La barca di Caronte, particolare dalla ricostruzione della Nekyia di Polignoto.
Disegno di H. Schenk da C. Robert, Die Nekyia des Polignot, Max Niemeyer Verlag, Halle am Saar 1892.
È facile la scesa all’Averno:
la porta del fosco Dite notte e giorno è aperta;
piuttosto ripercorrere i passi e risalire all’aere elevato,
questa è l’impresa, questo il travaglio. Pochi figli di dèi,
amati dall’equo Giove o innalzati al cielo dall’ardente valentía,
vi riuscirono.
Con queste parole lapidarie e icastiche (facilis descensus Averno è passato, non a caso, nei repertori di «sentenze» latine) nel canto VI dell’Eneide la Sibilla cumana replica alla richiesta di Enea, approdato in Italia dopo la fuga da Troia e mille traversie, che le chiede di poter scendere nell’Oltretomba per poter dare un ultimo saluto al padre Anchise.
In effetti era stato lo stesso Enea, nella sua perorazione, a sottolineare il suo status di progenie di Venere e a ricordare una serie di precedenti illustri. E cosí vengono menzionati Orfeo, Polluce, Teseo, Eracle. Sappiamo perché erano avvenute queste discese (per recuperare una moglie o un fratello perduti, nel caso di Orfeo e Polluce, per rapire la regina degli Inferi o Cerbero, nel caso di Teseo ed Eracle), sappiamo talora dove avevano avuto luogo, come nel caso di Orfeo ed Eracle, la cui katabasis era sovente collocata presso il Tenaro (in Laconia). Il particolare su cui siamo peggio informati è il come, ossia le modalità effettive con cui tale discesa era effettuata. Il silenzio delle fonti può dare l’impressione che tutto andasse proprio come diceva la Sibilla: scendere nell’Aldilà, insomma, non era difficile.
In realtà non sempre era cosí, per un vivente che volesse recarsi nel regno dei morti. È la stessa Sibilla a invitare Enea a munirsi del mistico «lasciapassare» che avrebbe dovuto garantirgli l’accesso all’Ade, quello sfuggente ramo d’oro consacrato a Proserpina che, forse connesso a rituali d’iniziazione orfico-pitagorici, e forse da identificare con il vischio, è stato immortalato anche nel titolo del Ramo d’oro di James Frazer, opera fondante, se non dell’antropologia tout court, almeno dell’antropologia del mondo antico. E i rituali non si arrestavano qui: prima di scendere nella «profonda spelonca, immensa per la vasta apertura», Enea deve sacrificare alle divinità infernali vittime di pelo nero. Infine, una volta varcato lo Stige sulla barca di Caronte, è la stessa Sibilla, guida e scorta di Enea come Virgilio lo sarà di Dante, a gettare al furente Cerbero un’offa soporifera, un impasto di farina, miele e semi di papavero che lo fa accasciare privo di sensi.
Per chi non se la sentisse di intraprendere da vivo la «discesa all’Averno» per interrogare i defunti, c’erano però alcune «scorciatoie». Una soluzione di mezzo è quella che Silio Italico, poeta erudito innamorato di Virgilio e Omero, sceglie per far sí che anche il suo Scipione l’Africano, protagonista delle fluviali Puniche, possa sperimentare una visione degli Inferi pur senza scendervi fisicamente. E cosí il giovane condottiero si reca a interrogare la sacerdotessa di Apollo presso il lago Averno, proprio come Enea, ma riceve da questa il consiglio di mettere in atto una inquietante cerimonia notturna, versando in una fossa il sangue degli animali sacrificali per attirare le ombre, in maniera analoga a quanto avveniva nell’Odissea. Sarà l’antica Sibilla ad agire come una sorta di regista, illustrando il «regno che non andrebbe cercato» e facendo sfilare davanti agli occhi di Scipione parenti defunti (a partire dalla madre, che gli rivela il segreto della sua nascita) e grandi uomini, tra i quali Alessandro Magno e Omero – senza dimenticare, naturalmente, una rapida carrellata di crudeli pene infernali.
In qualche caso, peraltro, la realtà poteva essere molto piú impressionante dell’immaginazione poetica. A Lebadea (in Beozia) si poteva interrogare l’oracolo di Trofonio, un figlio di Apollo che era stato inghiottito dalla terra. Sappiamo che si trattava di un’esperienza veramente sconvolgente. Coloro che affrontavano il rituale erano obbligati a scendere in un budello sotterraneo, nell’oscurità piú totale: un’esperienza traumatica che somigliava in maniera terribile a essere sepolti vivi. Plutarco racconta della visione dell’Oltretomba che ne ricavò Timarco, un discepolo di Socrate; le notizie piú dettagliate provengono tuttavia da un testimone oculare, il viaggiatore Pausania, che nel suo «grand tour» della Grecia, nel II secolo d.C., affrontò quest’ordalia e decise di lasciarne una testimonianza. Chi voleva affrontare l’oracolo, in primo luogo, doveva trascorrere alcuni giorni di ritiro; per le sue abluzioni aveva a disposizione solo le acque gelide del fiume Ercina, che scorreva nei pressi, e la sua dieta era costituita soprattutto dalla carne delle vittime dei sacrifici, proveniente dal santuario. Come si vede, in questa preparazione alla discesa (katabasis) nel sottosuolo non c’è alcuna estenuazione, alcun digiuno mistico: al contrario, sembra piuttosto che si voglia irrobustire il postulante, prepararlo anche fisicamente alla difficile prova che lo attende. Giunta la notte destinata alla consultazione dell’oracolo, si usciva dalla città, si oltrepassava un bosco inerpicandosi su un’altura, ed ecco che, alla luce delle torce o della luna, compariva un basso recinto circolare di marmo bianco, sovrastato da una sorta di cancellata di bronzo. All’interno di questo spazio sacro si apriva una voragine che conduceva dentro la terra. Non si trattava di una cavità molto profonda, solo pochi metri, ma per scendere era comunque necessario che il postulante utilizzasse una scaletta che veniva portata appositamente. Una volta arrivati in fondo, ci si doveva sdraiare supini sul pavimento, infilando le gambe, fino alle ginocchia, in una fessura che si apriva tra la paret...