Nella mente di un terrorista
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Nella mente di un terrorista

Conversazione con Omar Bellicini

  1. 128 pagine
  2. Italian
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Nella mente di un terrorista

Conversazione con Omar Bellicini

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L'Isis, fondata nel 2014, definisce un fenomeno ma anche un'organizzazione. Ne abbiamo appreso gli slogan, le conseguenze, di rado le cause geopolitiche, mai le ragioni profonde che spingono migliaia di giovani ad aderire alla lotta armata, rinunciando alla vita. Questo libro racconta i loro perché, finora sorprendentemente trascurati. E lo fa attraverso l'incontro con una teoria dell'inconscio che ha approfondito, piú di altre, il rapporto tra la società e le scelte individuali: la psicologia analitica di Carl Gustav Jung, una scuola di pensiero tra le piú significative del Novecento. Un insegnamento che parte da un presupposto: nessun uomo è un'isola. Luigi Zoja è un'autorità internazionale nel campo della psicoanalisi junghiana. In questo volume, a colloquio con Omar Bellicini, redattore italo-algerino con un'esperienza di vita divisa tra le due sponde del Mediterraneo, ci porta a comprendere i motivi profondi che sono alla radice dell'odierna violenza islamista.

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Informazioni

Capitolo secondo

Identikit del terrore

Chi vede un gigante esamini il sole, magari è l’ombra di un pigmeo.
NOVALIS, Frammenti
BELLICINI Il profilo di questi nuovi jihadisti è di particolare interesse: nei territori sotto il controllo dell’Isis, si tratta in buona parte di foreign fighters1 o di appartenenti a minoranze religiose come i sunniti iracheni; in Europa, i terroristi sono prevalentemente figli di immigrati di seconda o terza generazione. Sembra che la rivendicazione identitaria sia una componente fondamentale di questo fenomeno. Se ne può trarre qualche conclusione?
ZOJA Stando al suo primo riferimento, verrebbe da chiedersi quanto i sunniti2 iracheni si percepissero come minoranza, sino a qualche tempo fa: penso che il rapido cambio di prospettive abbia sicuramente inciso su molti equilibri. Non solo politici. Al di là di questo, l’elemento piú insidioso resta il nazionalismo. Sia il lungo dominio inglese, sia poteri locali come quello di Saddam, avevano tenuto sotto traccia frizioni che ora sono esplose. Tuttavia, l’idea di maggioranze che rispettino i diritti di tutti, o addirittura di società in cui tutti siano una minoranza rispettata, non è inconcepibile. Pensi alla Svizzera: nonostante le ventate xenofobe, è un paese di questo tipo. Cosí come quella realtà arcaica e stranissima che andava sotto il nome di Impero austro-ungarico: un meraviglioso contenitore di dibattito culturale, che senza il tracollo della Prima guerra mondiale, forse, avremmo ancora. Naturalmente, anche in quel contesto le diverse componenti etniche si dimostravano piuttosto riottose. Sono interessantissime le descrizioni dell’Università di Vienna di quel periodo: un susseguirsi di manifestazioni e scontri fisici. Una specie di perenne Sessantotto. Ma si trattava anche di una fucina di pensiero, in cui la volontà di trovare un punto d’incontro era molto sentita. Come, del resto, nell’Impero ottomano prima dell’avvento del turchismo. Penso che la sfida consista nell’accettare che siamo tutti minoranza, al di là dei numeri piú o meno consistenti o della priorità storica con cui ci si è insediati in un determinato territorio. Oggi è piú che mai importante, per favorire una serena elaborazione identitaria. Per questo andrebbe salvaguardato lo straordinario esperimento dell’Unione europea, che viene ridotta troppo spesso alla sua dimensione economica. È una drammatica miopia: l’Unione è prima di tutto un baluardo antiparanoico.
BELLICINI Credo che molti condividano le sue aspirazioni. Tuttavia, il grande contenitore di cui parla presta il fianco a un malinteso: la coesistenza può tradursi in un dialogo tra le varie componenti, in un’apertura alla diversità. Ma è altrettanto possibile che si tratti di semplice coabitazione. O di una formula piú sfumata e per certi versi insidiosa: la tolleranza.
ZOJA Ha ragione. Sarebbe ingenuo non riconoscerlo. Ma sarebbe altrettanto fuorviante esagerare nella direzione opposta, sostenendo che il multiculturalismo ha del tutto fallito. È diventata un’affermazione alla moda e la si sente in molte occasioni, ma con tutti gli effetti collaterali che possiamo individuare, dobbiamo ammettere che si tratta ancora del modello piú adeguato. Parafrasando il celebre discorso di Churchill sulla democrazia: «È il peggiore dei sistemi politici, eccettuati tutti gli altri».
BELLICINI Però desta preoccupazione che Francia e Regno Unito, i paesi europei storicamente piú attrezzati per fronteggiare le conseguenze dell’immigrazione, non abbiano trovato una soluzione efficace. La prima – forte di un modello integrazionista, teso a imporre una visione ultralaica di valori prettamente francesi – è fra i bersagli maggiori del terrorismo d’importazione. Il secondo – improntato alla pragmatica coesistenza fra tradizioni diverse – sta subendo enormi contraccolpi politici, per lo spaesamento che sembra essersi diffuso fra i suoi cittadini. Penso in particolare alla «Brexit». Insomma: risposte antitetiche, ma entrambe insufficienti.
ZOJA È innegabile: sia la volontà civilizzatrice della Francia sia il liberalismo britannico, piú che permissivo finché non si turbano gli interessi di Londra, hanno mostrato in piú di un’occasione i propri limiti. Esiste un problema di fondo. Lo affronteremo parlando dell’Italia. Consideri questo: noi abbiamo avuto la fortuna di perdere una guerra disastrosa. Le parrà un paradosso, ma la disfatta ci ha giovato, insegnandoci qualcosa. Francia e Regno Unito hanno vinto, e nell’inconscio collettivo, ma anche a un livello piú consapevole di cultura diffusa, è rimasta l’impronta postcoloniale. Un’impronta che si concretizza in una vocazione globale, appena taciuta. Ecco, simili vocazioni hanno delle conseguenze, se non altro in termini di gestione dell’immigrazione. È difficile correggere un rapporto che nasce viziato.
BELLICINI Passiamo oltre. Un elemento che salta subito all’occhio, trattando di terrorismo islamista, è la giovane età di molti attentatori, miliziani e simpatizzanti. Possiamo ricavarne qualche spunto di riflessione? Lo dica con franchezza: i giovani sono psicologicamente piú esposti alle seduzioni del radicalismo?
ZOJA Senza dubbio. È l’età dell’incanalamento graduale verso la vita adulta e non deve sorprendere che la psiche sia piú fragile nei confronti della propaganda. Nell’era premoderna la maggior parte delle civiltà si affidava a riti di passaggio, che accompagnassero i giovani verso la maturità. Era una soluzione utile soprattutto al sesso maschile, che non disponeva di una tappa naturale come il menarca. La società suppliva con l’attribuzione ai ragazzi di nuovi compiti. Per esempio la funzione di cacciatore, che consentiva di sfogare l’aggressività individuale, nobilitandola come un’attività socialmente utile. Tutto questo è completamente scomparso. È un tema che ha strettamente a che fare con l’identità maschile e con il tramonto del modello paterno tradizionale. Certamente, per gli adolescenti maschi del nostro tempo lo smarrimento è piú forte che in passato. Trovare un compito eroico ancora praticabile può essere una tentazione irresistibile. In fondo, anche i giovani senza valori religiosi presentano spesso atteggiamenti di smaccata sfida alla morte. Pensi alle tossicodipendenze3. Sembra una questione molto distante da quella di cui discutiamo, ma lo è davvero? Non credo. Anche senza abbracciare comportamenti patologici, pensi al ruolo che ricopre il motorino per tanti ragazzi. Piú che un veicolo per spostarsi è spesso la riscoperta di una dimensione epica, con le impennate, le gare, le corse a fari spenti: atti che possono rappresentare un pericolo per sé e per gli altri. Che senso hanno? Lo stesso di quando si rischia la vita per difendere il proprio gruppo di appartenenza, vero o presunto. Spesso è solo l’occasione a determinare la differenza tra una scelta e un’altra, tra un comportamento rischioso e un suo omologo.
BELLICINI Se ho ben capito, sta facendo riferimento al cupio dissolvi: il desiderio di morte che si contrappone all’istinto di autoconservazione. Sigmund Freud fu il primo a soffermarsi su questo lato del carattere, all’apparenza innaturale. È senza dubbio uno spunto interessante, ma le chiedo di approfondire un altro elemento, che a mio parere è rimasto in sospeso: il ruolo del padre. La cultura occidentale ha visto via via attenuarsi la sua funzione, e questo è un elemento di divergenza rispetto alla natura spiccatamente patriarcale della cultura islamica. Questa difformità ha delle implicazioni?
ZOJA Fughiamo subito un eventuale malinteso: la funzione paterna può anche essere svolta da una donna. In Italia, le madri l’hanno esercitata a lungo, supplendo all’assenza dei padri. La paternità va intesa in termini di archetipo psicologico, come presenza di un’autorità che amministri i limiti. Potremmo definirlo un ruolo di proibizione, che è stato per molto tempo appannaggio dei padri. Ora il quadro è mutato: entrambi i genitori hanno spesso un atteggiamento collusivo nei confronti dei figli adolescenti. Se le cose a scuola vanno male, si fiondano a contestare l’insegnante, invece di punire il ragazzo. Mi creda: non è solo un luogo comune. Il contenimento familiare quasi non esiste piú. Tornando all’esempio del motorino, è inutile dire: «Io te lo compro, ma tu non correre». È evidente che il giovane lo desideri proprio per correre. Bisogna fare scelte serie. Quanto al tema centrale della sua domanda, ricordo una delle mie prime letture universitarie di ambito psicologico: Fuga dalla libertà, di Erich Fromm. Descriveva in maniera piú che attendibile il meccanismo di nascita dei fascismi. Ebbene, esiste un parallelismo tra la figura paterna, nella sua dimensione privata, e i simboli sociali che la rappresentano. Gli autoritarismi, di destra o di sinistra, laici o religiosi, sono anche una riformulazione dell’identità maschile: rappresentano il maschio alfa – un maschio con le zanne, cosa diversa dal padre – che torna per dominare sul branco. Tenga a mente questo: la paternità è stata una forma di monoteismo a uso familiare. Una struttura forte, che non è stata rimpiazzata. Un vuoto di certo si avverte.
BELLICINI Scorge dunque una corrispondenza tra il consenso prestato ai fascismi, nel Novecento, e l’adesione a forme di religiosità radicale, nel XXI secolo?
ZOJA Precisamente. Senza cadere negli eccessi del Sessantotto, per cui tutto ciò che è personale è politico e tutto ciò che è politico è personale, esistono forti zone di sovrapposizione tra i due piani. E questo, come analista junghiano, lo giustifico con l’idea di inconscio collettivo. Ricordiamoci che l’inconscio individuale riproduce, almeno in parte, le tematiche collettive con cui viene in contatto. I miti mobilitano la società nella sua interezza, ma prima di tutto smuovono gli individui. Fatta questa premessa, mi sembra che il fondamentalismo islamico incarni anch’esso una nostalgia nei confronti della società patriarcale. Anche se non procede verso una sua riedizione: all’uomo arcaico non corrisponde solo l’immagine del prevaricatore, ma anche quella del protettore della famiglia e degli affetti. Nell’ambito del radicalismo, invece, prevale la dimensione puramente aggressiva del maschile. Lo si riscontrava già ai tempi del predominio di Al-Qaeda4. Lo si vede ancora piú chiaramente nell’Isis5. Pare, anzi, che sia avvenuta una regressione verso fasi ancora piú adolescenziali, ben lontane da un’identità forte, protettiva e adulta come quella patriarcale – costruttivamente intesa. Basti guardare la biografia di molti attentatori.
BELLICINI Ci arriveremo. Ma prima le propongo uno spunto: l’affiliazione all’estremismo organizzato non potrebbe essere, all’opposto, una forma di ribellione verso i padri, ritenuti responsabili della situazione di disagio da cui provengono numerosi terroristi? È stato detto anche degli «anni di piombo», da una firma autorevole come Olivier Roy.
ZOJA Non credo, se non in misura limitata, alla tesi dello scontro generazionale. Penso si tratti, piuttosto, di uno shock culturale. Non rida, ma nel fenomeno del radicalismo rivedo, piú che altro, l’esperienza di Colombo.
BELLICINI Cristoforo Colombo?
ZOJA Sí, il navigatore genovese. Alla fine del 1492, prima di tornare in Spagna, al termine del suo primo viaggio, lasciò un piccolo presidio nell’isola detta Española (oggi Haiti). Sino a quel momento i contatti con gli indigeni erano stati pacifici. Colombo ne parlava con toni elogiativi, scrivendo alla Corona. Al suo ritorno, gli uomini del presidio erano morti. Tutti. Stando alle ricostruzioni, non erano riusciti a ottenere ciò che desideravano: non solo cibo, ma anche le donne del posto. Gli scontri culturali piú complessi possono, infatti, essere legati al controllo della sessualità femminile. Un tema, fra l’altro, bruciante per quel che concerne l’Isis. Ad ogni modo, in quell’occasione ci fu un chiaro scontro fra identità maschili: e in quel breve periodo iniziale delle esplorazioni europee i maschi indigeni erano ancora i piú forti. Da quel momento in poi, la percezione reciproca cambiò.
BELLICINI Credo di aver colto la metafora: l’approccio benevolo iniziale corrisponde al rapporto con l’Europa delle prime generazioni di immigrati islamici; lo scontro con gli indigeni riecheggia l’atteggiamento delle seconde e terze generazioni, che si sentono tagliate fuori da un benessere fortemente desiderato e reagiscono con strumenti piú violenti di quelli dei padri.
ZOJA È corretto, almeno in termini generali. Ma potrebbe essere riduttivo concentrarsi troppo sugli aspetti materiali. Pur migliorando le condizioni, le seconde o terze generazioni restano ai gradini piú bassi delle società in cui cercano di integrarsi. Se invece rivalutano la propria identità etnica e religiosa, scoprono con stupore di poter guardare gli europei con fierezza, addirittura dall’alto. E non completamente a torto. Si gonfiano di disprezzo per i nostri obiettivi effimeri, egoisti, e per il nostro materialismo. Soprattutto in campo sessuale. Dobbiamo anche considerare la globalizzazione. È un fattore inedito nella storia dell’uomo: non era mai avvenuto che tutte le civiltà comunicassero tra loro. L’Islam finisce gomito a gomito con l’Occidente in ogni angolo del mondo. Resta da stabilire se sia un elemento di avvicinamento o di ulteriore destabilizzazione. Stando alla cronaca, si potrebbe propendere per la seconda ipotesi, ma non bisogna lasciarsi andare a valutazioni frettolose: il cammino dell’evoluzione ha tempi lunghi.
BELLICINI Mi perdoni se insisto, ma in questo nuovo modello terroristico la componente familiare è certamente rintracciabile. Fra gli attentatori occidentali troviamo regolarmente coppie di fratelli che si radicalizzano insiem...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Giornalisti, tartarughe e tagliagole di Omar Bellicini
  4. Introduzione. di Luigi Zoja
  5. Nella mente di un terrorista
  6. I. Il grande silenzio
  7. II. Identikit del terrore
  8. III. Il nostro tempo
  9. IV. World wild web
  10. V. Ritorno al futuro
  11. Indicazioni bibliografiche
  12. Sitografia
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright