Bassa risoluzione
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Bassa risoluzione

  1. 144 pagine
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Bassa risoluzione

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Internet ha modificato radicalmente il nostro approccio con la profondità, con le informazioni, le relazioni sociali, i mercati e la cultura. Ascoltiamo musica in nuovi formati digitali, fotografiamo il mondo attraverso la piccola ottica dei nostri telefoni cellulari. Non leggiamo piú i quotidiani, preferendo l'informazione casuale che rimbalza sui profili social dei nostri «amici». Ma abbiamo sposato le cucine Ikea e i graffiti di Banksy, nuovi manufatti a bassa risoluzione che riempiono oggi le nostre vite. Questo libro indaga le relazioni fra simili scelte di riduzione e i mutamenti della società connessa. Spesso attraverso simili opzioni si intravedono i segni di una nuova intelligenza, altre volte esse raccontano per sommi capi la nostra usuale superficialità. Nella bassa risoluzione tecnologica il tempo reale travolge l'archivio. Internet, luogo della documentalità, si trasforma nello spazio in cui ogni cosa sarà rapidamente dimenticata.

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Informazioni

I.

Bassa risoluzione e immagini

1. Selfie.

Scoprimmo (a notte inoltrata questa scoperta è inevitabile) che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso.
Allora Bioy Casares ricordò che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva dichiarato che gli specchi e la copula sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini.
J. L. BORGES
Jorge Luis Borges fa dire a uno dei suoi personaggi1 che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso, che sono abominevoli come la congiunzione carnale, perché moltiplicano il numero degli uomini. Seguendo questa teoria anche gli autoscatti, i selfie che oggi ciascuno di noi mette in rete, lo sono. I selfie sono mostruosi e abominevoli e lo sono doppiamente, perché, oltre a rappresentare il nostro continuo specchiarci, lo riproducono in un numero infinito di volte nel momento in cui le nostre immagini vengono condivise in rete.
Eppure raccontare noi stessi dentro lo specchio dei selfie non è un fenomeno facile da inquadrare.
Intanto il selfie non è un ritratto, non nel significato circolare e ultimativo che siamo soliti dargli. Le immagini di noi che pubblichiamo sui nostri profili in rete sono frammenti di un racconto. Sono scarsamente comprensibili in quanto elemento singolo ma meglio identificabili in un disegno piú ampio che riguarda la parte di noi che siamo interessati a raccontare agli altri. In questo senso l’aspetto narcisista della singola immagine mostra caratteristiche meno assolute.
Il trionfo di questa idea di irrilevanza della singola immagine è celebrato dal successo di Snapchat, un software di messaggistica che consente di inviare immagini e brevi video che, una volta scaricati e visti dal destinatario, scompaiono. I selfie su Snapchat sono parte di un discorso sentimentale (ma anche ovviamente erotico, o di sfida, di dialogo e contrapposizione) fra persone distanti che non esita a trasformarsi in ricordo, e che anzi vede nell’astrazione del ricordo un valore superiore rispetto a quello del documento e della sua archiviazione. Le foto che scompaiono di fronte ai nostri occhi irridono lo specchio: chissà se gli ideatori di Snapchat hanno mai letto Borges.
Ma anche quando non scompaiono, quando sono pensati per restare, per arricchire i nostri album in rete, gli autoscatti sono comunque una forma di racconto per immagini in bassa risoluzione. Nel caso degli archivi fotografici sui social network la bassa risoluzione ha strette relazioni col numero dei frammenti che pazientemente disponiamo in rete. Questi piccoli pezzi raccontano il tempo che passa (per esempio se osservo le mie foto in rete scattate negli ultimi quindici anni noto con preoccupazione le differenze non solo estetiche che contengono) ma paradossalmente, nella loro moltiplicazione, chiamano a raccolta il senso complessivo dentro mille reperti contigui.
Qualcuno ricorderà la foto di Thomas Pynchon, scrittore americano di culto che mai si è mostrato in pubblico nei lunghi anni della sua attività. È la foto di un uomo giovanissimo, presa dall’annuario del liceo: Pynchon ha due grandi orecchie a sventola: palesemente è il ritratto imperfetto di un uomo che nemmeno in quell’occasione avrebbe voluto mostrarsi. Quell’immagine oggi è ciò che lo identifica per i suoi lettori: una figura iconica di adolescente, ma anche l’unica disponibile. Quello di Pynchon è «il ritratto»: si fa forte della sua unicità esattamente come papa Innocenzo X è diventato nei secoli il ritratto che gli fece Velázquez, poi malignamente specchiato in un altrettanto famoso quadro di Francis Bacon. Nessuna delle immagini che siamo soliti mettere in rete ha le medesime caratteristiche di unicità e immediatezza che hanno molti dei ritratti celebri riferiti all’epoca predigitale. Se Che Guevara ha il sigaro e la barba, se JFK ha moglie col cappellino e figli e sorriso, se Lenin è pelato e col pizzetto, se Pynchon ha faccia da liceale e orecchie a sventola, nessuna delle nostre immagini autobiografiche, nessuno dei nostri selfie da persone normali ha, da solo, un valore descrittivo e identitario analogo.
La nostra foto è l’insieme dei singoli frammenti che abbiamo caricato nei nostri profili sociali in rete negli anni, ognuna di esse ne è una parte ma ne rappresenta anche una versione a bassa risoluzione. Un profilo degradato rispetto a quello complessivo. La regina Elisabetta, per me, è il ritratto che Lucien Freud le fece qualche anno fa: niente di noi è invece estraibile in un’unica parte dal ritratto gigantesco formato dalle tracce della nostra presenza in rete. Siamo deboli e a bassa risoluzione, costruiamo castelli ugualmente, ma con mattoni piccolissimi. Come in certe gigantesche immagini lievemente puntinate (una sorta di pointillismo digitale alla Seurat), se un giorno decidessimo di ingrandire ogni singolo punto cromatico del nostro album di rete vedremmo comparire un altro nostro ritratto, un selfie del quale avevamo perso memoria.
A quanti sostengono che tutto questo agitarsi sia niente di piú che una forma di inutile narcisismo andrà forse ricordato che la cultura stessa è un esercizio narcisista le cui ricadute sono evidenti nel corpo sociale. Nell’enorme confusione dell’attuale momento di passaggio fra la nostra vita analogica e quella digitale, assistiamo alla transizione da una società nella quale il racconto era selezionato attraverso criteri rigidi e unilaterali a un’altra in cui il terreno culturale può essere seminato e innaffiato da molti soggetti diversi.
Anche la cultura forse si sta trasformando in un soggetto «a bassa risoluzione»: diviene sotterranea, parziale e difficile da interpretare. Il soggetto emettitore non è piú singolo e ben identificabile e si polverizza in mille impulsi elettronici differenti. Forse la caratteristica del periodo di mezzo è esattamente questa: l’assenza di un contesto che riunisca le piccole parti in un disegno complessivo. Cento anni fa il racconto del mondo era raggomitolato dentro i romanzi di Dostoevskij, oggi le medesime storie riferite al nuovo secolo sono già tutte disponibili in piccoli formati. Come afferma William Gibson in una frase che su internet circola molto, «il futuro è già qui, è solo distribuito male». Manca insomma un Dostoevskij contemporaneo che riunisca le parole digitali e questo sembra a molti, giustamente, un elemento di grande debolezza.
Il fotografo che è in me vorrebbe scattare foto bellissime, ma vorrebbe farlo senza saper nulla di tecnica fotografica. Si aspetta che la tecnologia faccia tutto per lui e questo, negli ultimi anni, in fondo è avvenuto. Le fotocamere compatte scattano immagini di discreta qualità a grande risoluzione (anche se ovviamente gli esperti vi diranno che quelle foto sono insoddisfacenti da molti punti di vista), le mirrorless, apparecchi piú costosi con ottiche intercambiabili, sono una sorta di ponte fra la fotografia professionale e quella di noi amatori, mentre le reflex digitali rimangono un universo a parte, dedicato a quelli davvero decisi a fare le cose sul serio.
Eppure la maggioranza delle immagini che produciamo ormai quasi quotidianamente non esce da simili oggetti dedicati ma da telefoni cellulari che scattano in molti casi foto decenti, belle o bellissime. Moltissime di queste fotografie, scattate da nostri cari amici o da perfetti sconosciuti, ci raggiungono attraverso internet.
E per internet, qualche anno fa, il Parlamento italiano ha approvato questa breve norma:
È consentita la libera pubblicazione attraverso la rete Internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. Con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali [...] sono definiti i limiti all’uso didattico o scientifico di cui al presente comma.
Il comma 1 dell’articolo 70 della legge italiana sul diritto d’autore, aggiunto nel 2008, prende atto di una mutazione. Musica e immagini circolano su internet a grande velocità e in quantità abbondantissime; le foto, in particolare, quelle contenute dentro i siti web, sono a un click di distanza da qualsiasi condivisione.
Il tentativo del comma di legge è evidentemente duplice: salvare l’originale (tenendone aperte per quanto possibile le opzioni di utilizzo commerciale) incoraggiando la condivisione in rete di una sua versione minore a certe condizioni. Una fotografia meno nitida, un brano musicale con un bitrate (e quindi una fedeltà di riproduzione) inferiore. Fra tutte le opzioni ragionevoli e possibili (ve ne sono ovviamente alcune di irragionevoli che i detentori dei diritti hanno tentato di far valere in questi anni con scarsi risultati pratici) quella della bassa risoluzione da riservare alle condivisioni on line senza scopo di lucro è forse l’unica in qualche misura giustificabile.
Comunque stiano le cose l’aggettivo «degradata», riferito a una foto o a una canzone, ha qualcosa di fastidioso ed evitabile. Se le leggi dello Stato fossero scritte da esperti di comunicazione probabilmente si sarebbe escogitata una maniera meno irritante per descrivere l’operazione di prendere un’opera dell’ingegno e modificarla per consentirne la fruizione gratuita nei formati digitali. La parola degradata, dentro una legge della Repubblica, ha un che di degradante.
Ma a parte questo, l’aspetto curioso del comma 1 dell’art. 70 della legge sul copyright è che la norma arriva tardi. Contro ogni aspettativa la bassa risoluzione, nelle immagini e nei file musicali, è ormai la norma per milioni di persone e lo è diventata senza bisogno di un adempimento di legge. Le foto che osserviamo su internet e le canzoni che ascoltiamo sono spessissimo versioni a bassa risoluzione e lo sono non perché lo imponga la norma, ma perché semplicemente in molti casi è sufficiente cosí.
Se domani il detentore dei diritti su una foto bellissima decidesse di distribuirne liberamente una versione ad alta risoluzione, probabilmente quella stessa immagine nel giro di poche ore sarebbe disponibile in rete in formati piú maneggevoli e leggeri. Questo accade perché la bassa risoluzione da tempo non è una modalità imposta dalla legge, ma una scelta liberamente praticata per ragioni indipendenti dalle preoccupazioni dei detentori del copyright o di chiunque altro.
La generazione a bassa risoluzione forse nemmeno se li pone i problemi della giusta remunerazione in rete di musica e foto: quello che ha trovato era già lí pronto all’uso, era bellissimo da vedere e suonava comunque benissimo. O cosí almeno a loro sembrava.

2. Il legno delle cucine Ikea.

Si dice sempre che il diavolo è nei dettagli. Estremizzando un po’ potremmo aggiungere che accettare una versione degradata di qualcosa è una sorte di millimetrico allontanamento da Dio, almeno per quelli che ci credono. Oppure da un’aspirazione verso la perfezione che nei secoli ha accompagnato il progresso del genere umano. Volendo proseguire in questa direzione si potrebbe sostenere che la bassa risoluzione sposta verso il maligno la traiettoria dell’umanità e questo è un punto di partenza idoneo per ampie discussioni filosofiche che non faremo.
Però se ci interessano il diavolo e i suoi dettagli a bassa risoluzione forse potremmo partire dal legno. Il legno – contro ogni attesa – spiega alcune cose.
Giro la testa alla mia destra e quello che vedo è una grande finestra. Piú precisamente è la finestra dell’appartamento a Londra nel quale sto scrivendo queste pagine. Qui sotto c’è la tranquilla strada di un quartiere residenziale, con tutte le sue auto parcheggiate in ordine. Ora io, da qui, conto sette alberi. Dalla finestra di questo soggiorno a Kilburn, accanto a me, senza spostarmi di un centimetro, vedo sette alberi. Non sembrano pochi se per contarli devi al massimo muovere un paio di muscoli.
Il legno di questi alberi difficilmente servirà a qualcosa di differente dal rendere piacevole la vista e raccontare un po’ la storia di una strada cittadina, eppure se ora giro la testa in senso opposto e ritorno a guardare di fronte a me, i primi due oggetti che incontro sono il vecchio tavolo da cucina restaurato sul quale è appoggiato il mio computer (gli inglesi hanno questa fissazione per gli oggetti vecchi rimessi a posto, un confine labile fra l’amore per le proprie radici e la tirchieria) e dritto davanti a me, pochi metri piú avanti, l’angolo cottura, con una cucina Ikea modello Tingsryd. Il tavolo al quale sono appoggiato è di legno, la cucina Ikea no.
Il tavolo qui sotto un tempo era un albero, la cucina svedese è invece interamente fatta di truciolato, vale a dire un composto di colla, funghicidi e altre meraviglie chimiche che tengono assieme fibre di legno (o trucioli) che derivano dagli scarti della lavorazione del legno. Siccome il diavolo è nei dettagli la cucina Ikea vista da qui è perfetta e bellissima.
La marca svedese ha un grande successo nonostante il diavolo e i suoi avvisi. Vende molto, i suoi mobili sono vari, colorati, possono essere assemblati da soli (quasi), soprattutto costano pochissimo. Per questo, ma non solo per questo, la gente li compra.
Le cucine Ikea sono cucine a bassa risoluzione. La sostituzione del legno con il truciolare è una delle ragioni per cui Ikea vende mobili a prezzi tanto bassi. Il truciolare è come se fosse legno, è anzi una specie di «quasi legno», viene ricoperto da pannelli di laminato che ne simulano le venature; in un numero rilevante di casi è esattamente come il legno, nel senso che svolge le medesime funzioni dentro il medesimo organigramma estetico. Nello studio di casa mia a Forlí c’è un’intera parete occupata da una libreria Bestå di Ikea. È piena di libri, li sorregge e li ordina regolarmente; chi entra nella stanza dirà «toh, guarda che libreria grande» e sfido chiunque a contraddire il signor Ikea e a sostenere che quella non è una libreria. Lo è, solo che è una libreria a bassa risoluzione, come moltissime cose della nostra vita oggi.
In certi casi le librerie Ikea sono talmente a bassa risoluzione, i voxel che le compongono sono talmente enormi, da mettere in discussione la loro stessa funzione. I modelli piú economici sono costruiti con pannelli in truciolare in grado di sostenere solo pesi modesti. Sugli scaffali a 59 euro di Ikea la Treccani non potrebbe essere appoggiata perché, in quel caso, i piani si piegherebbero: troppo poco truciolare, troppa poca colla da centellinare per tenere basso il prezzo. Oltre un certo limite l’estetica della bassa risoluzione resta intatta mentre la sua funzione collassa. Nonostante un simile contrattempo i sette alberi qui fuori su Bucher Street possono dormire sonni tranquilli.

3. Nuove Polaroid.

Tornando alle foto, sono successe molte cose da quelle parti negli ultimi anni. Di sicuro la piú rilevante è il trionfo della bassa risoluzione delle istantanee scattate con i te...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Bassa risoluzione
  4. Inizio
  5. I. Bassa risoluzione e immagini
  6. II. Bassa risoluzione e notizie
  7. III. L’altrove
  8. IV. La letteratura e il ricordo
  9. V. Bassa risoluzione e accesso a internet
  10. VI. Gli intellettuali e la tv
  11. VII. Il silenzio e i tramonti
  12. VIII. Bassa risoluzione a scuola
  13. IX. La bassa risoluzione dei computer e della politica
  14. X. Il mondo prima
  15. Fine
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Copyright