Camminare
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Camminare

Un gesto sovversivo

  1. 144 pagine
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Camminare

Un gesto sovversivo

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Camminare è diventato un gesto sovversivo. Non serve essere atleti professionisti, aver scalato l'Everest o raggiunto il Polo Nord, come Erling Kagge. La rivoluzione è alla portata di chiunque. Basta decidere di rinunciare a qualche comodità e spostarsi a piedi ogni volta che è possibile. Anche in città, anche nel quotidiano. Sottrarsi alla tirannia della velocità significa dilatare la meraviglia di ogni istante e restituire intensità alla vita. Chi cammina gode di migliore salute, ha una memoria piú efficiente, è piú creativo. Soprattutto, chi cammina sa far tesoro del silenzio e trasformare la piú semplice esperienza in un'avventura indimenticabile.

«Con un senso di stupore e meraviglia, Kagge vaga piú che narrare, muovendosi tra filosofia, scienza ed esperienza personale...È sempre bene ricordare le antiche verità. E Kagge sa come farlo».

Los Angeles Review of Books

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858428344

Due

Camminare dà un senso di libertà. È contrario a tutto quel che spinge «piú veloce, piú in alto, piú forte». Quando cammino tutto si muove piú lentamente, il mondo sembra ammorbidirsi, e per un breve momento non inseguo i miei impegni quotidiani: i lavori di casa, le riunioni, la lettura di manoscritti in ufficio. Camminare è una zona franca. Per trenta minuti, o qualche ora, le opinioni, le aspettative e gli umori di famiglia, colleghi e conoscenti paiono irrilevanti. Riesco a sentirmi il centro della mia vita e, poco dopo, a dimenticare completamente me stesso.
C’è un consenso diffuso sul fatto che andare da un posto a un altro in due ore invece che in quattro o in otto sia un risparmio di tempo. Sí, certo, da un punto di vista matematico sembra corretto, ma l’esperienza mi dice il contrario: quando aumento il ritmo, il tempo scorre piú veloce. La mia velocità e il tempo accelerano parallelamente. È come se un’ora durasse meno di sessanta minuti. Quando mi sbrigo, non riesco a cogliere quasi niente.
Se vai verso una montagna in macchina e lasci che i laghetti, le colline, le pietre, il muschio e gli alberi ti sfreccino accanto, la vita si fa piú corta. Non puoi sentire il vento, gli odori, il tempo atmosferico o i cambiamenti di luce. I piedi non ti fanno male. Tutto si amalgama.
Quando aumenti il ritmo, non è solo il tempo a ridursi, ma anche la percezione dello spazio. A un tratto sei alle pendici della montagna. Viene meno l’esperienza della distanza. Una volta arrivato, la sensazione può essere quella di aver colto molte cose. Ma io ne dubito.
Se quello stesso tratto lo percorri a piedi e ci metti un giorno invece di mezz’ora, allora respiri con piú calma, ascolti, senti il terreno sotto i piedi e la giornata diventa tutt’altra cosa. La montagna cresce gradualmente e l’ambiente circostante sembra diventare piú grande.
Fare conoscenza con le cose che ti circondano richiede tempo. È come costruire un’amicizia. La montagna giú in fondo, che si trasforma via via che ti avvicini, diventa una buona compagna ancor prima che tu l’abbia raggiunta. Gli occhi, le orecchie, il naso, le spalle, la pancia e le gambe le parlano e la montagna risponde. Il tempo si dilata, indipendentemente dai minuti e dalle ore.
Ecco un segreto che condividono tutti i camminatori: la vita dura di piú quando cammini. Camminare dilata ogni attimo.
Tra due o piú alternative scelgo sempre la piú semplice: quella che prende il minor tempo possibile. La piú comoda. La piú calda. Anche quando so che l’altra via sarebbe la piú saggia. Certi giorni scelgo il percorso con meno ostacoli da quando mi sveglio a quando vado a dormire. Sí, a volte mi capita di farlo anche per piú giorni di fila. È una debolezza che mi infastidisce.
Scegliere liberamente di rendere la mia esistenza meno confortevole mi ha dato tanto in cambio. Da che ho memoria, dentro di me ho sempre avuto un diavoletto a suggerirmi di prendere la via piú comoda ogni volta che mi trovavo di fronte a una scelta. Camminare meno di quanto avessi programmato, saltare la visita a un amico ammalato per andarmene al bar, non alzarmi dal letto quando invece avrei dovuto. Nei periodi in cui mi abituo a spostarmi in macchina, poi è difficile rinunciarci. Di fatto è troppo comodo.
Seguire sempre e regolarmente questa voce può portare a una specie di fuga dal mondo e a sprecare le opportunità che abbiamo nella vita. Il filosofo Martin Heidegger osservava che è molto facile diventare schiavi di questa voce interiore. Può indurci ad affondare e a rimanere del tutto intrappolati in una palude che ci risucchia. Heidegger distingue tra un’esistenza vissuta cosí e il guidare la propria vita. Essere non significa solo stare al mondo, come fanno le pietre, ma porsi la questione del come si sta al mondo. Secondo Heidegger gli uomini, per essere liberi, dovrebbero desiderare di caricarsi di fardelli. Scegliendo la via con meno ostacoli, si dà sempre la priorità all’opzione che comporta meno preoccupazioni. In questo modo le nostre decisioni sono stabilite a priori e viviamo non solo una vita non libera, ma anche noiosa.
Tante cose nel nostro quotidiano sono legate ai ritmi veloci. Camminare invece è un’azione lenta. E in questo senso una delle piú radicali che si possano compiere.
Può sembrare esagerato suggerire a qualcuno di prendere la strada sbagliata, o di perdersi, ma può essere anche un buon consiglio. Quelle camminate me le ricordo bene.
Nell’autunno del 1987 percorrevo con la mia ragazza il versante destro dello Jotunheimen e, lungo la strada, decidemmo di scalare lo Store Skagastølstind, la terza cima piú alta della Norvegia. Lei era una scalatrice esperta e avrebbe guidato entrambi alla vetta. Arrivati quasi in cima, però, fummo sorpresi da nebbia e nevischio. C’erano dirupi scoscesi su ogni lato. Fare anche solo un altro passo nella nebbia era pericoloso e fummo costretti a pernottare lí, senza tenda né sacchi a pelo. Saltellammo, tirammo pugni contro il vento, ci stringemmo le braccia intorno al torace per l’intera notte, e nonostante tutto ci congelammo completamente. Guardando indietro, oggi penso sia stata l’esperienza piú bella che abbiamo vissuto insieme. Quella notte trascorsa in condizioni drammatiche si distinse da tutta la serie delle notti confortevoli. Al sorgere del sole, quando ci aiutammo a vicenda a ridiscendere in sicurezza, le ore di buio ci avevano avvicinati.
Ho sbagliato strada cosí tante volte da domandarmi se in fondo in fondo io non cerchi quella piccola insicurezza. Come disse mio fratello Gunnar – dovevamo avere otto e undici anni – una volta che ci perdemmo nell’Østmarka: «Qui mi ci sono già perso una volta, perciò so dove siamo».
Ogni giorno passo accanto a una quercia che si trova a circa settantacinque passi dal portone di casa mia. Ricordo bene i cambiamenti che subisce nell’arco di un anno. D’inverno, nella luce fosca prima che sorga il sole, capita che l’albero spoglio assomigli a un mostro. Qualche ora piú avanti, con la luce del giorno, ha un’aria piú amichevole. Nella chioma, nella corteccia e all’interno del legno ci sono innumerevoli piccole tane in cui centinaia di minuscoli insetti, funghi, muschi e licheni vivono le loro vite.
Con la primavera arrivano le foglie e i colori. La quercia – un albero che secondo la leggenda impiega cinquecento anni per vivere e cinquecento per morire – sembra raddrizzarsi un po’ e a ogni raffica di vento si cosparge di polline. Non posso vederlo, ma so che in quel momento la linfa sta salendo.
Di solito non faccio caso a molti dettagli quando vado in città in macchina. Superata Pilestredet il traffico rallenta, un automobilista non si accorge che è scattato il verde e un pedone mi attraversa davanti mentre scrive un sms. Non si colgono le espressioni dei visi. Nel traffico dell’ora di punta, poi, al massimo mi metto a guardare gli altri e penso male di loro perché – come me – buttano via il loro tempo seduti e in coda. Fino a oggi non mi è mai capitato di vedere un automobilista felice all’ora di punta.
Guidando in galleria e in autostrada, le distanze e le variazioni topografiche scompaiono. All’arrivo, è come se non avessi vissuto il tragitto. La velocità della macchina è una minaccia a tutto quel che potrei ricordare. Alla radio ci sono gli stessi pezzi di repertorio e piú o meno le stesse notizie del giorno prima. Mentre guido, ascolto. Il radiogiornale parla spesso di fatti che non conosco e che dimentico subito. Voci decise sostengono qualcosa al mattino e altre voci decise sostengono qualcos’altro all’ora di pranzo.
Nel testo in prosa La passeggiata, lo scrittore svizzero Robert Walser descrive come una forma di pazzia la pratica di muoversi da un posto all’altro senza cogliere nulla lungo la strada: «Non potrò mai capire che gusto ci sia a passare velocissimi davanti a tutte le immagini e gli oggetti che la nostra bella terra ci offre, come se si fosse impazziti e si dovesse correre per non disperare».
D’estate le foglie della quercia hanno innumerevoli sfumature di verde scuro sulla superficie superiore, mentre quella inferiore è piú chiara, di un verde quasi azzurrino. I fiori sono cosí piccoli che devo aguzzare lo sguardo. Li vedo solo quando sono vicinissimo.
Lo interpreto cosí: è come se la quercia ci dicesse che non dobbiamo mai dimenticare di guardare.
Uno dei miei primi ricordi d’infanzia è una volta in cui io e mio padre distribuivamo volantini a Nordstrand, il quartiere in cui abitavamo. Lui era molto attivo nella politica locale. Passammo una serata a infilare fogli in centinaia di cassette della posta. Avevo già fatto quella stessa tratta in tram, ma facendola a piedi le distanze mi parvero subito maggiori. Ricordo quanto mi facevano male i legamenti delle ginocchia. Percorrendolo metro per metro, il mondo sembrava molto piú grande di quando lo guardavo da dietro al finestrino del tram. Percepii in modo del tutto nuovo il collegamento fra il corpo, il mondo intorno a me e la mia fantasia. Continuai ancora a immaginare di fare lunghi tragitti a piedi, ma da quella sera capii meglio cosa sono le distanze e la fatica.
Di Oslo ho percorso a piedi tutti i quartieri. Da Vestli e Mortensrud a Holmlia, Røa e Holmenkollen. Volevo capire meglio come vivesse la gente nella mia città. Sfruttando le sere e i fine settimana, ho stretto conoscenza con Oslo. Quando parlo di Furuset, per me non è solo una fermata della metropolitana ma un quartiere che conosco bene, con le sue ville, i palazzi, la moschea, la chiesa e il monumento in memoria di Trygve Lie, il primo segretario generale delle Nazioni Unite. Uno dei miei prossimi progetti è provare a disegnare un cerchio intorno ai luoghi in cui mi trovo, con un raggio di un chilometro o anche di cinque, e poi percorrere tutto il cerchio a piedi fino a completare il giro.
Camminare può essere un piccolo viaggio di scoperta all’interno di noi stessi, mentre gli edifici, i cartelloni, i volti, il clima e l’atmosfera delle strade ci formano. Forse siamo fatti per andare a piedi anche in città? Camminare è un insieme di movimento, umiltà, equilibrio, curiosità, odori, suoni, luci e – quando si va avanti a lungo – anche di nostalgia. Una sensazione che si spande tutt’intorno a noi senza trovare alcun riscontro. Per questo tipo di nostalgia i portoghesi hanno una parola quasi intraducibile: saudade. Un sentimento che include allo stesso tempo amore, dolore e felicità. Può essere un pensiero bello che ci inquieta, oppure uno spiacevole che però ci provoca gioia.
Al mattino, quando devo spostarmi dalla dimensione domestica verso la città, nella mia testa si scatena un caos momentaneo. Pensieri e ambizioni devono trasferirsi dal letto, dalla cucina e dalla preparazione delle merende a una casa editrice piena di colleghi che producono e vendono libri. Sono due mondi diversi, ma quando vado al lavoro a piedi riesco a guadagnare quel tempo in piú per spostarmi da una realtà all’altra. Posso fermarmi quando voglio. Guardarmi intorno. Poi riprendere a camminare. È anarchia in piccola scala. I pensieri che mi passano in testa o le preoccupazioni che sento nel corpo si modificano e si chiariscono mentre cammino. Se un piccolo caos impera quando parto, quando arrivo si è creato un certo ordine. Quando invece vado in macchina o prendo la metro, lo spostamento tra casa e città è talmente rapido che non faccio in tempo a chiudere con la dimensione domestica e ho la sensazione di portarmela dietro, in ufficio. A fine giornata, tornato a casa, la testa ha bisogno ancora una volta di ricalibrarsi.
Nel percorso a piedi da casa al lavoro non mi aspetto grandi emozioni, ma un pochino sí. Mi imbatto quasi sempre in qualcosa di interessante su cui ragionare, o da guardare. Ci sono tre chilometri fra dove abito e l’ufficio, in realtà è una distanza un po’ troppo breve, ma sempre meglio di cinquecento metri. C’è un vecchio paradosso filosofico che recita cosí: non troverai mai niente di valore per strada perché, se ci fosse stato, l’avrebbe già raccolto qualcun altro. Eppure, quando mi guardo intorno, vedo cose di valore ovunque.
Osservare gli altri dà sempre un’emozione. Quando cammino in città mi si imprimono addosso piccole impressioni. Il lieve disagio nel superare il mendicante romeno sul lato sud-ovest di Valkyrie plass, sempre con una tazza di Starbucks vuota di fronte a sé insieme a una foto del figlio disabile. Volti che non conosco mi passano accanto veloci. Uno indugia al semaforo rosso dell’incrocio di Majorstuen ascoltando musica negli auricolari. Altri hanno un’aria cosí spaventata e inquieta che sembrano temere un cecchino su un tetto. Anche quando cammino sugli stessi marciapiedi e nelle stesse aree pedonali del giorno prima, alla stessa ora, tutto è un po’ diverso. Ci sono persone che continuo a vedere di anno in anno e di cui mi sembra di percepire l’invecchiamento per via della camminata meno elastica. A ogni giorno che passa, la quercia vicino a casa mia cambia in modo impercettibile, la pittura sui muri è un po’ piú scolorita e i visi che mi vengono incontro sono piú vecchi di ventiquattr’ore. I cambiamenti sono troppo sottili perché io riesca a notarli, tutto avviene molto lentamente, ma camminando posso percepire cosa sta succedendo.
Quando il Polo Nord è rivolto verso il sole, d’estate, c’è luce quasi per tutto il giorno e per tutta la notte. Allora è facile individuare pressoché tutti i colori dell’arcobaleno. Sembra che siano loro a offrirsi ai nostri occhi. Nel tardo autunno invece, quando la nostra parte di globo si trova in ombra, comincia il periodo del buio. Ma in realtà, quando il sole è basso, ci sono variazioni ancora maggiori di blu, viola, rosso, nero e giallo; ci vuole solo uno sforzo in piú per vederle. D’estate è come se i colori fossero serviti su un piatto d’argento. Per vederli in inverno spesso è necessario concentrarsi un po’ di piú. Bisogna scrutare la luce debole e dopo qualche minuto è possibile che si manifestino tutti. I colori che vedi in quel momento sembrano ancora piú corposi che a vederli in estate.
Nei giorni in cui ne ho il tempo, provo a indovinare a cosa pensino le persone che vedo e quali impegni le aspettino. Non ho molti secondi per seguire uno sguardo stanco sotto un cappellino da baseball, o il sorriso sereno di una donna sovrappensiero. Di pomeriggio vedo persone stressate che immagino essere genitori di bambini piccoli che corrono a riprenderli all’asilo prima dell’orario di chiusura. Conosco quella sensazione. Ma forse sono stressati senza essere in ritardo per qualcosa.
Anche i vestiti possono rivelare molto. Uomini in completi eleganti e tagli di capelli curati possono essere avvocati diretti in ufficio. Gli insegnanti di yoga hanno il loro specifico codice d’abbigliamento. È vero che un prete con il collarino ecclesiastico cammina in un modo particolare, ma non è sempre cosí semplice. Gli abiti sono segnalatori, ma ho l’impressione che un prete mantenga qualcosa della sua camminata solenne anche quando non indossa il collarino. Quando il mio vicino, che è un ufficiale, gira in borghese, resta pur sempre un militare e si muove nello stesso modo rigido di quando indossa l’uniforme.
Quante volte nelle strade traboccanti
Lasciandomi spingere dalla folla ho detto
Fra me e me: «Il volto di ciascuno
Che mi passa vicino è un mistero».
William Wordsworth, Il preludio.
C’è una coppia di fidanzati che ho notato fin dai primi tempi della loro relazione; un giorno li ho visti fuori dal negozio di Bang&Olufsen in Hegdehaugsveien a discutere l’acquisto di tv e impianto stereo. Li ho superati nel momento in cui si baciavano davanti alla vetrina e ho ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Camminare
  4. Uno
  5. Due
  6. Annotazioni dell’autore
  7. Ringraziamenti
  8. Bibliografia
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright