Di fronte al tempo, alle crisi, alle mutazioni esistenziali.
Magari sotto pressione, impotente, spesso isolato.
Comunque inadeguato al rapporto, ma lo stesso presente.
Decisamente depresso, e si vede, uno fa fatica però vive, trova strategie, si inventa.
Si tratta di reagire.
O al meglio: adattarsi.
Come si sta di fronte alle cose, quando peggio del rapporto con Uno, c’è solo il rapporto con gli Altri?
Lo sappiamo? Lo possiamo sapere? Esiste un IO generico guida?
Non so. Non mi pare. Da qui non mi azzardo alla teoria.
Passiamo allora allo studio di un caso.
Daria non esce piú. Da qui, dalla tana, constata che lei di umano ne conosce veramente solo uno, convivono nello stesso corpo, e a volte si distrae anche da lui. Se lo perde, non lo capisce.
Questa relazione fluttuante e disattenta spesso fa sí che si ritrovi a non essere contemporanea neanche di se stessa.
Un convivente, anche lui suo malgrado familiarizzato con l’umano di Daria, visto che ne dipende affettivamente, la richiama a lei e al tempo: la Figlia.
È lei che mantiene il mondo. Lei, Federica, è il suo Atlante domestico.
Tanto che a volte uno si chiede chi ha messo al mondo chi, in questa faccenda.
Nella casa in cui si muove con sua figlia, temporaneamente rinchiuse in cerca di un senso ritrovato, appaiono figure della soglia, abitanti del dentro-fuori, che irrompono e agiscono. Figure queste, tutte animate dalla stessa volontà: tirarla fuori. Si avvicendano sulla scena, strappandole alla loro intimità duettistica, l’analista, sua madre, la cameriera, suo marito.
Gente che sta piú fuori che dentro, ma a volte anche troppo dentro o troppo fuori.
Insomma, ma che ne sanno loro della fatica necessaria a snodare gli intrecci traumatici nascosti nelle geometrie del profondo?
Eppure.
L. C.
Post-scriptum obbligato sulla natura ciclica di «Origine». Ritratto accidentale di un interno infinito.
A volte i progetti che intraprendiamo hanno ambizioni tutte loro, indipendenti dalle nostre volontà iniziali; ambizioni che risultano velocemente superiori alle nostre aspettative.
Uno parte, e in generale la fatica è mantenere il movimento, senza che il cuore si fermi.
Questa volta invece ho come la sensazione di aver messo mano a una di quelle forme alimentate da linee forza inesauribili che senza sforzo traggono energia dalla materia-vita stessa. All’occorrenza la vita è la mia, ma come tutti, la incrocio spesso con quella degli altri e allora addirittura la forma si ramifica. I personaggi iniziali, una madre, la Figlia, la nonna, il marito, si alimentano al quotidiano di sfumature di pensiero estrapolate da vicenduzze concrete: dentista, tasse, pioggia, supermercato, conversazioni riportate…
In questa faccenda che si è aperta a me, arresa a una forma sempre aperta e flessibile, c’è come un’eco del moto indefinito e a oggi inesauribile dei corpi celesti. Se volessi restarci vent’anni potrei, e poi certo finirebbe con me, con la mia morte, se volessi. Certo è che a oggi non so se voglio o se saprò rimanerci cosí tanto, ma è una vita parallela che si costruisce da sola camminando sulla Scena e sulla quale, andando, trovo addirittura un certo numero di sorprese, allora, almeno per un po’, sarebbe un peccato non restarci.
Mi ricordo che tre anni fa, quando ho cominciato a pensare a questo lavoro, il referente fascinoso principale era Balzac, con la sua Commedia umana.
C’è da dire che dopo anni di isolamento psicologico e sociale profondo, dovuto a fattori diversi e in questo contesto non pertinenti, avevo scoperto gli altri. Tutti gli altri. Chiamiamola pure umanità. Quella che esiste e vive al di fuori della mia testa. C’era, l’avevo vista e volevo parlarne.
Certo, non capivo perché, partendo io dalla chiusura tematica della depressione di una donna, dovessi essere affascinata dall’affresco infinito.
Eppure.
Non cercandolo, ho trovato un ciclo.
Un ciclo, questo di Origine, che io obbligatoriamente costruisco su una vita, quella di una donna, che per certi versi è la mia e per altri no. E che si declina in capitoli. A oggi ho scritto quasi del tutto i primi quattro, non ho idea di quanti potrebbero essere.
La linea-traccia iniziale è una crisi individuale che travolge un gruppo familiare, nella fattispecie la crisi di una madre, Daria, che fagocita la figlia Federica. Crisi dovuta a una depressione che si installa, e rende obbligatoria l’esplorazione psicoanalitica ma anche drammaturgica – diciamo gestaltica – di dinamiche affettive e familiari.
Disfunzionali ma radicate, le dinamiche conosciute chiamano sempre nuovi elementi a illustrare i come e i perché della loro genesi. Per capirle e affievolirle quello che già c’è non basta, c’è bisogno di ripescare cadaveri parlanti, c’è bisogno di incidenti, e di nuovi arrivati. Oltre al coro canonico e indispensabile di figuranti del dolore composto da madre, marito, fratelli, amici, nonni, cugini, persino vicini.
Una vita che si inceppa e che sente, nell’impasse obbligata, il bisogno di indagare suo malgrado quel Cominciamento per tutti noi misterioso, attraverso anche una particolare modalità di gestione del Figlio. In fondo la genía è l’unica prova spicciola e familiarissima che ognuno di noi ha della possibilità di essere assoluti demiurghi di un Inizio. E da lí, da quell’atto massimo di vitalità, ritrovare il nostro, di Inizio.
Indago la coscienza di una Madre, quello che lei ne sa di tutto quello che in fondo lei significa e a cui appartiene, malgrado e al di là di lei; esploro gli stati d’animo mortificati di una Figlia adultizzata, la sua assenza di modelli, la sua tenacia; tratteggio l’indifferenza, la rabbia e l’impotenza di tutti gli altri, quelli ch...