Lavoretti
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Lavoretti

Cosí la sharing economy ci rende tutti piú poveri

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Cosí la sharing economy ci rende tutti piú poveri

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La domanda da cui parte questo libro è: perché di colpo, è diventato necessario arrotondare? Staglianò racconta il progressivo e sin qui inesorabile svuotamento del lavoro. A partire dagli anni Ottanta il suo valore ha cominciato a degradare rispetto al capitale e da allora la caduta non si è mai arrestata. Dal racconto del presente l'autore individua i principali snodi di questo declino, dal pugno d'acciaio di Reagan contro i controllori di volo alla guerra della Thatcher ai sindacati. Dalla delocalizzazione alla moltiplicazione dei contratti atipici. Dall'automazione che affida alle macchine ciò che prima facevano gli uomini, fino alla gig economy, altro che sharing, che, sotto la maschera della flessibilità, sta istituzionalizzando i "lavoretti", distruggendo nel frattempo la società cosí come la conosciamo. Perché Uber, Airbnb e gli altri pagano tasse risibili nei Paesi dove producono ricchezza, impoverendoli ulteriormente e costringendoli - se non prendiamo radicali contromisure - a un futuro senza welfare. Che aumenterà il bisogno di lavoretti per arrotondare, in una spirale senza fine.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858427774
Argomento
Economia
Capitolo primo

Uber

Mary Joy, che accetta la corsa mentre sta per partorire.

La sera del 21 luglio la ventiquattrenne Mary Joy Clarence Cabarle, condannata all’ottimismo sin dal nome, sta guidando per le strade di Chicago. Da qualche tempo lavora per Lyft, la compagnia di ride sharing nata nel 2012 nel tentativo di fare concorrenza a Uber con un’immagine meno muscolare (le auto sono riconoscibili da baffoni a manubrio di peluche, color fucsia, che gli autisti sono invitati a sistemare sul muso della vettura). È reduce da un discreto numero di ore di mentoring per la medesima compagnia, ovvero di affiancamento per le nuove reclute che vogliono entrare a far parte della famiglia in forte crescita del ride sharing. Col mentoring però fai meno soldi che a guidare e Mary Joy si sentirebbe in colpa a dichiarare chiusa la giornata. La circostanza alla quale, invece, decide di prestare meno attenzione è di essere al nono mese di gravidanza. Dopo aver imbarcato un paio di clienti comincia a sentire delle contrazioni. «Poiché mancava ancora una settimana allo scadere del tempo, – ricostruirà la vicenda Lyft nel blog aziendale, – pensò che si trattasse solo di un falso allarme e continuò a guidare». Le contrazioni però si intensificano e Mary Joy prende la via dell’ospedale. Senza uscire dalla app che la dà come sempre in servizio. «E, come volevasi dimostrare, ping! ricevette una richiesta di corsa mentre si dirigeva al pronto soccorso». Che lei, diligente, accetta. «Fortunatamente» commenta con comicità involontaria il redattore aziendale, si è trattato di una corsa breve. All’ospedale confermano che sta per partorire. Nonostante la scellerata digressione tutto va per il meglio. Una foto di Maven Mia, la splendida neonata sorridente in una tutina marchiata Little Miss Lyft, illustra il post che si chiude con un invito: «Avete un’eccitante storia che ci riguarda che amereste condividere? Twittatela a @lyft_CHI». Ma è davvero «eccitante» l’aggettivo che usereste per la storia che avete appena letto?

Impiegata modello o mamma temeraria?

Nelle disarmanti intenzioni dell’azienda si trattava di celebrare un’impiegata modello disposta, quando il cliente chiama, a mettere in secondo piano tutto, compresa la vita sua e della nascitura, per un pugno di dollari. Molti lettori però sono rimasti inorriditi di fronte a tanta ingenuità di pubbliche relazioni tant’è che oggi il post è stato rimosso e la ricerca con i nomi delle eroiche mamma e figlia non restituisce alcun risultato. «Guarda che bel lavoretto! Puoi fare soldi facili con Lyft in qualsiasi momento, anche quando la tua cervice si sta dilatando», ha commentato «The New Yorker» in un articolo sulla sgangherata etica del capitalismo della gig economy. Perché, vale la pena ricordarlo, Lyft – come Uber, Deliveroo, TaskRabbit e la maggior parte delle piattaforme – non paga ai suoi autisti né la malattia né tanto meno la maternità. Si limita, pensando che la cosa sia in qualche modo compensativa, a regalare in questi casi estremi una bella tutina brandizzata per la piccola, inconsapevole testimonial.
Ho cercato Mary Joy e l’ho rintracciata via Facebook. È una ragazza minuta, con lunghi capelli neri e un bel viso, nata nelle Filippine e a un certo punto emigrata negli Stati Uniti. La foto principale della sua pagina social annuncia la sua filosofia: «Sii contenta di quello che hai, mentre cerchi di ottenere quello che vuoi». Sotto, in un riquadro, si vede lei di spalle, con un top a rete, mentre canta impugnando un microfono targato Lyft in quello che dev’essere un evento aziendale. Dopo il salto nel cerchio di fuoco è diventata una specie di celebrità, una figura aspirazionale per i colleghi. Per il resto la pagina è tappezzata di foto e struggenti dichiarazioni d’amore alla bambina. Da ragazza madre condivide anche trucchi con altre giovani genitrici, come incidere il ciuccio in modo da evitare che i figli si strozzino (è piú facile capire guardando le immagini che spiegandolo per scritto). Ogni tanto si lascia andare a fugaci momenti di nostalgia per una vita piú rilassata che, a occhio, non deve aver mai vissuto («Sono stata cosí affaccendata a sopravvivere che ho dimenticato come si fa a vivere» è la frase piú ricorrente). Contattarla è stato semplice, con un messaggio via Messenger, parlarci molto meno.

Riposarmi? Forse un giorno. Intanto grazie Lyft, che mi paghi i pannolini.

Perché Mary Joy apparentemente non ha un minuto libero. «Tra le ore che guido e quelle in cui addestro i nuovi autisti ciò che resta è giusto il tempo per schizzare a casa dalla mia piccolina», mi ha risposto in una piccola sequela di fumetti blu: «Gli unici momenti in cui respiro sono la domenica e il lunedí, quando in teoria stacco. Possiamo provare a sentirci allora». In teoria. Ci siamo dati un appuntamento generico, per la settimana dopo, ma poi è sparita. Le ho scritto un altro paio di mail, invano. Le ho anche riscritto via Messenger, ma niente. Dubito che abbia qualcosa contro di me, piú probabilmente Lyft l’ha sconsigliata di parlare troppo con i giornalisti se non sotto la loro supervisione. O forse ha semplicemente cose piú pressanti da fare, tipo portare la bimba al parco giochi, come racconta in altri post. Con l’indigenza di tempo libero con la quale combatte non mi sento certo di biasimarla. È comunque un peccato perché sarebbe stato bello sentire se continuava a sembrarle normale, a distanza dagli eventi, aver fatto ciò che ha fatto. Se è sufficientemente tranquilla nella sua precarietà e se preferirebbe essere assunta dall’azienda verso la quale, a giudicare dal profilo social, mostra un forte attaccamento. E che, sebbene non ci pensi neanche a riconoscerla come dipendente, l’ha comunque «promossa» (cosí mi ha detto nel nostro breve scambio iniziale) e fa sí che lei possa comprare i pannolini e gli omogeneizzati per la pupetta. Mary Joy non è neppure particolarmente originale in questa attitudine. Perché, in tutta onestà, delle decine di autisti Uber che ho intervistato da Denver a Helsinki, da Toronto a Londra, da New York a San Jose, pochi erano gravemente scontenti (anche se pochissimi durano piú di un anno). Perché nessuno, e con questo dato di realtà bisogna fare i conti, li ha obbligati a percorrere quella strada. Lo hanno fatto di loro spontanea volontà per soddisfare una serie di basilari bisogni economici. La domanda che resta sospesa, e di cui sembrano avere scarsa consapevolezza, è piuttosto un’altra: perché, di colpo, hanno avuto bisogno di arrotondare? E ancora: cosa si è rotto nella società per far sí che l’altro lavoro, quello principale che fa la stragrande maggioranza, non basti piú da solo a farli campare tranquilli?

Kalanick, il ragazzo che non batte ciglio di fronte a 250 miliardi di multa.

Prima di provare a rispondere alla domanda delle domande (com’è che Uber, in circa sei anni, è passata da zero a una valutazione di quasi 70 miliardi di dollari, la startup piú ricca della storia?) conviene acclimatarsi con la biografia del suo fondatore. Travis Kalanick nasce a Los Angeles nel 1976 da una madre che lavora nel dipartimento pubblicità di un giornale e un padre ingegnere civile. Classe media, niente di troppo luccicante. Il ragazzo è bravo nelle materie scientifiche. Ha un occhio aguzzo nel riconoscere i pattern, le tendenze ricorsive in tutta una serie di fenomeni. Ancora adolescente si appassiona allo studio del traffico delle strade leggendariamente congestionate della California meridionale (avete mai guidato da Los Angeles a San Diego? Immaginate la coda al casello di Settebagni, per entrare a Roma la sera di Pasquetta, moltiplicata per 200 chilometri). C’è, nei flussi caotici del traffico, un elemento di oltraggio per le teste squadrate, logiche al limite del sospetto di Asperger se anche il giovane Bill Gates esordí nel business a sedici anni vendendo al Comune di Seattle un sistema di sua invenzione (Traf-O-Data) per misurare il numero di auto che passavano da alcune strade cittadine. Con il fondatore di Microsoft quello di Uber ha anche in comune l’aver abbandonato un’università importante, Harvard nel caso del primo, Ucla in quello del secondo. Il richiamo della foresta imprenditoriale è troppo forte. A ventidue anni fonda Scour, una piattaforma per lo scambio di file multimediali tra privati. Pensate a Napster, ma un anno prima. Alle associazioni di tutela della proprietà intellettuale di cinema e musica va il sangue al cervello e riescono a fargli comminare una multa proporzionata al valore delle royalty violate. Il totale fa 250 miliardi di dollari. Immaginate se a vostro figlio universitario arrivasse una cartella esattoriale di Equitalia di quella magnitudine. Immaginate pure la vostra reazione da adulti, se è per quello. Travis invece non batte ciglio. Fa bancarotta personale e non paga un dollaro. Pensa piuttosto a come affinare il concetto per non incorrere di nuovo nei rigori della legge. La versione a prova di magistrato si chiama Red Swoosh ed esordisce nel 2000 per poi essere venduta ad Akamai per 23 milioni di dollari sette anni dopo. Visualizzate ancora il vostro primogenito che, a 24 anni, si trova sul conto quella cifretta. Il giovane Kalanick non si mette comodo.

Uber, dall’idea all’esecuzione.

L’idea decisiva gli viene una sera sul boulevard Saint-Germain a Parigi, dove è andato a trascorrere qualche giorno di vacanza con l’amico e imprenditore seriale Garrett Camp. Piove: c’è bisogno di un taxi. Alza la mano pensando di essere a New York ma non succede niente. La pazienza, già all’epoca, non è il suo lato migliore. «Pensa che bello se ci fosse una app che tu ci clicchi sopra e, senza bisogno di sapere né lingua né niente, l’auto arriva e ti porta a destinazione per un importo noto in anticipo». Conoscete tutti la celebre battuta di Arthur C. Clarke, secondo cui «ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia». Ecco, Travis pensava a quella cosa lí. Tornano a San Francisco e realizzano insieme la app. La prima versione che esordisce nel 2009 si chiama UberCab ma i tassisti locali si mettono di traverso: «Cabs siamo noi, e solo noi, che abbiamo pagato decine di migliaia di dollari per la nostra licenza, il medallion». I due giovanotti prima fanno resistenza ma poi capiscono che non possono impiccarsi su tre lettere. Il 2010 è quindi l’anno ufficiale di nascita di Uber, senza altri sostantivi.
Quello del trasporto privato è un settore che è rimasto tale e quale, con ampi margini di inefficienza, da troppi anni. Quindi il candidato ideale a essere rivoluzionato, sconvolto, disrupted nella parola che coincide col Punto G del venture capital. Marc Andreessen, l’inventore di Netscape diventato finanziatore, mette sul tavolo 200 milioni di dollari per una quota del 12 per cento dell’azienda. Kalanick è lusingato per l’epica che circonfonde l’interlocutore ma non lo dà particolarmente a vedere: «Grazie, ma non svendo». Uno che lo frequentava all’epoca ne fornisce un ritratto psicologico inconfutabile: «Non puoi essere un disrupter senza essere uno stronzo».

La startup piú ricca di sempre.

Sta di fatto che, in poco piú di un lustro, inanella una serie di record. Buoni e cattivi, mai trascurabili. Raccoglie un fiume di denaro: 16 miliardi di dollari di finanziamenti, tra contanti e obbligazioni. Non ancora quarantenne diventa la sessantaquattresima persona piú influente del mondo nella classifica di «Forbes». Però è sempre la rivista economica, che vede in lui la personificazione degli animal spirits del capitalismo senza lacci che tanto eccitano il suo direttore Steve (rampollo della dinastia omonima, per due volte trombato alle primarie repubblicane) a calcolare che la startup avrebbe chiuso il 2015 con un rosso di 2 miliardi di dollari (su un fatturato di 5). Il nuovo mantra è: prima pensa a crescere, poi ai profitti. Parliamo di un impero che si estende su 450 città per 73 Paesi, dove circa 40 milioni di persone ogni mese salgono a bordo di un’auto Uber e percorrono 1,9 miliardi di chilometri, ovvero 35 volte la distanza fra la Terra e Marte. E soprattutto, nella prospettiva che ci sta piú a cuore, diventa il «terzo datore di lavoro al mondo» dopo Walmart e McDonald’s, già noti beniamini del giuslavorismo globale. Da dove lo tirava fuori, la rivista liberista, questo primato dal momento che i dipendenti risultano circa 12 000? Dal milione e mezzo di autisti che, in un modo o nell’altro, sbarcano il lunario anche grazie alla app. Ma il problema sta proprio lí. «Forbes» ha ragione quando dice che Uber è il loro datore di lavoro de facto, torto marcio quando li assimila a dipendenti. Con questi ultimi, quanto a diritti, i cottimisti della cosiddetta sharing economy non condividono un bel niente. Con la ricchezza di Kalanick, che col 10 per cento delle azioni dovrebbe ammontare ai 7 miliardi dollari già citati, ancora meno. Eppure c’è chi, caparbiamente, continua a chiamarla cosí.

Sharing, fiducia e altre imposture.

Ogni rivoluzione ha bisogno dei suoi cantori. Di gente che sappia vestire di parole giuste cambiamenti rischiosi, talvolta violenti, che altrimenti non ci sogneremmo di realizzare. Il cambio di paradigma di cui stiamo parlando non fa eccezione. Una cosa è definirla gig economy, economia dei lavoretti o on demand economy o ancora platform capitalism. Altra è invece battezzarla economia della condivisione. Nessuno si scalda di fronte a una piattaforma, mentre condivisione è l’opposto di egoismo. È quello che vorremmo essere: altruisti e non meschini. È la porta stretta che ci conduce nei pressi della virtú teologale della carità, quella per cui dobbiamo amare il prossimo come noi stessi. Insomma, se la abbracciamo non solo rimpinguiamo i nostri magri conti in banca ma ci avviciniamo a Dio. Il tutto con un paio di clic su una app. Questa sí che è una rivoluzione! Quando il concetto viene formalizzato, intorno al 2010, il termine scelto è piú onesto ma burocratico: consumo collaborativo. «Time» lo include tra le dieci idee che cambieranno il mondo: «La scelta intelligente di oggi è: non possedere. Condividi!» L’autore dell’articolo gli ascrive una serie di efficienze economiche prima di calare l’asso: «Il vero beneficio del consumo collaborativo è di tipo sociale. In un’èra in cui le famiglie sono sparpagliate e magari non conosciamo neppure il nostro vicino di casa condividere cose, anche con estranei che abbiamo appena conosciuto in rete, ci permette di stabilire delle connessioni significative». Cita l’appena uscito What’s Mine Is Yours. The Rise of Collaborative Consumption firmato da Rachel Botsman, una consulente aziendale, e da Roo Rogers, un imprenditore internettiano, forse il primo testo di riferimento fra i tanti che poi avrebbero incensato il fenomeno. Di fatto, anche per innegabili meriti di fotogenia, delle quattro mani che lo vergano la stampa si occuperà solo di quelle sapientemente curate della Botsman. Lei spiegherà al colto e all’inclita, con parole chiare e sorriso magnetico, che il nuovo approccio ha a che fare con il «riemergere della comunità» e la rinascita della fiducia tra le persone. Sí, perché se decidi di essere passeggero di uno sconosciuto al volante (Uber) o fai dormire in casa tua il Signor Nessuno (Airbnb) è solo perché senti di poterti fidare di lui. E lo senti perché entrambi hanno già avuto o sono stati clienti di qualcun altro che li ha valutati positivamente. Ti puoi affidare per motivi statistici, per una serie storica che ti tranquillizza.

Economicamente efficiente. Ambientalmente rispettosa. Socialmente giusta.

La sharing economy, nel racconto che edifica il mito fondativo, avrebbe solo vantaggi. Intanto è economicamente efficiente. È o non è vero, come denuncia uno studio della Columbia University, che un’auto resta ferma, parcheggiata a prendere polvere, in media il 92 per cento del tempo? Basta sprechi dunque: piuttosto prendiamola in affitto quando serve. Poi è ambientalmente rispettosa. Stavolta è Stanford a certificare che una vettura condivisa ne toglie da 9 a 13 dalle strade. Come se non bastasse chi rinuncia alla propria per una shared ha anche il piede meno pesante sull’acceleratore e, riducendo del 40 per cento i chilometri percorsi, inquina anche il 40 per cento di meno. Eccezion fatta per Trump e la sua accolita di negazionisti, chi potrebbe dirsi contrario a questa svolta verde?
Infine si rivela socialmente giusta. E qui tocca dare la parola a un signore già incontrato in Al posto tuo perché la sua testimonianza resta, a distanza di un paio di anni, insuperata quanto a coefficiente di faccia tosta. Parlo dell’inglese Douglas Atkin, nella sua prima vita esperto di marketing e autore di The Culting of Brands, sottotitolo Turn Your Customers into True Believers, un volume del 2005 in cui spiegava come trasformare i clienti in emissari, catechisti laici del proprio marchio, uomini-sandwich volontari. Dieci anni dopo, durante la due giorni del convegno Share a San Francisco, il Nostro dava conto della sua conversione con un outing fragoroso. «Noi crediamo che la sharing economy meriti di avere successo, – sillabava dal pulpito il venditore rinato, – perché porta una decentralizzazione della ricchezza, del controllo e del potere. Per questi motivi si tratta di un’economia migliore di quella che abbiamo conosciuto sin qui». Ce l’aveva col modello economico precedente, quello rozzo «della produzione e del consumo che aveva promesso tanto (indipendenza economica, libertà, realizzazione personale e anche felicità) e cronicamente mantenuto poco. Lo so personalmente perché io sono il diavolo, in verità. Ho lavorato nella pubblicità per decenni convincendo i consumatori – un termine che ho sempre odiato – che la felicità si potesse trovare in una carta di credito, in un’auto o in un preservativo. Forse nel preservativo, ma non sempre, e sicuramente non nel resto». Il pubblicitario convertito, oggi divenuto Global Head of Community di Airbnb, ovvero l’evangelista che spiega alle comunità e ai sindaci piú recalcitranti perché fare ponti d’oro al servizio di ospitalità tra pari sia un buon affare, dice quindi che «il nuovo modello merita di avere successo perché le vittime dell’ultimo modello (quello che ha osannato per una vita e che ha cospicuamente contribuito al suo conto in banca, pre-conversione), le comunità, il controllo e l’indipendenza economica sono elementi incastonati nell’infrastruttura stessa della sharing economy». Per tutti questi motivi, e chi non si fiderebbe di un uomo tanto disinteressato, «noi pensiamo che dovrebbe diventare il modello dominante nel mondo». Trasformare i clienti in credenti, un’altra volta. Sia fatta la sua volontà.

Ma, in pratica, cosa mette l’autista e cosa l’azienda?

Al di là delle belle parole, dei sentimenti oblativi che danno senza chiedere niente in cambio, guardiamo ai fondamentali dello schema Uber. Perché, se si accetta di farlo brutale, il riassunto è piuttosto se...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Lavoretti
  4. Prologo
  5. 1. Uber
  6. Prima crisi. 1979, dalla produzione alla finanza
  7. 2. Airbnb
  8. Seconda crisi. 2000, lo sboom della New Economy
  9. 3. Piattaforme
  10. 4. App & Startup
  11. Terza crisi. 2008, la Grande recessione
  12. 5. Vie d’uscita?
  13. Epilogo
  14. Ringraziamenti
  15. Il libro
  16. L’autore
  17. Dello stesso autore
  18. Copyright