L'ascensione del Monte Bianco
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L'ascensione del Monte Bianco

  1. 136 pagine
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L'ascensione del Monte Bianco

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«Caro Ludovic, ti porterò in cima al Monte Bianco!» L'avventura comincia cosí, in una sera di fine ottobre innaffiata di chablis: Ludovic ha appena confidato a un amico che sta attraversando un periodo difficile, sua moglie vuole divorziare, sente di aver fallito in tutto. L'amico è lo scrittore Sylvain Tesson, esperto scalatore, celebre per i suoi libri e le imprese folli a tutte le latitudini. Per lui proporre la scalata del Monte Bianco come sollievo ai dispiaceri dell'amico è la cosa piú naturale del mondo! Ma l'impresa è davvero «un'impresa impossibile», o almeno cosí appare, perché Ludovic è un tipo sedentario, un animale da città, un fumatore accanito, un bevitore tenace, uno schiavo dei farmaci. E poi, ha paura. Paura dell'altezza. Ludovic - che oltretutto è un editor: categoria notoriamente poco avvezza alle vette - non possiede nemmeno un centimetro della stoffa dell'alpinista... tranne, forse, l'incoscienza che lo spinge a dire di sí. La partenza è prevista per fine giugno. Seguiranno mesi di dura preparazione scanditi da ginocchia doloranti, allenamenti su e giú per le scale della casa editrice, vani tentativi di darci un taglio con i vizi. Si unirà al duo la guida Daniel du Lac e lo scrittore e amico Jean-Christophe Rufin, anche lui alpinista esperto. Per raggiungere il tetto d'Europa, Ludovic si arma di un paio di scarpe della misura sbagliata, di scorte di Xanax e di una dose di insospettabile coraggio. Tra crisi d'ansia e paesaggi mozzafiato, vertigini invalidanti e percorsi impervi, Ludovic raggiunge la cima del Monte Bianco con i suoi amici. Da qui la prospettiva si rivelerà completamente diversa: per quanto impegnativo (e pericoloso!) il cammino che porta alla vetta è costellato di quelle scoperte in grado di mutare il corso di un'esistenza. L'ascensione del Monte Bianco è una storia vera, con un vero lieto fine. Un'avventura di montagna e di amicizia, di pericoli assurdi e di coraggio, ma anche una spiazzante riflessione sul nostro modo di affrontare la vita e la concreta possibilità di cambiarla.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858428443
Categoria
Viaggi

L’ascensione del Monte Bianco

Per Bérénice, Tristan & Édouard.
Fiamma. Una parola che mi piace molto. Immagino un incendio e un uomo che sbuca dalle fiamme, con il corpo in combustione come il supereroe del film I Fantastici 4. Di notte, nelle ore di insonnia, da solo in salotto guardo su YouTube video di moto ruggenti con la gomma posteriore che si arroventa sull’asfalto. La loro furia mi affascina. Di giorno, in ufficio, vivo dentro una bolla, posso risolvere tutti i problemi. Ma quella che mi sembra forza è semplice noncuranza. Il distacco dalle cose è l’oppio delle mie giornate. Non vedo che la nostra coppia sta andando a fuoco.
Proprio nella fase piú tormentata di questo strano periodo ceno con Sylvain Tesson. Apprezzo la compagnia degli scrittori. Un giorno un professore universitario mi ha spiegato che i jazzisti non erano persone come tutte le altre. Questa frase mi ha ossessionato per tanto tempo. Penso infatti che gli artisti, gli scrittori, non siano come noi, su di loro la norma fa meno presa. Accanto a loro si può tranquillamente sclerare, non si rischia il cartellino rosso.
È fine ottobre, le giornate sono corte e grigie, la notte dilaga. Sylvain ha scelto una piccola trattoria nei pressi del Jardin du Luxembourg. Siamo lí per parlare dei suoi libri in cantiere. Curiosamente, il mio lavoro di editor è l’unico ambito in cui resto disponibile. Per il resto ho chiuso con tutto. L’arredamento del ristorante è folkloristico, sembra la locanda del film Tre uomini in fuga.
– Si sta bene in questo posto, – mi dice Sylvain con un sorriso.
– Temo un po’ per la cucina.
– A parte la torta di fragole, che viene da Picard, credo che non sia un granché.
– Allora perché mi hai dato appuntamento qui?
– È straniante, per ossessivi urbani come noi.
Una donna opulenta vestita da tirolese si piazza davanti al tavolo con un taccuino in mano.
– Cosa posso portare ai signori?
Per precauzione ordiniamo il piatto del giorno.
– Un po’ di vino? – chiede lei.
– Cosa preferisci, caro Ludovic, bianco o rosso?
– Io sono piú da vino bianco.
– Il vino bianco fa saltare il banco. Ottima scelta. Un quartino, grazie.
– Una bottiglia, piuttosto.
Sylvain mi lancia un’occhiata, tra sorpresa e curiosità.
– Sí, scusi, signora, volevo dire una bottiglia, certo. Noi, il nostro motto è «Alcol a cena, al diavolo ogni pena».
Lo chablis e l’allegria di Sylvain mi rilassano un po’, eppure dentro di me continua a risuonare il sordo brusio delle incertezze. Esito a parlargli del caos della mia vita attuale. È delicato affrontare le proprie faccende private quando un rapporto è fondato su discorsi professionali.
– Da qualche mese a casa non va tanto bene. In realtà penso che divorzieremo.
– Brutta storia… – dice lui, improvvisamente rattristato. – Mi sa che hai avuto giorni migliori. Devi tener duro.
– Non ci siamo resi conto di esserci allontanati. Soprattutto io, perché il problema nasce piú che altro da me, a quanto pare.
Bevo un bel sorso di chablis.
– Torni a casa in moto stasera? – mi chiede Sylvain.
– Per forza, quando abiti in banlieue è piú semplice che con il metrò.
– Oggi fai prima ad andare a Londra in Eurostar che a Cergy-Pontoise con i mezzi pubblici. Quanto ci metti?
Penso al supereroe in fiamme che fende l’aria senza un pensiero al mondo e illumina la notte quando tutto sprofonda nel buio.
– Non lo so. Vado al massimo, cosí evito di chiedermelo.
– Ah, la velocità! Capisco, è una droga potente.
– Mi piacerebbe essere come te, non essere prigioniero della mia vita e andarmene quando voglio.
– E dove andresti?
– In alto, molto in alto, per respirare un’altra aria. Mi piacerebbe saper scalare. Ma è impossibile, sono bloccato qui.
– Perché impossibile?
– Perché non sono un alpinista e il vuoto mi terrorizza. Non sono bravo come te per quelle cose.
– Non è una questione di bravura –. Tace per qualche secondo, poi riprende: – Caro Ludovic, ti porterò in cima al Monte Bianco!
Afferra il bicchiere per fare un brindisi.
– Stai scherzando?
– Niente affatto. Sono serissimo. La menano tanto con il Monte Bianco, ma per riuscirci bastano un po’ di allenamento e buone scarpe. Ti presterò l’equipaggiamento. Che numero porti?
– Ehm… il 41.
– Io il 43, almeno non ti andranno strette. E come dice Goethe, l’importante è star comodi.
– Goethe ha detto una cosa del genere?
– Certo. Sono sicuro che il vecchio Goethe ha pronunciato questa frase cult almeno una volta nella vita.
– Sylvain, io non sono capace di arrampicare. Ho paura del vuoto.
– Fidati di me. Conosco tecniche efficacissime per superare le vertigini. Due o tre insegnamenti che mi hanno trasmesso certi veterani dell’Everest. Il primo consiglio è aggrapparti bene alla corda di chi ti precede. Il secondo è non guardare in basso.
– Ah… e il terzo?
– Chiudere gli occhi quando hai paura.
La bottiglia è quasi vuota. È il momento in cui l’alcol rende tutto possibile, gli ostacoli e il tempo sono sospesi. La serata potrebbe prolungarsi all’infinito, continuare a quel ritmo grazie al carburante dell’ebbrezza. Sylvain mi tende la mano sopra il tavolo. E suggelliamo la scommessa. La sua stretta da alpinista mi massacra le dita. Dà un’occhiata a una specie di grosso orologio sovietico che ha portato a casa da Mosca.
– È giovedí 11 ottobre, sono le undici. Prima dell’estate prossima sarai pronto per salire sul Monte Bianco con me. Ecco il programma. Alcol e sigarette, nessun cambiamento. Vino e tabacco: non è stato inventato niente di meglio per mantenere in forma le arterie. Aggiungi solo nella tua settimana due o tre sedute di jogging di un’ora. E per completare, tutte le mattine farai piegamenti e trazioni.
– Va bene. Ma sei sicuro che basterà? Perché ho comunque un bel po’ di ritardo.
– Sí. Io invece mi accaparro Du Lac, il mio amico che fa la guida alpina. Sarà il tuo sherpa. L’ideale sarebbe arrivare una settimana prima della scalata, cosí ti abitui all’altitudine e alla roccia. Devo sentire Rufin, se può ospitarci nel suo chalet a Saint-Gervais.
Uno scrittore ha raccontato in tivú che durante il divorzio era solo metà di se stesso. Ma io mi accorgo di essere sceso a un terzo. Quel terzo manda avanti il lavoro e si trasferisce in un trilocale in affitto nella cittadina limitrofa a Enghien-les-Bains dove possediamo una villetta. Nonostante l’aria deprimente di questo piccolo comune del Val-d’Oise, in genere il mio nuovo indirizzo fa ridere tutti quelli a cui lo comunico. Ormai abito in «rue de l’Avenir, Deuil-la-Barre», «via del Futuro, Barriera-del-Lutto». Se all’università avessi studiato psicoanalisi, probabilmente avrei scelto un altro posto dove paracadutarmi, perché devo proprio ammettere che quando vado ad abitarci sono in caduta libera.
Non ho portato neanche uno dei miei mobili, tutto è nuovo in questo appartamento di un complesso a due passi dalla stazione delle ferrovie suburbane dell’Île-de-France. L’arredamento l’ho comprato all’Ikea, in un pomeriggio: per sceglierlo mi sono ispirato all’appartamento campione esposto nel magazzino. Posso affermare che Ikea è diventato il mio fornitore unico. Dalla forchetta al divano, tutti gli oggetti hanno nomi che sembrano usciti dal Signore degli anelli. Ma non mi disturba, perché evito di stare troppo in casa, il silenzio di questo mio nuovo focolare domestico mi getta in un abisso di tristezza. Passo molto tempo in ufficio, o in moto, visto che ogni giorno devo fare due ore e mezzo di andata e ritorno da Parigi. Il resto del tempo libero lo dedico a correre e alla ginnastica. Corro nel weekend, e il mercoledí sera per non rimanere cinque giorni di fila senza fare esercizio. In pieno inverno alle cinque è già buio, perciò mi attrezzo con una lampada frontale quando vado nella foresta di Montmorency, l’unico posto che non mi sembri deprimente per il jogging. Un incontro imbarazzante con una coppia che sta facendo sesso contro un ceppo d’albero mi persuade a cambiare orario.
L’addestramento che mi ha programmato Sylvain mi impone di diminuire il consumo di alcol e tabacco per tenere il passo, almeno le prime settimane, perché il cambiamento di ritmo mi affatica l’organismo. A causa della separazione stento ad addormentarmi. Anche quando sono sfinito dallo sport, ogni notte mi sveglio fra le tre e le quattro e non riesco piú a chiudere occhio fino all’alba. Per rilassarmi ricorro a vari metodi, prima provo a guardare un film, ma nessuna trama riesce davvero a catturarmi, nella testa mi scorre il trailer di un’altra pellicola dove ho il ruolo del cattivo, dello sfasciafamiglie. Penso ai miei figli, al loro evidente sgomento e allo scompiglio che provoca questo interminabile periodo di rottura. Tento anche di distrarmi navigando su internet, visito vari paesi, ma la terra vista dallo spazio finisce per aggravare il mio spleen, tanto sono disumane le verdi immagini da grande altezza dei nostri continenti. Il web agisce sul mio dolore come un vortice malsano, piú siti guardo e piú sono attratto dai video morbosi di incidenti aerei e bombardamenti. Una notte di particolare ansia m’imbatto in immagini atroci di macellazione di animali che mi fanno precipitare in un’angoscia cosí grave da costringermi a telefonare a un amico, svegliandolo, per riprendere contatto con il mondo dei vivi.
Passano le settimane, attraverso l’inverno persistendo nel mio programma sportivo. Ho capito che per correre con il freddo devo indossare berretto, guanti e scaldacollo di pile se non voglio prendermi un raffreddore. Alle sette del mattino, quando mi dirigo verso la foresta di Montmorency da Deuil-la-Barre, risalgo le lunghe file di automobilisti che vanno a lavorare a Parigi. Trotterello in senso inverso ai rallentamenti e provo la colpevole sensazione di marinare la scuola. Per diverso tempo mi limito a una ventina di minuti di footing perché mi bruciano i polmoni e il cuore non tiene il ritmo. A preoccuparmi di piú sono le articolazioni doloranti delle ginocchia. Una mattina mi decido a consultare un medico scegliendolo con l’applicazione delle Pagine gialle sull’iPhone. Trovo una dottoressa vicino a casa mia. Quell’appuntamento improvvisato mi mette di buonumore, tanto piú che fra poco sarà primavera. La donna seduta di fronte a me ha una cinquantina d’anni, una voce rauca e un bello sguardo bruno che mi scruta con diffidenza. Alle sue spalle, attaccato al muro con le puntine, un poster dei Pink Floyd.
– Allora, che le succede?
– Ho male alle ginocchia. Mi sto allenando per andare sul Monte Bianco, quest’estate, da qualche tempo corro molto.
– Prima faceva sport?
– Non proprio.
– Prende farmaci, medicine?
– Il Doliprane per il dolore.
– E basta?
Di fronte a questa semplice domanda provo una sorta di inspiegabile confusione. Sento montare l’angoscia come se fossi stato colto in fallo e comincio a balbettare.
– Prendo il Doliprane tutti i giorni. Ma prendo anche… aspirina…Advil e Voltaren… perché sia piú efficace. A volte mi fa proprio male, sa…
– Dorme bene?
– No, non molto. Ma riesco ad addormentarmi con il Fervex.
– Ha anche il raffreddore?
– No… cioè, ho notato che il Fervex mi fa dormire…
– Perfetto. Fuma?
– Sí, circa sedici sigarette al giorno…
– Un pacchetto, quindi. E l’alcol?
– Vino, come tutti.
– Certo. Quanti bicchieri, piú o meno?
– Non piú di cinque… nella norma, insomma.
Vedo che prende appunti, come se preparasse già la visita del prossimo paziente.
– Spero di non essermi strappato un legamento o rotto il menisco, – dico con un sogghigno. – Sarebbe seccante per quest’estate. Alla peggio immagino che potrei fare delle infiltrazioni, un amico alpinista mi ha detto che funzionano, e poi, capisce…
– No, non capisco, – sbotta lei all’improvviso alzando una mano per interrompermi. Posa la penna e si appoggia allo schienale.
– Serve una radiografia?
– Ripartiamo da zero. Ecco che cosa faremo. Innanzitutto prenda un bel sacchetto di plastica, lo riempia con tutte le medicine che ha a casa e porti a mio nome tutta quella roba alla farmacia qui all’angolo. Poi le prescriverò un sonnifero, lo Stilnox, che prenderà alla sera appena prima di andare a letto.
– Va bene, e le gambe?
– Lei deve capire una cosa molto importante. Sul piano medico non è affatto cosí che si prepara l’organismo all’alta montagna. Quindi stop alle sigarette, stop all’alcol. Quanto alle sue gambe, adesso diamo un’occhiata, ma penso che siano dolenzie. Basterà calibrare meglio l’allenamento.
Il vantaggio della casa editrice dove lavoro è che ha moltissime scale per via del complicato incastro degli uffici aggiunti man mano che si ampliava. Il mio è al terzo piano e ha una tranquilla vista sul giardino dove ogni stagione impone agli alberi e ai fiori il capriccio dei suoi colori. Ho scelto il percorso piú lungo per andare a lasciare una lettera al pianterreno. Salgo e scendo, attraverso i vari reparti, e venti minuti dopo arrivo all’ufficio stampa. Mi imbatto in Jean-Christophe Rufin. So sempre quando è in casa editrice perché porta dentro la bicicletta pieghevole con la quale si sposta in città. La sistema sotto il mobile del Minitel, che conserviamo per chissà quale misteriosa ragione, come una reliquia del XX secolo. Entro nell’ufficio del suo addetto stampa. Rufin è in piedi, davanti alla porta finestra affacciata sul giardino. La sua alta figura si staglia in controluce. Indossa un completo scuro e una camicia bianca.
– Alla fine non so se verrò con voi, – dice. – Ho promesso di andare al Salone del libro di Nizza, a giugno, a firmare libri. E poi mi sento troppo vecchio per seguirvi, ormai ho raggiunto l’età delle talassoterapie e delle passeggiate in montgom...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’ascensione del Monte Bianco
  4. Il libro
  5. L’autore
  6. Copyright