
Se qualcuno di voi mi avesse incontrato nell’autunno del 1979, è probabile che avrebbe avuto qualche difficoltà a classificarmi socialmente e perfino in base ai tratti somatici. Avevo al tempo ventiquattro anni. I miei lineamenti vi sarebbero sembrati giapponesi ma, a differenza della maggior parte dei giapponesi in circolazione in Gran Bretagna allora, io portavo capelli lunghi sulle spalle e un paio di baffoni spioventi da gangster. L’unico accento riconoscibile nella mia lingua era quello di un ragazzo cresciuto nel sud dell’Inghilterra, appena venato, talvolta, dal vernacolo languido e già fuori moda dell’epoca hippie. Se ci fossimo messi a conversare forse avremmo discusso di Calcio Totale olandese o dell’ultimo album di Bob Dylan, o magari del lavoro che avevo svolto con i senzatetto di Londra durante l’anno appena trascorso. Se vi fosse capitato di nominare il Giappone, o di rivolgermi qualche domanda sulla mia cultura giapponese, non escludo che avreste colto un’ombra di insofferenza nella voce mentre dichiaravo la mia ignoranza imputandola al fatto che da quando me ne ero andato, all’età di cinque anni, non vi avevo mai piú messo piede – nemmeno per una vacanza.
Quell’autunno ero arrivato con zaino, chitarra e macchina da scrivere portatile a Buxton, un tipico villaggio del Norfolk con un vecchio mulino ad acqua e una distesa di terreni agricoli tutt’intorno. Mi trovavo lí perché ero stato ammesso a un corso annuale postlaurea di Scrittura creativa presso l’Università dell’East Anglia. La facoltà aveva sede nel capoluogo Norwich, a una decina di miglia di distanza, ma, non disponendo di un’automobile, l’unico modo che avevo per raggiungerla era affidarmi al servizio di autobus, che prevedeva solo una corsa al mattino, una all’ora di pranzo e una serale. Ben presto, comunque, mi resi conto che non era un problema: la frequenza al corso non era richiesta piú di un paio di volte a settimana. Avevo preso in affitto una stanza nella villetta di un uomo non ancora quarantenne che era appena stato lasciato dalla moglie. La casa doveva essere per lui piena dei fantasmi dei suoi sogni distrutti, o chissà, forse voleva solo evitare il sottoscritto; sta di fatto che passavano giorni senza che lo vedessi nemmeno di sfuggita. In altre parole, dopo la vita frenetica di Londra, mi ritrovavo a gestire le dosi massicce di silenzio e solitudine che dovevano fare di me uno scrittore.
In effetti la mia stanzetta ricordava la classica mansarda dell’artista. Il soffitto aveva una pendenza claustrofobica, anche se, alzandomi in punta di piedi ero in grado di scorgere, dall’unica finestra, il dispiegarsi a perdita d’occhio di campi arati. C’era un piccolo tavolo, la cui superficie era quasi completamente occupata dalla macchina da scrivere e da una lampada. Sul pavimento, al posto del letto, un vasto rettangolo di gomma piuma che mi faceva sudare nel sonno, perfino nelle gelide notti del Norfolk.
Fu in quella stanza che analizzai meticolosamente i due racconti scritti durante l’estate, domandandomi se erano abbastanza buoni da poter finire tra le mani dei miei nuovi compagni (sapevo che in classe saremmo stati in sei e che ci saremmo incontrati ogni due settimane). A quel punto della mia vita non avevo scritto quasi nient’altro di interessante in ambito narrativo, essendomi garantito l’ammissione al corso grazie al copione di un dramma radiofonico rifiutato dalla Bbc. A dirla tutta, avendo precedentemente puntato con forza sull’idea di diventare una rockstar entro i vent’anni, la scoperta delle mie ambizioni letterarie era cosa piuttosto recente. I due racconti che andavo ora esaminando erano stati scritti in preda a una sorta di panico, dopo aver ricevuto la notizia di essere stato ammesso al corso universitario. Uno dei due era la storia macabra di un patto suicida, e l’altro parlava della violenza nelle strade scozzesi, dove avevo lavorato per un certo periodo come operatore sociale. Non erano granché. Ne cominciai un terzo, su un adolescente che avve...