Abbiamo descritto l’avventura come un rimedio alla noia: accelerando e rendendo appassionante il ritmo della futurizione, l’avventura appronta per noi una storia ricca di eventi, di novità e d’inaudite congiunture; porta alla luce gli istanti virtuali sepolti nella continuazione dell’intervallo. Ma considerare l’istante un rimedio e l’intervallo una disgrazia costituirebbe comunque un’indebita semplificazione! Se è vero che l’emergenza avventurosa dell’istante si compie spesso nella gioia, il piú delle volte essa ci si annunzia negli spasimi dell’angoscia.
1. Angoscia e noia.
Procedendo dall’esterno all’interno, si possono dare dell’angoscia tre letture successive:
I. L’angoscia che coglie l’istante e la noia che s’insabbia nell’intervallo hanno in comune il fatto di essere immotivate. Per molti uomini alieni da ogni metafisica, l’angoscia apparirà probabilmente meno seria della preoccupazione terra terra, cura vulgaris, l’umile preoccupazione dei giorni feriali; l’angoscia è una preoccupazione di lusso riservata a coloro che non ne hanno; la seria quotidianità non sa niente dell’angoscia metafisica! Il minatore, che in fondo alla miniera lotta per il salario, ha forse modo di sperimentare l’angoscia dell’esistenza? Tanto per cominciare, le preoccupazioni vanno declinate al plurale; ed è un modo di attenuare l’angoscia, quello di convertirla in minute preoccupazioni e piccoli fastidi; infatti, al contrario dell’angoscia, la preoccupazione è legione: mentre l’uomo angosciato è assediato dal fascinoso monoideismo della propria angoscia, l’uomo serio, da parte sua, è piuttosto assediato dallo sciame dei mille scrupoli e delle infinite preoccupazioni; da questo punto di vista, infatti, il preoccupato e lo scrupoloso si trovano nella stessa barca, la barca della pluralità… Le situazioni che generano preoccupazione non sono forse diverse tra loro quanto i casi di coscienza? Per elencare le varietà della preoccupazione e classificarne le categorie, occorrerebbe tutta una sociologia dell’uomo preoccupato che tenesse conto dell’epoca, dell’età, del sesso, della classe sociale e del mestiere: preoccupazioni di salute, di denaro e di carriera, preoccupazioni professionali e politiche – le vespe della preoccupazione infliggono all’uomo serio il tormento delle loro innumerevoli punture.
Riguardo alle circostanze e alle occasioni, mentre la preoccupazione è naturalmente esogena o allogena, l’angoscia si sprigiona invece dal centro stesso della nostra anima. Simile al calcolo renale o al moscerino nell’occhio, al pari del granello di sabbia finito nell’ingranaggio di un orologio, la preoccupazione è una sorta di corpo estraneo, una concrezione scabrosa che intralcia il meccanismo della vita e fa cigolare il divenire; proprio come lo scrupolo, la preoccupazione è un elemento avventizio e d’importazione (ἐπακτόν), un elemento che non viene assimilato nella durata vissuta; oppure, se vogliamo, una sorta di grumo all’interno della fluida continuità del divenire; un che di nodoso che ne interrompe l’uniformità. Mentre le preoccupazioni fanno parte dell’ordine dell’Avere, l’angoscia, piú vicina da questo punto di vista alla noncuranza, apparterrebbe invece all’ordine dell’Essere. I viaggiatori senza bagagli non hanno preoccupazioni, ma possono benissimo conoscere l’angoscia.
Se il contingente oggetto della preoccupazione deve poter essere eliminato, l’angoscia, esalando dalle profondità dell’essere, sembra a prima vista incurabile: cosí, se l’angoscia è di competenza della psicoanalisi o dei terapeuti morali, la preoccupazione, al contrario, scompare ipso facto e senza lasciare traccia con la scomparsa della sua causa, come l’appendicite con l’asportazione dell’appendice: ciò che fa scomparire all’istante la preoccupazione legata a problemi di denaro non è la suggestione morale, ma l’arrivo dell’assegno. La preoccupazione si contrappone quindi all’angoscia come la preveggenza attiva si contrappone all’attesa passiva. L’ansiosa aspettativa del condannato a morte in attesa della grazia… o dell’esecuzione, quest’aspettativa non è una preoccupazione, ma è l’angoscia stessa: qui i tormenti dell’angoscia si distinguono dalla disperazione soltanto per la loro straziante incertezza; infatti, nella disperazione priva di alcuna prospettiva, è l’orizzonte in generale ciò che viene occluso. Istante imminente o proroga fatidica, l’avvenire angoscioso è un avvenire destinale che ci sottrae l’enigma della fatalità impenetrabile; ciò che resta è soltanto questione di fortuna o sventura. Al contrario, la difficoltosa, impervia, accidentata futurizione della preoccupazione rappresenta un problema o un’aporia da risolvere, un ostacolo da evitare, un onere che incombe su di noi e che dipende in parte dal nostro lavoro: la preoccupazione rappresenta nell’ordine del vissuto ciò che un’obiezione confutabile costituisce per il ragionamento; le mie preoccupazioni chiamano in causa i miei doveri e le mie responsabilità. Il preoccupato avvenire è quindi, tra tutti, l’ambito della serietà: dobbiamo prevedere, e provvedere; ovviare all’imprevisto. Vigilate ergo! L’incuria e la frivola noncuranza, quando non sono state immerse nelle acque del Lete o del fiume Amelete, non sono forse il contrassegno di una mens momentanea disarmata quanto i molluschi del Filebo? Guai agli innocenti e agli inconsapevoli!
La «cura» o preoccupazione dell’uomo ragionevole è totalmente volta verso un avvenire migliore, cosí come la «cura» di un malato previdente è tesa verso la guarigione: infatti, la preoccupazione ispira ai prudenti una condotta cauta, e le opzioni della terapeutica, e gli stratagemmi della strategia. L’attivismo, il migliorismo, il futurismo della preoccupazione smentiscono insieme il passatismo del rimorso retrospettivo come il quietismo della noia; e d’altronde la prospettica della preoccupazione sconfessa la retrospettività dello scrupolo. Indirettamente ottimistica qual è, la preoccupazione intravvede una via d’uscita nell’avvenire irrimediabilmente sbarrato che costituisce tutta la tragicità della disperazione; al tempo stesso, relativamente pessimistica, la preoccupazione non s’abbandona a una futurizione fluida e gratuita: non basta lasciare che il divenire divenga; bisogna, a furia di sforzi e fatica, aiutare un certo avvenire ad avvenire, modellare con le proprie mani il crastinus dies. Da questo punto di vista, la scabrosa futurizione della preoccupazione si trova agli antipodi del flaccido e allentato presente in cui s’autocommisera la noia. Senza dubbio l’ipoteca del futuro incerto grava allo stesso modo sulla noia come sull’angoscia: l’inquietante avvenire, di cui la parca Atropo canta, secondo Platone, gli enigmi all’uomo, quest’avvenire è il vago luogo delle nostre angosce cosí come il motivo della nostra preoccupazione… Eppure, nel caso dell’angoscia l’inquietudine è piuttosto oppressione, mentre nel caso della preoccupazione è prevalentemente ostruzione: la preoccupazione ostruisce la futurizione, impedendo al divenire di sboccare sull’avvenire; oberando la funzione elpidica di quest’avvenire, la preoccupazione mette in crisi i nostri progetti; una volta che la coscienza è stata sbarazzata di quanto l’ingombra, quelli che vogliono guardare al di là, passare oltre, andare piú innanzi, hanno via libera. Nell’angoscia, al contrario, il divenire si trova impedito a causa di un’impossibilità interna che prostra e pietrifica la futurizione. Per esempio, la morte non è una preoccupazione, ma un’angoscia. La morte non è una difficoltà qualsiasi, una difficoltà come le altre, al di là della quale l’uomo potrebbe ricominciare a scrutare l’avvenire ed elaborare progetti: la morte è la contraddizione interna, l’assurdità costituzionale, l’opacità assoluta che ci interdice irrimediabilmente da ogni avvenire; la morte non si limita a rallentare il nostro cammino, né a ergercisi sulla strada come un ostacolo sormontabile o una semplice difficoltà di carriera: negazione tragica e radicale non essere al centro dell’essere, la morte segna la cessazione definitiva di ogni continuazione; la morte sancisce, per sempre, il naufragio della futurizione.
In particolare la preoccupazione si contrappone all’angoscia… e alla noia nella sua specificità, solidale anch’essa con la propria eziologia. La pluralità delle preoccupazioni, il loro carattere accidentale, la possibilità della loro eliminazione dipendono proprio da questa causalità: se le preoccupazioni sono molteplici e in costante accumulo, ciò accade perché esse, procedendo da ragioni differenti, affiorano alla superficie dell’obiettività! Cosí, se l’uomo si vergogna della sua inconfessabile, innominabile angoscia, non ha pudore nei confronti delle proprie preoccupazioni. La preoccupazione è motivata, e lo è a tal punto che il termine con il quale la indichiamo designa sia il motivo stesso della preoccupazione, sia la cosa mentale e il pathos dell’apprensione; la preoccupazione è insieme l’oggetto e il soggetto. Si chiamano preoccupazioni la malattia, i debiti, gli insuccessi. L’incombente fallimento non è la preoccupazione del commerciante? Lo sfratto non è la preoccupazione stessa dell’inquilino? La dichiarazione dei redditi non sta in cima alle preoccupazioni del contribuente? Se localizzassimo il male nei termini di un ascesso, la preoccupazione rappresenterebbe quasi un rimedio rispetto alla setticemia dell’angoscia: infatti sostituisce la grande preoccupazione generalizzata che chiamiamo angoscia con la piccola, concreta e circoscritta angoscia che ha il nome di preoccupazione; la preoccupazione sostituisce all’incerta minaccia il preciso, palpabile e determinabile pericolo; al malessere diffuso la normale e confessabile inquietudine. La preoccupazione è quindi l’antidoto dell’angoscia. Anzi: l’angoscia può non essere altro che la preoccupazione dovuta all’assenza di preoccupazione.
Di fatto la preoccupazione può volgersi insensibilmente in angoscia: l’angoscia, infatti, è il limite metaempirico della preoccupazione. Per esempio, l’inconfessata e tacita retro-preoccupazione che viene pudicamente sottintesa dietro la formula dei «problemi di salute» è la preoccupazione relativa alla nostra precarietà fondamentale, alla nostra vulnerabilità creaturale e, insomma, alla nostra finitezza. Quello che rende in definitiva preoccupata la preoccupazione è proprio ciò che la rende ansiosa: si tratta dell’implicita retro-preoccupazione della morte: senza la possibilità di morire, nella quale si riassume la nostra perenne insicurezza, la preoccupazione non sarebbe neppure preoccupata, avrebbe già da un pezzo lasciato il posto alla noncuranza e alla sinecura. Mutatis mutandis, dobbiamo insomma ripetere riguardo alla preoccupazione quanto abbiamo già detto a proposito dell’avventura: una preoccupazione dalla quale fosse esclusa la possibilità stessa di morire è una preoccupazione fasulla, un gioco e una mera figura retorica; come la morte è l’elemento pericoloso all’interno di ogni pericolo, cosí il rischio di morte è la vera e propria angoscia della nostra preoccupazione. L’angoscia è ciò che rende inquieta la preoccupazione, cosí come il pericolo di morte è ciò che rende angosciante l’angoscia. Non deve perciò stupire se la sproporzione tra causa ed effetto, cosí caratteristica dell’angoscia, rende la preoccupazione già vagamente atmosferica. Nella morfologia del presente in atto, non possiamo leggere direttamente la morte ventura che sta alla base della nostra preoccupazione: questa morte, al momento attuale, non è niente.
Preoccupazione e angoscia sono entrambe «preoccupazione» allo stesso titolo, sono cioè occupazione anticipata del campo coscienziale da parte di un oggetto assente e virtuale: le occupazioni di domani sono dunque le pre-occupazioni di oggi; il Non-ancora della possibilità, occupando in anticipo il nostro presente, ci rende, a seconda dei casi, preoccupati o ansiosi. La preoccupazione è coscienza, e innanzitutto coscienza temporale: si ha la sensazione di ciò che è presente immediatamente, ma si ha coscienza di ciò che è a venire. Eppure il futuro della preoccupazione è un futuro secondo o mediato: questo futuro è un dopodomani. È preoccupata la coscienza che sulla soglia del piacere di domani non pensa a questo domani, ma al domani di questo domani, cioè alle conseguenze non volute della cosa voluta, all’indesiderato dopodomani che verrà dopo i domani desiderati, quel dopodomani che essa accetta indirettamente e come per combinazione. Questi seguiti non voluti, o convoluti, sono oggetto piú di consenso che di volontà. È il caso del pessimista che, nel momento del ritorno, sta già pensando alla partenza, e al quale il secondo futuro avvelena per anticipazione il primo. I presagi autunnali del prossimo inverno ci lasciano appena il tempo della preoccupazione, poiché costituiscono un’allusione immediata al futuro prossimo; ma se siamo in estate i presagi del remoto inverno si riferiscono al futuro numero Due, che è quello della nostra preoccupazione. Appartiene a questo genere di situazioni il presentimento della malattia che ci coglie mentre stiamo godendo di ottima salute. La complicazione e la perversità della preoccupazione conferiscono profondità all’apparenza istantanea e superficiale. Tormento addizionale e ansietà supplementare, la preoccupazione non è analiticamente compresa nel pericolo che ci minaccia e che ne è la causa ufficiale, e non potrebbe essere dedotta da questo.
In linea di principio, e in considerazione dell’iperestesia o dell’ipoestesia del paziente, il dolore è meccanicamente proporzionale all’intensità dell’eccitante, alla profondità della lesione dei tessuti, all’estensione della superficie nervosa interessata, alla natura dell’innervazione e alla quantità delle terminazioni sensibili al dolore: la sensazione non può non confermare quanto è dato nell’eccitante. Ma nella preoccupazione, al contrario, è riscontrabile qualcosa di piú: la preoccupata inquietudine, infatti, benché non sia priva di motivi, è parzialmente priva di causa; la preoccupazione straripa dall’occasione a volte insignificante che l’ha provocata nel senso della grandezza, della durata, della gravità. Cosí avviene che la «tremarella» sia un terrore sproporzionato rispetto al rischio che si è corso effettivamente: infatti, di solito, non può accadere nulla… In quest’occasione smisurata, e piú motivata che giustificata, non si riscontra la grandezza reale di un pericolo di cui sono già noti tutti gli aspetti e ove la riflessione non scopre alcun nuovo elemento: il preoccupato volge e rivolge per la millesima volta il suo problema senza fargli fare neanche un passo verso la soluzione. Cosí la causa concreta della preoccupazione si riduce a una sorta di simbolo o pretesto attorno al quale si cristallizza la nostra inquietudine diffusa. Vi è dunque tutta una serie di gradazioni e di passaggi intermedi tra l’angoscia, che è un effetto privo di causa materiale, e la preoccupazione, che è sí l’effetto di una causa, ma che è assurdamente, mostruosamente sproporzionata rispetto a questa. Malgrado la pluralità delle preoccupazioni, l’uomo non ha, quindi, mai altro che una preoccupazione per volta, cosí come non ha mai piú di un unico presente: quello principale spodesta gli altri; e per esempio la preoccupazione maggiore dell’esistenza ci dispensa a fortiori dalle preoccupazioni minori relative ai modi di esistere o alle maniere di essere: la preoccupazione dominante occupa da sola tutta la scena di una coscienza preoccupata. Chi è minacciato da una malattia mortale diverrà a maggior ragione indifferente alla sua carriera. Lungi dal pensare continuamente alle nostre preoccupazioni, accade che ci rendiamo vagamente conto di un certo incupimento dei nostri pensieri ancora prima di poterne individuare il motivo. Cosí una noncuranza superficiale è spesso soltanto la preoccupazione di qualcos’altro.
Preoccupazione e angoscia costituiscono tuttavia due limiti antitetici. Tra quella, che è particolare e conseguente, e questa, generale e antecedente, c’è la stessa relazione sussistente tra rimorso e scrupolo da un lato e cattiva coscienza dall’altro: da una parte, il rimpianto di avere fatto (o l’inquietudine di dover fare) rispetto a una colpa determinata, in relazione cioè all’aver commesso l’atto, che è comunque un questo o quello; dall’altra, la cattiva coscienza derivante dal peccato di essere in generale, e che è il rimorso essenziale della creatura finita, imperfetta e già metafisicamente colpevole prima di essere incorsa in qualsiasi colpa: questa colpa intelligibile e che nessuno ha commesso, questa colpa sostanzialmente paragonabile al peccato originale, occupa permanentemente l’impuro amor proprio e la coscienza compiacente, che ottenebrano tutte le nostre buone intenzioni; è la cattiva coscienza dell’essere nati, e anzi persino la cattiva coscienza di possederne una buona! Com’è possibile essere responsabili senza essere colpevoli – o meglio, come si può essere colpevoli senza avere fatto niente? Il paradosso della colpevolezza innocente e quello dell’angoscia noncurante si corrispondono l’un l’altro. L’angoscia, infatti, sta alla preoccupazione come la colpevolezza innocente sta a quella colpevole, e il pudore di essere alla vergogna di aver fatto, e la responsabilità anteriore a quella conseguente… Il pudore non è forse vergogna di tutto e di niente, vergogna generica priva di causa vergognosa e insomma al di qua del peccato? L’angoscia morale della cattiva coscienza e la cattiva coscienza ontologica dell’angoscia, la prima nell’ordine dell’immotivato, la seconda in quello dell’immeritato, non costituiscono due varianti di uno stesso paradosso? Per quanto infondati, qualsiasi sentimento, ogni predilezione, anche la piú assu...