Il seno
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Il seno

  1. 72 pagine
  2. Italian
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Come un Gregor Samsa dei giorni nostri, il professor David Kepesh si sveglia una mattina scoprendo di aver subìto una metamorfosi. Ma mentre il protagonista di Kafka si era trasformato in uno scarafaggio gigantesco, il personaggio dell'esuberante fantasia di Philip Roth è diventato un enorme seno femminile. Chiuso nella stanza di una clinica, costretto a letto, Kepesh si trova ad affrontare le conseguenze della sua nuova condizione: sente e parla, ma non può vedere, e vive gli unici momenti gratificanti del suo rapporto con gli altri attraverso il tatto. Kepesh preferirebbe che il medico, l'infermiera, l'analista, suo padre, la sua compagna gli dicessero che è diventato completamente pazzo, ma anche questo sollievo gli è negato. Anzi, tutti gli chiedono di essere ragionevole e di accettare la sua nuova natura. Ma come accettare di essere una ghiandola mammaria di settanta chili? «Cominciò stranamente. Ma poteva forse esserci un altro inizio? Si dice che tutte le cose sotto il sole cominciano "stranamente" e finiscono "stranamente" e sono strane; una rosa perfetta è "strana", proprio come una rosa imperfetta, e come la rosa di normalissimo colore e gradevolezza che cresce nel giardino del vicino. Conosco quella prospettiva da cui ogni cosa appare terrificante e misteriosa. Rifletti sull'eternità, considera, se ne sei capace, l'oblio, e tutto diventa un portento. Eppure in assoluta umiltà io dico che certe cose sono più straordinarie di altre e che io sono una di esse».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858428078
Philip Roth

Il seno

Giulio Einaudi editore
A Elizabeth Ames,
direttore esecutivo di Yaddo
dal 1924 al 1970,
e alla
Corporation di Yaddo,
Saratoga Springs, New York,
i migliori amici che uno scrittore possa avere.
Cominciò stranamente. Ma poteva forse esserci un altro inizio? Si dice che tutte le cose sotto il sole cominciano «stranamente» e finiscono «stranamente» e sono strane; una rosa perfetta è «strana», proprio come una rosa imperfetta, e come la rosa di normalissimo colore e gradevolezza che cresce nel giardino del vicino. Conosco quella prospettiva da cui ogni cosa appare terrificante e misteriosa. Rifletti sull’eternità, considera, se ne sei capace, l’oblio, e tutto diventa un portento. Eppure in assoluta umiltà io dico che certe cose sono piú straordinarie di altre e che io sono una di esse.
Cominciò stranamente, con un lieve, sporadico formicolio all’inguine. Durante quella prima settimana mi rinchiudevo diverse volte al giorno nel gabinetto per uomini adiacente al mio ufficio nella facoltà di Scienze umanistiche e mi tiravo giú i pantaloni, ma, per quanto mi esaminassi scrupolosamente, non vedevo niente fuori dal comune. Con riluttanza, decisi di ignorare la cosa. Ero stato tutta la vita un ipocondriaco superappassionato e attento a ogni variazione della temperatura corporea e regolarità fisiologica, ma, proprio per questo, l’uomo ragionevole che si nascondeva in me da parecchio tempo non riusciva piú a prendere seriamente tutti i miei sintomi rivelatori. Nonostante gli atroci presagi di estinzione, paralisi o sofferenza intollerabile che accompagnavano ogni nuova ondata di dolore o di febbre, avevo raggiunto i trentotto anni in forze e appetito. Ero un uomo di un metro e ottanta, postura eretta e fisico asciutto, quasi tutti i capelli e tutti i denti, nessuna grave malattia in anamnesi. Di conseguenza, se ero istintivamente portato a identificare quel formicolio all’inguine con qualche disturbo nervoso del tipo fuoco di sant’Antonio – o peggio –, contemporaneamente capivo che, come sempre, si trattava di una bolla d’aria.
Ma sbagliavo. C’era qualcosa, davvero. A una settimana di distanza mi accorsi che la pelle sotto i peli del pube si era fatta rosata; una macchiolina cosí lieve che finii con l’impormi di non star piú lí a guardare; non era altro che un po’ d’irritazione, di certo niente di cui preoccuparsi. Ma dopo un’altra settimana – arrivando cosí per la cronaca a un periodo d’incubazione di ventun giorni – mi guardai giú una sera mentre entravo nella doccia e scoprii che, chissà come, in quella giornata frenetica di lezioni e conferenze e viaggi in metropolitana e pasti fuori, la carne alla radice del pene era diventata di un morbido color rossastro. Tinta, decisi all’istante, doveva essere la tinta delle mie mutande. (Che poi le mutande di quel giorno, adesso in un mucchietto ai miei piedi, fossero di un azzurro pallido non contava niente in quell’ondata di terrorizzata incredulità). Sembravo macchiato, come se una fragolina, o una ciliegia, si fosse schiacciata contro il mio pube, e il succo fosse corso giú per il membro, colorandone la radice irregolarmente.
Nella doccia mi insaponai ben bene e mi sciacquai il pene e i peli tre volte, poi mi rivestii dalle cosce all’ombelico di uno strato denso di bolle di sapone che continuai a massaggiarmi sulla pelle finché non ebbi contato fino a sessanta; quando mi risciacquai con acqua calda – sgradevolmente calda questa volta – la macchia era sempre lí. Nessun esantema, crosta, ammaccatura o infiammazione, ma un grosso cambiamento nel pigmento che mi fece pensare subito al cancro.
Era giusto mezzanotte, l’ora delle trasformazioni in ogni storia dell’orrore che si rispetti – e un’ora difficile per trovare un medico a New York. Ciononostante, telefonai immediatamente a casa del mio, il dottor Gordon, il quale, malgrado i miei tentativi di non apparire allarmato, sentí la paura nella mia voce e si offrí di vestirsi e attraversare tutta quanta la città per venire a visitarmi. Forse se Claire fosse stata con me quella notte, invece di essere a casa sua a preparare la relazione del Comitato accademico, avrei avuto il coraggio della mia paura e detto al medico di venire di gran corsa. Naturalmente era improbabile che, in base a quei sintomi, e a quell’ora, il dottor Gordon decidesse di farmi ricoverare all’ospedale, e da quel che ne sappiamo adesso – o continuiamo a non sapere – non risulta che una volta in ospedale si sarebbe potuto prevenire o arrestare quel che si andava preparando. Forse si poteva alleviare con un po’ di morfina l’agonia delle quattro ore successive, ma niente lascia supporre che qualche trattamento medico sarebbe riuscito a fermare il corso del disastro, tranne l’eutanasia.
Con Claire al mio fianco, avrei potuto crollare completamente, ma solo com’ero provai un’improvvisa vergogna per il modo in cui avevo perso il controllo; non erano passati piú di cinque minuti da quando avevo individuato la macchia, e me ne stavo là, umido e nudo sul mio divano di cuoio, a tentare vanamente di superare la nota tremula nella mia voce quando abbassavo gli occhi sul pene e descrivevo al dottore quello che vedevo. Tieni duro, pensai – e cosí tenevo duro, cosa che mi riesce tutte le volte che me lo impongo. Mi dissi che, se era quel che temevo, poteva benissimo aspettare fino al mattino; e se non lo era, poteva aspettare lo stesso. Me la sarei cavata. Ero stanco morto dopo una giornataccia di lavoro, e mi ero appena preso... un bel colpo. Sarei andato da lui allo studio intorno a – mi sentii un mostro di coraggio – mezzogiorno. Le nove, fece lui. Sí, risposi, e poi col tono piú normale che potei: – Buona notte.
Fu solo dopo aver riagganciato ed essermi riesaminato un’ennesima volta sotto una luce potente che mi ricordai di un terzo sintomo – oltre il formicolio all’inguine e il pene macchiato – di cui non avevo parlato al dottore; l’avevo preso, fino a quel momento, per un segno di salute piú che di malattia. Si trattava di quel crescendo di sensazioni che avevo sperimentato nel fare l’amore con Claire durante le tre settimane precedenti. L’avevo preso per un ritorno di fiamma; da dove o perché, poi, non me l’ero neppure chiesto, felice com’ero – e sollevato – di quel riaccendersi del desiderio. Per un motivo o per l’altro, tutta quella ondata di sensualità che la sua bellezza fisica aveva scatenato in me durante i primi due anni della nostra relazione, da un anno a questa parte era andata calando. E ormai, negli ultimi tempi, facevo l’amore con lei due, forse tre volte al mese, e solo se era lei ad attizzarmi.
Era stato un brutto colpo per tutti e due, quel mio scemare dei bollori – la mia freddezza –, ma dato che le nostre vite erano state fin troppo fitte di terremoti emotivi (la sua, da bambina con i genitori, la mia, da adulto con mia moglie), eravamo entrambi fortemente riluttanti a sciogliere la nostra unione per quel motivo. Anche se certo doveva essere demoralizzante per una ragazza di venticinque anni incantevole e voluttuosa vedersi respingere a letto una notte dopo l’altra, Claire non lasciava trapelare nulla dei sospetti o della frustrazione o della rabbia che, persino a me, motivo della sua infelicità, sarebbero apparsi naturali, date le circostanze. Certo adesso lei lo paga caro il suo «equilibrio» – non è la donna piú espressiva che abbia conosciuto, con tutta la sua gran spinta sessuale –, ma ormai sono arrivato a quella fase nella vita – o meglio ero – in cui mi attirava piú un porto calmo e tranquillo, con le sue acque placide, piuttosto che il dramma spumeggiante dell’alto mare. Se talvolta Claire era meno vivace e reattiva, nella conversazione o in compagnia, di quanto avrei desiderato, mi piaceva troppo la sua sobrietà calma e sicura per scocciarmi della sua mancanza di colore. Di «colore» ne avevo avuto abbastanza, grazie tante.
In tre anni Claire e io avevamo trovato un sistema di convivere – stando separati – che ci dava il calore e la sicurezza dell’affetto reciproco, senza tutto il gravame di dipendenza, noia mortale, o quella smania selvaggia, generalizzata, o le strategie continue di inganno e conciliazione che hanno inacidito quasi tutti i matrimoni di cui sapevamo. Un anno prima avevo concluso cinque anni di psicoanalisi con la convinzione che le ferite aperte dal mio matrimonio Grand Guignol erano guarite al meglio della loro possibilità, e in larga misura grazie alla mia vita con Claire. Forse non ero piú quello di un tempo, ma nemmeno ero lí a sanguinare, come il classico soldatino dalla testa bendata, né battevo piú il tamburo dell’autocommiserazione mentre lacrimosamente zoppicavo nello studio dell’analista reduce da quel famoso campo di battaglia che si chiama Casa e Focolare. Con Claire la vita era stata stabile e ordinata: la prima volta da dieci anni buoni. Ce la cavavamo egregiamente, e senza troppo sforzo, stavamo cosí bene insieme che mi sembrò un vero disastro (ancora ne sapevo poco in fatto di disastri) quando di punto in bianco persi gusto a fare l’amore. Era una progressione deprimente, disorientante e, niente da fare, non riuscivo a cambiarla. Anzi, avevo preso appuntamento col mio vecchio psicoanalista per parlare di quanto patissi la nuova situazione, quando, ancora di punto in bianco, ecco che mi torna una passione che non avevo mai avuto né per lei né per nessun’altra.
Ma passione non è la parola giusta: un neonato nella culla non prova passione quando si bea di uno scherzoso solletichio sotto il mento. Sto parlando di un’estasi puramente tattile – sesso, non nella testa, non nel cuore, ma spasmodicamente nell’epidermide del pene, sesso estatico tutto a fior di pelle. A letto mi ritrovavo a contorcermi dal piacere, ad avvinghiarmi alle lenzuola e torcere testa e spalle con una foga che prima ritenevo piú femminile che maschile, e di donne piú immaginarie che reali. Durante l’ultima settimana del periodo d’incubazione...

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  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il libro
  4. L’autore
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