Populismo sovrano
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Populismo sovrano

  1. 152 pagine
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Populismo sovrano

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Di fronte a problemi che nessun governo nazionale è in grado di risolvere, elettori e politici, sfiduciati verso la globalizzazione, inseguono le sirene del populismo. Spaventati dai fantasmi di una sovranità che sembra svanire, stiamo cosí distruggendo proprio quegli strumenti che ci consentirebbero di ricostruirla in un mondo che non è piú quello dominato dagli Stati nazionali. Frustrati per l'impressione di non riuscire a far sentire la nostra voce e di non avere piú il controllo sulle nostre vite, ci rassegniamo a uno stato di natura del tutti contro tutti, incapaci di quella fiducia reciproca - tra persone e nazioni - che ci permetterebbe di riprendere in mano il nostro destino. Si è rotto il compromesso della delega, nemica giurata dei populismi, travolta da referendum, progetti di uscita dall'euro e ostilità a ogni élite politica e tecnocratica. L'errore finora è stato cercare di preservare il patto sociale che ha retto l'Europa nel lungo Dopoguerra - integrazione come garanzia di pace e di prosperità - invece che dare alla sovranità condivisa una base di legittimità piú attuale. Che può essere soltanto protezione e identità, sicurezza e difesa dalle conseguenze della globalizzazione.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2018
ISBN
9788858427958
Capitolo secondo

I fantasmi della sovranità

Tra i molti fantasmi che si sono aggirati per l’Europa negli ultimi secoli, quelli della sovranità sono tra i piú recenti ma anche tra i piú avvistati. E tra i piú pericolosi, perché hanno spinto milioni di persone – anche nel cosiddetto establishment – a rimettere in discussione le fondamenta di quella cooperazione tra democrazie sulle quali si sono fondate la pace e il benessere dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi.
L’ossessione sovranista che ha sconvolto l’agenda della politica e dominato il dibattito pubblico si alimenta di molti elementi concreti e indiscutibili – se perdi il lavoro per colpa della concorrenza cinese o di un robot, ogni discorso sul bilancio complessivamente positivo della globalizzazione aumenterà soltanto la tua rabbia – ma anche di invenzioni, leggende, sospetti. Come tutte le leggende anche quelle sulla sovranità hanno un fondamento, si innestano su un evento reale per poi interpretarlo come un segno dei tempi, la piccola parte visibile di un grande disegno il cui autore è ignoto ma l’obiettivo è invece ben chiaro: sottrarre ai cittadini il potere di decidere del proprio destino, subordinare le loro esigenze a interessi occulti e, ovviamente, lontani, stranieri, globali. Per capire come superare queste ossessioni sovraniste, dunque, è proprio da qui che bisogna partire. Dai fantasmi della sovranità.

Il vero effetto della lettera della Bce.

Le elezioni sono un’illusione, dicono i sovranisti. Non bastano piú a garantire agli elettori la possibilità di incidere sul processo decisionale collettivo. Perché chiunque vinca deve applicare lo stesso programma, imposto dall’esterno. Questo fantasma della sovranità si fonda su eventi della storia recente di cui viene data una lettura funzionale a sostenere la tesi della democrazia espropriata. Il documento che ha alimentato le maggiori ossessioni sovraniste è la lettera che la Bce di Jean-Claude Trichet manda all’Italia nell’estate del 2011. Molti la considerano l’inizio di un commissariamento esterno, il programma unico trasversale alle forze politiche di sistema che viene per la prima volta esplicitato e al quale l’Italia deve adeguarsi, pena la fine degli acquisti straordinari di titoli di Stato che all’epoca erano vitali per evitare che l’aumento dei tassi d’interesse sul mercato obbligazionario portasse il Paese verso la bancarotta. Pareggio di bilancio anticipato, blocco del turnover nella pubblica amministrazione, clausole di salvaguardia che impongono tagli di spese automatici per coprire gli interventi di politica economica, riforma del mercato del lavoro per rendere piú semplici assunzioni e soprattutto licenziamenti. Non ci sono margini di trattativa.
Tuttavia, questo fantasma tecnocratico, che pare la perfetta sintesi di come poteri esterni alla dinamica democratica esautorino rappresentanti eletti e cittadini, guardato da vicino risulta piú impalpabile e sfuggente di come sembrava a distanza. In quella estate del 2011 segnata dai timori per lo spread – la differenza di rendimento dei titoli di Stato di un Paese rispetto a quelli della Germania – la Bce manda lettere a vari Paesi, dalla Spagna all’Irlanda. Soltanto quella italiana è divenuta di dominio pubblico perché soltanto in Italia c’era un interesse politico a rivelare questo vincolo esterno: grazie a quella lettera, firmata da Mario Draghi, ancora governatore della Banca d’Italia come garante della serietà degli impegni dal lato italiano, il traballante governo Berlusconi guadagna qualche mese di vita. Dopo la pubblicazione della lettera della Bce le manovre per insediare un governo tecnico, già avviate dal presidente della Repubblica dell’epoca, Giorgio Napolitano, si fermano: con un governo impegnato ad applicare un programma dettato dalla Bce, che bisogno c’è di cambiare il primo ministro? «Il governo e la maggioranza, dopo aver rivendicato la propria autonoma capacità di risolvere i problemi del Paese […] hanno accettato in questi ultimi giorni, nella sostanza, un governo tecnico. Le forme sono salve ma […] le decisioni principali sono state prese da un governo tecnico sopranazionale», scrive Mario Monti sul «Corriere della Sera» il 7 agosto del 2011, certificando che il «podestà forestiero» è già al potere e non c’è bisogno di un esecutivo tecnico quale quello che in quei giorni si stava costruendo intorno alla sua figura.
L’intervento esterno, quindi, paradossalmente consolida il governo politico evitando sia l’arrivo dei tecnici sia il pericolo, allora concreto, del dover fare ricorso ai finanziamenti europei di emergenza in cambio degli impegni firmati con la Troika (Ue-Bce-Fmi). Almeno per qualche mese, perché poi l’incapacità delle forze di maggioranza di trovare un’intesa sulle scelte fondamentali della politica di bilancio – in particolare la riforma delle pensioni – certificano la paralisi decisionale dell’esecutivo e innescano la rapida agonia dell’esperienza berlusconiana. E a novembre 2011 Monti deve farsi carico in prima persona di esercitare il ruolo del «podestà forestiero». Ma il bilancio democratico di quella fase resta ambiguo.
Ai sovranisti piace pensare al golpe deciso dall’esterno, che sottomette la volontà popolare alle esigenze dei mercati e ai disegni di conquista e sottomissione di qualche politico tedesco. La cronaca però racconta di un intervento esterno che tampona e maschera l’incapacità della politica di gestire una situazione originata anche e forse soprattutto da fallimenti tutti nazionali che avevano contribuito a una generale sfiducia sui mercati obbligazionari e nelle istituzioni sovranazionali.

Il complotto di Jp Morgan.

La leggenda sovranista che ha avuto lo sviluppo piú sorprendente in Italia è senza dubbio quella relativa al report di Jp Morgan. Una vicenda all’apparenza marginale, una polemica forse dimenticata ormai da tutti, la cui evoluzione è però molto indicativa di come certe sensibilità da tempo non siano piú confinate in certi siti o blog di nicchia ma siano diventate egemoni, contagiando tutto il dibattito pubblico, anche nelle sue declinazioni piú restie a derive nazionaliste.
Ogni giorno le caselle mail di giornalisti e operatori finanziari si riempiono delle analisi prodotte dalle banche o da altre istituzioni: commenti agli ultimi dati economici, previsioni, approfondimenti in vista di qualche appuntamento importante, talvolta analisi piú generali sulle tendenze dell’economia globale. Il 22 maggio 2013 la banca d’affari americana Jp Morgan diffonde un report simile a tanti altri, «La correzione della zona euro: circa a metà strada»; lo firmano sei membri del team di ricerca basato a Londra. Sarebbe passato inosservato come le altre migliaia di report prodotti ogni anno, se non fosse stato per una frase. Che i giornali italiani, per settimane, riassumono cosí: «La colpa della crisi? Le Costituzioni figlie dell’antifascismo»; «Troppa democrazia e la crisi resta»; «Jp Morgan shock: basta Costituzioni antifasciste». Sintesi un po’ libere di questo passaggio del report:
Nei primi giorni della crisi, si pensava che i problemi nazionali fossero soprattutto economici: Stati, banche e famiglie con troppi debiti, sfasamenti nei tassi di cambio reali interni e rigidità strutturali. Ma, col tempo, è diventato chiaro che ci sono problemi di tipo politico ereditati dal passato. Le Costituzioni e le soluzioni politiche sviluppate nella periferia meridionale dopo la caduta del fascismo hanno una serie di caratteristiche che sembrano inadatte a una ulteriore integrazione della regione.
Il ragionamento prosegue cosí:
I sistemi politici della periferia si sono sviluppati dopo l’esperienza della dittatura. Le Costituzioni mostrano una forte influenza socialista e i sistemi politici hanno alcune di queste caratteristiche: esecutivi deboli, Stati centrali deboli rispetto alle Regioni, tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori, sistemi di consenso che favoriscono il clientelismo; diritto di protestare se vengono apportate modifiche sgradite allo status quo politico.
Come si può osservare, l’esortazione alla politica ad abolire le Costituzioni antifasciste non è certo cosí netta come poi è stata raccontata. Eppure la storia della banca americana che chiede di smantellare le tutele democratiche costruite nel dopoguerra è diventata cosí popolare che qualcuno ha addirittura rintracciato in questo report di Jp Morgan la matrice intellettuale del tentativo di riforma della Costituzione italiana iniziato dal governo Letta, proseguito da quello di Matteo Renzi, con il progetto di revisione costituzionale poi bocciato dal referendum del 4 dicembre 2016. Da anni si racconta che la banca americana ordina e la politica italiana esegue, la grande finanza si irrita per le rigidità della democrazia e chiede di scardinarla, il parlamento prontamente obbedisce, mentre i cittadini sono costretti ad assistere impotenti. A rafforzare questa catena di causalità arriva poi la cronaca, con il governo Renzi che – dopo aver subordinato la Costituzione alle esigenze di Jp Morgan – si appoggia proprio a quella banca per impostare un salvataggio privato del Monte dei Paschi di Siena, nella speranza di evitare l’intervento pubblico. Il progetto sarà un fiasco, ma sembra il classico secondo indizio che diventa prova della presa di Jp Morgan sulla politica italiana.
«Il governo deve prendere una posizione ufficiale di difesa della nostra Costituzione rispetto a quanto dichiarato dalla JP Morgan, una delle piú potenti banche d’affari del mondo», chiedeva il Movimento Cinque Stelle dal blog di Beppe Grillo nel luglio 2013. A leggere quel report per intero si scopre che il contenuto è assai piú sfumato, molto analitico e poco esortativo. Gli analisti di Jp Morgan osservano che la gestione della crisi dell’eurozona segue un approccio imposto dalla Germania, secondo una «prospettiva inter-temporale»: i Paesi in difficoltà, come l’Italia o la Grecia, devono sforzarsi di risolvere i propri problemi di finanza pubblica, limitando il deficit e tagliando il debito, e soltanto una volta che avranno fatto la propria parte potranno chiedere una maggiore condivisione dei rischi e delle risorse a livello europeo. È la dottrina della «casa in ordine» che si applica fin dai tempi del trattato di Maastricht del 1992: l’integrazione economica tra Paesi è possibile soltanto se c’è una convergenza delle economie da far interagire, altrimenti gli squilibri determinano un trasferimento dei rischi (e spesso dei soldi) dai Paesi piú solidi a quelli piú fragili.
Chi contesta questo approccio sostiene che è inutile e controproducente pretendere che tutti i Paesi diventino uguali alla Germania in termini di conti pubblici e competitività prima di concedere aiuti o di condividere quei rischi che sono necessari a politiche coordinate, dalla gestione del debito a quella delle crisi bancarie agli investimenti per la crescita. Anche il report di Jp Morgan però evidenzia i limiti dell’approccio tedesco. La conclusione della banca americana è che ci sono soltanto due condizioni per cui la Germania può acconsentire a una maggiore condivisione di costi e rischi, per tenere unita la zona euro e dare una prospettiva all’Unione europea: se la sua ricetta funziona, cioè se tutti gli aggiustamenti contemporanei di debito pubblico, privato e salari a livello nazionale rendono i Paesi fragili piú competitivi, oppure se si crea «una insostenibile pressione politica e sociale intorno alla periferia» dell’Europa, cioè negli Stati del Sud. Jp Morgan non crede molto al primo scenario, quello del successo della «cura tedesca», e avverte gli investitori: c’è un’alta probabilità che si verifichi invece una lunga lista di effetti collaterali dovuti all’insoddisfazione degli elettori, provati dall’austerità imposta dall’esterno. Gli analisti prevedono il pericolo imminente di un «collasso del sostegno all’euro e all’Ue», il fallimento di molti governi riformisti (cosa che succederà di lí a poco in Grecia, per esempio), «la sostanziale ingovernabilità di alcuni Stati membri dell’Ue una volta che i costi sociali (in particolare la disoccupazione) avranno superato un certo livello». Scenari che in quel momento – maggio 2013 – Jp Morgan considera poco probabili ma che potrebbero verificarsi «nel giro di 18 mesi».
Non c’è l’auspicio di un sovvertimento delle Costituzioni antifasciste, dunque, ma un piú pragmatico allarme sulla insostenibilità dell’approccio tedesco – che a lungo è stato l’approccio europeo tout court alla crisi – e sulle reazioni che può generare tanta fermezza nel far espiare le colpe dei Paesi «indisciplinati». Alcune delle previsioni di Jp Morgan si sono rivelate clamorosamente sbagliate, per esempio che non ci fossero le condizioni per interventi straordinari della Banca centrale europea compatibili con le esigenze di consenso interno della Germania. Le previsioni circa le ripercussioni politiche dell’approccio tedesco alla crisi, invece, si sono dimostrate corrette.

Un vincolo alla politica.

In Italia è un dibattito con una lunga tradizione quello sul vincolo esterno, istituzionale o dei mercati, prima invocato per arginare una classe dirigente inaffidabile e poi contestato come cappio che soffoca le scelte di elettori ed eletti. Già nel 2002, quando la parola «sovranità» era uscita dal dibattito pubblico, lo storico Ernesto Galli Della Loggia ha scritto dalle colonne del «Corriere della Sera», il giornale che piú di tutti ha difeso la necessità di ogni vincolo esterno e delle grandi coalizioni necessarie per rispettarlo, che la degenerazione della politica e della società italiana è iniziata con il trattato di Maastricht nel 1992. Con quell’accordo si sono poste le basi della fase piú recente dell’integrazione europea, culminata nella moneta unica, ma anche del disfacimento del sistema politico italiano e della conseguente crisi di legittimità: «Oltre alla prima Repubblica è finita, negli anni Novanta, a causa di regole e limiti definiti in sede europea la piena sovranità nazionale in materia di moneta e di bilancio». E questo ha stravolto il contesto in cui si erano sempre mossi partiti e leader in Italia, una classe politica che «si è progressivamente trovata nell’impossibilità di disporre come un tempo di risorse significative ai fini del consenso (per esempio di operare la distribuzione a pioggia necessaria ad alimentare il consociativismo)», l’effetto collaterale di piú lungo periodo è stato però che «è cominciata a mutare la natura del dibattito politico». I vincoli di bilancio privano la politica della principale leva del consenso, l’autonomia (e la disinvoltura) nell’uso della spesa pubblica: con meno risorse da distribuire o redistribuire si riduce l’intensità dello scontro ideologico su argomenti concreti di politica economica, i programmi dei diversi partiti tendono a uniformarsi per rispettare i limiti invalicabili all’interno dei quali si deve svolgere la competizione e lo scontro si sposta altrove, sostiene Galli Della Loggia.
L’ascesa di leadership carismatiche si deve non soltanto al talento dei singoli protagonisti e alla loro capacità di sfruttare nuovi mezzi di comunicazione, ma anche al fatto che con meno controllo sulla spesa pubblica un leader ai propri elettori non può offrire molto piú che il proprio carisma. Il distacco dai temi piú tangibili e misurabili sposta il confronto tra forze politiche nel dominio delle questioni di principio, dove la polarizzazione può farsi estrema perché nessuna conseguenza concreta deriva dal professare idee radicali senza alcuna possibilità di attuarle. O meglio, nessuna conseguenza tranne una certa frustrazione degli elettori che prima vengono solleticati con promesse sempre piú miracolistiche e poi abbandonati a confrontarsi con l’assenza di risultati. Quel genere di frustrazione che spinge non a votare il partito concorrente di quello incapace di rispettare le promesse fatte, ma di ritirarsi dal gioco democratico oppure votare chi promette di rimetterne in discussione le regole. E se il carisma è decisivo e la concretezza delle promesse elettorali degradata a mero dettaglio, l’ascesa dei movimenti populisti e dei loro capi urlatori era soltanto questione di tempo.
Se questa analisi di Galli Della Loggia è corretta, non stupisce la popolarità che in Italia – e quasi soltanto in Italia – ha raggiunto il piú avvistato dei fantasmi della sovranità, quello dell’uscita dall’euro. La moneta unica è la gabbia che impedisce ai governi nazionali di avere una vera politica economica, dicono i sovranisti, perché li ha privati della leva del tasso di cambio, che permette ai prezzi di adeguarsi per rispecchiare la competitività dell’economia. Se non si riesce a rendere le merci piú economiche, svalutando la moneta, allora l’unica alternativa è abbassare i salari. Una politica monetaria condivisa da economie diverse comporta inevitabilmente una valuta troppo forte per alcuni Paesi – che non riescono a essere abbastanza competitivi e quindi hanno piú disoccupazione che con cambi flessibili – e troppo debole per altri, che esportano piú di quanto sarebbe coerente con la competitività delle proprie economie. La prosperità di alcuni Paesi, come la Germania, si deve anche alla presenza nell’unione monetaria di altri Stati piú deboli, come la Grecia.

L’uscita non democratica dall’euro.

Il dibattito sull’efficacia dell’euro, su come è stato costruito e su quali sarebbero le conseguenze di una sua rottura è lungo e troppo articolato per essere riassunto qui. Ma se uscire dalla moneta unica serve a ritrovare sovranità e dunque a recuperare il controllo sulla gestione dell’economia, stupiscono le conclusioni paradossali a cui arrivano coloro che inseguono questo fantasma in nome di una nobile battaglia per ripristinare la democrazia tradita dalle élite. Sul sito di Beppe Grillo viene pubblicata nel 2012 una «Guida pratica per lasciare l’euro», una ricerca di una società inglese, Capital Economics, cosí apprezzata da aggiudicarsi le 250 000 sterline del premio Wolfson Economics, il secondo piú remunerativo dopo il Nobel.
Come va organizzata l’uscita dall’euro? Una delle condizioni fondamentali secondo Capital Economics è tenere tutto segreto fino all’ultimo istante, per «minimizzare – o almeno posticipare – gli effetti distruttivi che potrebbero essere causati dalla rivelazione dei piani di un Paese per l’uscita». Sono pericoli ben noti: appena saputa la notizia di un imminente cambio di valuta che, almeno nei Paesi mediterranei, comporterebbe una svalutazione e quindi una perdita di potere d’acquisto, gli investitori stranieri ma anche i risparmiatori locali ritirerebbero i loro soldi dalle banche; poiché nessuna banca può sopravvivere a una «corsa agli sportelli», perché ha prestato a lungo termine capitali che i correntisti possono però richiedere a breve, il governo si troverebbe a dover scegliere tra fallimenti bancari a catena e il blocco dei flussi di capitale, e in entrambi i casi le conseguenze sull’economia reale sarebbero devastanti. Anche i prezzi degli immobili e dei titoli quotati in Borsa subirebbero un impatto immediato, perché il mercato sconterebbe all’istante la prospettiva di poterli rivendere soltanto in una valuta deprezzata. Questi effetti combinati, riconosce lo studio di Capital Economics, «potrebbero rendere piú difficile per un Paese lasciare l’euro in modo ordinato e con una pianificazione delle scadenze». Anche perché stampare banconote e monete di una nuova valuta è un processo molto fisico, molto complesso e quasi impossibile da nascondere ai mercati per i mesi necessari a realizzarlo.
C’è un dettaglio fondamentale: tenere segreti i piani per l’uscita dall’euro «impedirebbe una discussione ampia e il dibattito sul miglior modo di andarsene» e questo, inevitabilmente, «renderebbe impossibile o limiterebbe il coinvolgimento pubblico nella decisione, potenzialmente danneggiando il processo democratico e portando a disordini sociali e politici». Nessun dibattito parlamentare, nessun referendum, nessuna discussione aperta sui giornali e sul web, oppure si verificheranno tutti i disastri che i difensori dell’euro preconizzano. E si verificheranno prima dell’uscita e a prescindere da essa, non dopo, perché i mercati (e le persone) agiscono il prima possibile per minimizzare le conseguenze di eventi negativi attesi. Non si limitano ad aspettare per affrontarne le conseguenze dopo che si sono consumati. E i primi a mettersi al riparo dalle conseguenze anche soltanto potenziali dell’uscita dall’euro sarebbero proprio gli investitori professionisti, i risparmiatori piú sofisticati. Gli ultimi a reagire, vittime predestinate, quelli con meno capitali e minori conoscenze finanziarie. Quelli che avrebbero piú da perdere in caso di una inevitabile chiusura protratta delle banche, necessaria per evitare la corsa agli sportelli per prelevare e la conseguente crisi di liquidità. Cioè proprio coloro che sovranisti e ribelli antieuro dicono di voler proteggere dai disegni oppressivi del capitale finanziario e dei suoi chierici.
Dopo l’uscita dall’euro, anche gli investitori stranieri e tutti i partner commerciali congeler...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Premessa
  4. Ringraziamenti
  5. Populismo sovrano
  6. I. Il potere di decidere
  7. II. I fantasmi della sovranità
  8. III. La domanda di sovranità
  9. IV. Il tradimento dei sovrani
  10. V. Le scorciatoie della sovranità
  11. VI. Contro il «mito funesto»
  12. Conclusioni. Ricostruire la torre
  13. Riferimenti bibliografici
  14. Il libro
  15. L’autore
  16. Copyright