La vita delle ragazze e delle donne
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La vita delle ragazze e delle donne

  1. 304 pagine
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La vita delle ragazze e delle donne

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«Perché quel che volevo - scrive Munro - era ogni singola cosa, ogni strato di conversazione e pensiero, pennellata di luce su una corteccia d'albero come su un muro, ogni odore, ogni buca, dolore, fessura, illusione, tenuti immobili, insieme: in un'inestinguibile radiosità». Con La vita delle ragazze e delle donne Einaudi conclude la pubblicazione dell'opera completa di Alice Munro. La vita delle ragazze e delle donne, pubblicato per la prima volta in Canada nel 1971, è l'unica incursione di Alice Munro nella forma-romanzo, seppure declinata secondo il metodo e lo stile inconfondibile dell'autrice. In principio Del ha nove anni, l'età delle curiosità complesse di un bambino che anticipa la propria pubertà. Sono gli anni Quaranta: da qualche parte è in corso una guerra i cui echi contaminano anche l'egloga rude di un Ontario lontanissimo dal precipizio della Storia. Quali e quanti sono i riti di passaggio dall'infanzia alla giovinezza, dall'inesperienza all'ingresso nel solco della vita? Non esiste un'età edenica per le ragazze e le donne di Alice Munro: la bambina Del fiuta il pericolo senza saperlo nominare; l'adolescente Del gioca con il sacro animata dal desiderio di contraddire la laicità di sua madre e dallo zelo di un sentimento acerbo e acceso come ogni primo amore. Del rifiuta e insieme difende le stravaganze della madre che illuministicamente si ostina a vendere enciclopedie nel medioevo fanatico di religione di una campagna inospitale. Ha nostalgia di Dio, ma registra il Suo eterno scacco nella vita degli uomini e degli animali. A quattordici anni Del è attratta dai languidi misteri del sesso fantasticato, conosce l'agrodolce di una complicità tradita con l'amica Naomi, e nel fervore con cui anno dopo anno un'insegnante si dedica ad allestire la recita della scuola, intuisce il seme tragico di una vita senza sbocchi. Poco dopo Del è pronta per un privato rito di iniziazione sessuale, come la Gerty MacDowell di James Joyce, una Nausicaa corrotta dal desiderio di sapere, vedere, piacere. L'Eden che non c'è mai stato è ora comunque inesorabilmente alle spalle; è tempo di battesimi, di vere e proprie deliberate rinascite. Del ha diciassette anni e già intravede anche il concludersi dell'adolescenza. Sperimenta la perdita e l'amore; si tuffa nel delirio di una relazione senza ossigeno. E infine accetta per sé la necessità della scrittura e si congeda con la promessa di un'integrità scintillante che rimanda i lettori al dono di storie radiose, credibili, sublimi. Le storie di Alice Munro.
Susanna Basso

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858428399

Battesimi

Durante il terzo anno di superiori Naomi passò alle Commerciali; improvvisamente libera da latino, algebra e fisica, si trasferí al secondo piano della scuola dove, sotto lo spiovente del tetto, le macchine da scrivere ticchettavano tutto il giorno e le pareti esponevano massime in cornice adatte a preparare a una vita nel mondo del lavoro. Tempo ed energia sono il mio capitale: sprecarli è un errore madornale. L’effetto, dopo le aule dei piani di sotto con le lavagne coperte di parole straniere, formule astratte, immagini nebulose di naufragi, battaglie e inebrianti ma castigate avventure mitologiche, era quello di approdare dentro la luce fresca della normalità, del mondo reale e operativo. Un sollievo per i piú. A Naomi piacque.
A marzo dello stesso anno trovò impiego presso gli uffici del caseificio. Aveva chiuso con la scuola. Mi disse di passare a trovarla dopo le quattro. Lo feci, senza avere bene idea di che cosa aspettarmi. Pensavo che Naomi mi avrebbe accolta con una faccia buffa da dietro il banco. Avevo intenzione di sfoderare la mia vocetta da vecchia signora e dirle: «Esigo una spiegazione. Ieri ho comprato da voi una dozzina di uova e sono marce dalla prima all’ultima!»
L’ufficio si trovava in un ampliamento annesso alle facciate del vecchio caseificio. C’erano lampade al neon, schedari metallici e scrivanie nuove – il tipo di ambiente nel quale mi sentivo subito fuori posto –, e il brusio efficiente di macchine da scrivere e di una calcolatrice. Oltre a Naomi ci lavoravano altre due impiegate; piú tardi scoprii che si chiamavano Molly e Carla. Naomi aveva le unghie tinta corallo; si era fatta una discreta messinpiega; indossava una gonna scozzese verde e rosa e una maglia rosa. Nuove. Mi sorrise e agitò le dita sopra la macchina da scrivere in un gesto di saluto, e proseguí a battere a notevole velocità sostenendo frattanto una conversazione allegra, sconclusionata e incomprensibile con le colleghe. Dopo parecchi minuti di questa musica mi comunicò che si sarebbe liberata per le cinque. Dissi che dovevo tornare a casa. Sentivo gli sguardi di Molly e Carla fissi su di me, sull’inchiostro che mi macchiava le mani nude e arrossate, sul foulard di lana che non mi stava in testa, sui miei capelli in disordine, la mia pila di libri da scolaretta.
Le ragazze curate mi spaventavano a morte. Non volevo nemmeno avvicinarle, per paura di puzzare. Percepivo tra loro e me una differenza sostanziale, come se fossimo fatte di materiali diversi. Le loro mani fresche non sudavano e non si coprivano di macchie, i capelli restavano della foggia desiderata, non sudavano sotto le ascelle – neanche sapevano cosa volesse dire dover incollare i gomiti ai fianchi per nascondere le vergognose mezzelune scure sui vestiti – e mai e poi mai avevano sentito il piccolo fiotto di sangue in piú, quell’esubero che nessun Kotex avrebbe potuto trattenere, dare inizio all’inesorabile sgocciolio tra le gambe. Figuriamoci, il loro ciclo era immancabilmente discreto; la natura era al loro servizio e non le poteva tradire. Né d’altronde la mia rozzezza aveva speranza di potersi trasformare in tanta raffinatezza; troppo tardi ormai, il baratro della diversità era troppo profondo. E Naomi, invece? Era stata una come me; una volta aveva avuto un’epidemia di verruche sulle dita; aveva sofferto del piede d’atleta; ci imboscavamo insieme nei bagni femminili quando avevamo il ciclo negli stessi giorni, per paura di fare le capriole davanti al resto della classe, una alla volta; avevamo il terrore che scivolasse fuori qualcosa, che si vedesse del sangue, ma ci vergognavamo troppo per chiedere di essere giustificate. Cos’era questa mascherata, adesso, di smalto sulle unghie e maglioncino in tinta pastello?
Diventò subito grande amica di Molly e Carla. I suoi discorsi, quando veniva a casa da me o mi convocava da lei, si concentravano sulle loro diete, i trattamenti per la pelle, i lavaggi speciali per capelli, i vestiti, l’uso del diaframma (Molly era sposata da un anno e Carla lo sarebbe stata da giugno). Certe volte, mentre ero lí, arrivava da Naomi anche Carla; loro due non parlavano d’altro che di lavare: lavare le maglie, lavare la biancheria, lavarsi i capelli. Si dicevano: – Mi sono lavata il golf! – Ma dài? E come? A freddo o in acqua tiepida? – Tiepida, penso vada bene lo stesso. – E come hai fatto per il collo? – Io me ne stavo lí seduta a pensare che il mio maglioncino era lurido, che avevo i capelli grassi, il reggiseno sbiadito, con una spallina tenuta su da una spilla di sicurezza. A quel punto me ne dovevo andare, ma una volta a casa non mi ricucivo la spallina, né mi lavavo la maglia. Quando ci provavo, le maglie si infeltrivano, lo scollo si slabbrava; sapevo di non metterci l’impegno necessario, ma tendevo fatalisticamente a credere che si sarebbero infeltrite e slabbrate comunque. Magari i capelli me li lavavo e poi mettevo degli orrendi bigodini di metallo che mi impedivano di dormire; in effetti, ogni tanto, potevo passare ore davanti allo specchio a strapparmi dolorosamente le sopracciglia, guardarmi di profilo, ombreggiarmi la faccia di cipria chiara o scura per sottolineare i punti forti e ridurre al minimo i deboli, come suggerivano le riviste. Era la dedizione a lungo termine che non ero in grado di sostenere sebbene ogni cosa, dalla pubblicità, a Francis Scott Fitzgerald, a un’atroce canzonetta alla radio – the girl that I marry will have to be, as soft and pink as a nursery –, mi indicasse che dovevo, ma sul serio, provare a imparare. L’amore non è cosa per le non depilate.
Quanto al lavarsi i capelli: grossomodo in quel periodo mi era capitato tra le mani un articolo sul tema della differenza di base tra le abitudini mentali maschili e femminili, essenzialmente in relazione all’esperienza sessuale (dal titolo dell’articolo ci si sarebbe aspettati che dicesse molto di piú in materia di sesso di quanto non facesse). L’autore era un celebre psichiatra newyorkese, discepolo di Freud. Diceva che la differenza di forma mentis tra il maschio e la femmina era facilmente illustrata dai pensieri di un ragazzo e di una ragazza seduti su una panchina di un parco in una notte di luna piena. Il ragazzo guarda la luna e pensa all’immensità e al mistero dell’universo; la ragazza si dice «Mi devo lavare i capelli». La lettura di quelle righe mi lasciò furiosa e scandalizzata; dovetti mettere giú la rivista. Mi era chiaro che io non pensavo come la ragazza dell’articolo; fossi campata cent’anni la luna piena non mi avrebbe mai ricordato che dovevo lavarmi i capelli. Sapevo che, se l’avessi mostrato a mia madre, avrebbe detto: «Ah, che rabbia, la solita scemenza maschile: le donne sono senza cervello». Il che non mi convinceva; uno psichiatra newyorkese doveva pur capirci qualcosa. E le donne come mia madre erano di fatto una minoranza, a questo ci arrivavo da sola. Per giunta, io non volevo essere come mia madre, con la sua acidula verecondia, il suo candore. Io volevo piacere agli uomini, e in piú volevo pensare all’universo guardando la luna. Mi sentivo in trappola, incagliata: mi pareva dovesse esserci scelta là dove scelta non c’era. Non volevo leggere oltre ma ero attratta da quell’articolo come da bambina potevo esserlo stata da certe figure di mari in tempesta e immense balene, su un libro di fiabe; lo sguardo mi correva nervoso sulla pagina, bloccandosi su affermazioni come: Per una donna, ogni cosa è personale; nessuna idea riveste un interesse specifico se non può essere ricondotta alla sua esperienza privata; in un’opera d’arte la donna vede sempre riflessa la propria vita, o le sue fantasie. Alla fine mi decisi a portare la rivista alla spazzatura, la strappai a metà, la ficcai nel bidone e cercai di scordarmela. Da quel momento, se vedevo su un giornale articoli dal titolo Femminilità: un atteso ritorno! oppure quiz per adolescenti del tipo «Credi che il tuo problema sia cercare di comportarti come un ragazzo?», voltavo velocemente pagina, come se certi argomenti potessero mordermi. Non avevo mai valutato l’ipotesi di voler essere un maschio.
Tramite Molly e Carla, e tramite il suo nuovo status di lavoratrice, Naomi diventava parte di un giro di gente che né io né lei avevamo mai saputo esistesse, a Jubilee. Comprendeva le impiegate dei negozi, degli uffici e delle due banche oltre ad alcune donne sposate che avevano appena lasciato il lavoro. Se non erano sposate e non avevano un fidanzato, andavano a ballare insieme. E al bowling di Tupperton, insieme. Organizzavano le une per le altre feste di addio al nubilato e rinfreschi per la nascita di un bebè (questi ultimi erano una moda recente che non andava per niente a genio a certe vecchie signore del paese). I rapporti che intrattenevano fra loro, seppure animati da abbondanti doti di confidenze scabrose, rispettavano ogni genere di elaborata formalità in fatto di convenzioni e buone maniere. Non era come a scuola; niente pazzie, malignità, niente parolacce, ma sempre una complessa rete di ostilità indirette, sempre la crisi in agguato – una gravidanza, un aborto, un rifiuto – di cui tutte erano al corrente e tutte parlavano ma che proteggevano come un personale segreto, e tenevano al riparo dal resto del paese. Anche la cosa piú innocente, lusinghiera e comprensiva in bocca a loro poteva voler dire qualcos’altro. Si mostravano reciprocamente tolleranti di ciò che quasi tutti gli altri avrebbero giudicato uno sbandamento morale, e in compenso inflessibili in fatto di abiti e acconciature o di gente che non eliminava la crosta intorno al pane da tramezzini, alle feste.
Appena cominciò a prendere uno stipendio Naomi si mise a fare le stesse cose che facevano tutte quelle ragazze, prima del matrimonio. Per esempio, a girare per negozi facendosi mettere da parte articoli che avrebbe pagato un tanto al mese. Al negozio di casalinghi ordinò un’intera batteria di padelle e tegami, in gioielleria un servizio di posate d’argento, al negozio di Walker, una coperta, un completo di asciugamani e un paio di lenzuola di lino. Tutta roba che le sarebbe servita quando si fosse sposata e avesse messo su casa; che io sapessi era la prima volta che faceva progetti tanto specifici. – Prima o poi bisogna pur cominciare, – disse spazientita. – Come pensi di sposarti, con due piatti e un vecchio strofinaccio?
Il sabato pomeriggio voleva che la accompagnassi nei negozi mentre lei pagava, dava un’occhiata alle sue future proprietà, e chiacchierava spiegandomi che, come Molly, anche lei intendeva cucinare in pentole a pressione e che la qualità di un lenzuolo è data dal numero di fili di ordito per ogni centimetro quadrato. Io ero sconcertata e intimidita dalla sua nuova identità, cosí petulante e noiosa. Sembrava che fosse ormai miglia avanti a me. La sua destinazione a me non interessava, ma a lei si sarebbe detto di sí; le cose per lei erano in movimento, comunque. Potevo dire lo stesso delle mie?
Quello che avevo davvero voglia di fare il sabato pomeriggio era stare a casa ad ascoltare l’opera al Metropolitan. L’abitudine risaliva a quando avevamo Fern Dogherty a pensione da noi, e ad ascoltare erano lei e mia madre. Fern Dogherty aveva lasciato Jubilee per andare a lavorare a Windsor, e ci scriveva lettere vaghe, infrequenti e briose sul viaggio e la visita a un locale notturno di Detroit, una puntatina alle corse, sul fatto di aver cantato con l’Associazione amanti dell’operetta, su quanto si divertiva. Naomi di lei diceva: «Quella Fern Dogherty era una caricatura». Parlava dall’alto del suo nuovo punto di osservazione. Come tutte le altre ragazze, anche lei era proiettata verso il matrimonio; qualsiasi donna con qualche anno in piú che non si fosse sposata, in quanto perfetta vecchia zitella o modesta avventuriera come Fern, non poteva certo aspettarsi comprensione da parte loro. In che senso una caricatura, volli sapere io, molesta, ma Naomi si limitava a spalancare i suoi occhi chiari, luminosi e sporgenti e a ripetermi: «Era una caricatura, punto e basta», come se dispensasse perle di una saggezza assiomatica a fronte di farneticanti eresie.
Mia madre non si interessava piú all’opera come una volta. Conosceva i personaggi, le trame e sapeva riconoscere le arie piú celebri; non c’era altro da sapere. A volte usciva, continuava a fare i suoi giri di vendita dell’enciclopedia; chi aveva già acquistato l’opera completa andava convinto a prendere il supplemento annuale. Ma non stava bene. In principio le era toccata una serie di malanni strani: una verruca plantare, un’infezione agli occhi, un gonfiore alle ghiandole, tinniti, epistassi, un misterioso sfogo cutaneo a scaglie. Continuava ad andare dal dottore. Guariva da una cosa ma subito ne cominciava un’altra. Quello che davvero stava succedendo era un calo di energia, un ripiegamento sul quale nessuno avrebbe indagato. Non era un fenomeno costante. Di quando in quando le capitava ancora di scrivere una lettera al giornale; voleva studiare astronomia da autodidatta. Ma a volte si coricava sul letto e mi chiedeva di buttarle addosso un plaid. Non lo facevo mai con la dovuta attenzione e lei mi richiamava indietro e se lo faceva rincalzare intorno alle ginocchia o ai piedi. Poi, in un falsetto puerile e petulante, mi diceva: «Da’ un bacio alla mamma». E io le depositavo in fronte un bacio avaro, secco. Le si diradavano i capelli. La pelle esposta sulle tempie aveva un aspetto malato e sofferente, che non mi piaceva.
Preferivo comunque essere sola quando ascoltavo Lucia di Lammermoor, Carmen o La traviata. Certi passaggi musicali mi emozionavano tanto che non riuscivo a stare ferma e dovevo alzarmi e camminare in giro per la sala da pranzo, cantando nella testa insieme alle voci alla radio, mentre mi stringevo i gomiti in un abbraccio. Gli occhi mi si riempivano di lacrime. Dentro di me ribollivano fantasie nate sul momento. Mi inventavo un amante, circostanze burrascose, la gloria palpitante della nostra passione destinata al peggio. (Non mi passò mai per la mente che cosí facendo rispettavo in pieno quanto, secondo l’articolo, tenderebbero a fare le donne con le opere d’arte). Una voluttuosa resa. Non tanto a un uomo, quanto al fato, in realtà, alle tenebre, alla morte. Eppure, piú di ogni altra opera adoravo Carmen, alla fine. Et laissez-moi passer! Lo sibilavo tra i denti; fremevo, immaginavo l’altra resa, ancora piú incantevole, perfino piú sublime della resa al sesso – quella dell’eroe, del patriota, la resa di Carmen all’importanza estrema del gesto, dell’idea, dell’invenzione di sé.
L’opera mi metteva fame. Quando finiva andavo in cucina a farmi panini all’uovo fritto, montagne di cracker incollati insieme a furia di miele e burro di arachidi e un miscuglio segreto e nauseabondo a base di cacao, sciroppo di mais, zucchero di canna, cocco e noci tritate, da mangiare col cucchiaio. Ingozzarmi in quel modo, prima mi placava e poi mi deprimeva, come masturbarmi. (Masturbarsi. Naomi e io avevamo letto sui libri di sua madre che le contadine dell’Est europeo lo facevano usando le carote e le signore in Giappone con le palline vaginali, e che è possibile riconoscere i masturbatori abituali dallo sguardo spento e dal colorito bilioso, cosí ce ne andavamo in giro per Jubilee a caccia di sintomi, e reputavamo la pratica talmente astrusa e disgustosa e divertente… e anzi tutto ciò che scoprivamo sul sesso ne ingigantiva l’aspetto carnevalesco, facendone sempre piú una cosa ridicola e vomitevo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La vita delle ragazze e delle donne
  4. Flats Road
  5. Eredi della viva carne
  6. Principessa Ida
  7. Età della fede
  8. Cambiamenti e cerimoniali
  9. La vita delle ragazze e delle donne
  10. Battesimi
  11. Epilogo: il Fotografo
  12. Il libro
  13. L’autrice
  14. Della stessa autrice
  15. Copyright